Il cinema di Wes Anderson: cos’è lo stile?
Nell’arte, il contrario della stilizzazione non è l’assenza di stile. Il contrario della stilizzazione è il naturalismo. Si pensi ai film di Wes Anderson: ogni elemento è messo sulla scena per ricordarci che stiamo vedendo un film girato da un autore, un film con uno stile ben preciso e riconoscibile, proprio perché ci viene ricordato continuamente ed esplicitamente quale sia questo stile, di quali artifici esso si serve: inquadrature simmetriche, colori molto saturi, recitazioni grottesche, sceneggiature surreali, uso dei dolly shots (camera montata su dei binari), rottura della quarta parete, narratori. Tutte queste caratteristiche tecniche fanno sì che un film di Wes Anderson sia un film di Wes Anderson, ma per comprendere la vera essenza della poetica dell’autore non basta elencare le caratteristiche che definiscono la sua autorialità. Dobbiamo chiederci perché l’autore ha deciso di definire la sua autorialità in quei termini.
Wes Anderson non vuole solo creare un film perfettamente prodotto, vuole ricordarci che quel film è stato perfettamente prodotto. Si potrebbe dire che la visibilità della produzione cinematografica è parte integrante della trama di un film di Anderson. Tuttavia la visibilità della finzione non è il fine ultimo delle opere di Anderson, il che rende la sua poetica il tentativo di superare lo spirito postmoderno, distruggendolo dall’interno. In una famosa intervista del 1993 rilasciata a Larry McCafferty per la “Review of Contemporary Fiction”, David Foster Wallace ha definito così l’atmosfera di esaurimento della rivoluzione postmoderna nelle arti:
“Questi ultimi anni dell’era postmoderna mi sono sembrati un po’ come quando sei alle superiori e i tuoi genitori partono e tu organizzi una festa. Chiami tutti i tuoi amici e metti su questo selvaggio, disgustoso, favoloso party, e per un po’ va benissimo, è sfrenato e liberatorio, l’autorità parentale se ne è andata, è spodestata, il gatto è via e i topi gozzovigliano nel dionisiaco. Ma poi il tempo passa e il party si fa sempre più chiassoso, e le droghe finiscono, e nessuno ha soldi per comprarne altre, e le cose cominciano a rompersi o rovesciarsi, e ci sono bruciature di sigaretta sul sofà, e tu sei il padrone di casa, è anche casa tua, così, pian piano, cominci a desiderare che i tuoi genitori tornino e ristabiliscano un po’ di ordine, cazzo… Non è una similitudine perfetta, ma è come mi sento, è come sento la mia generazione di scrittori e intellettuali o qualunque cosa siano, sento che sono le tre del mattino e il sofà è bruciacchiato e qualcuno ha vomitato nel portaombrelli e noi vorremmo che la baldoria finisse. L’opera di parricidio compiuta dai fondatori del postmoderno è stata importante, ma il parricidio genera orfani, e nessuna baldoria può compensare il fatto che gli scrittori della mia età sono stati orfani letterari negli anni della loro formazione. Stiamo sperando che i genitori tornino, e chiaramente questa voglia ci mette a disagio, voglio dire: c’è qualcosa che non va in noi? Cosa siamo, delle mezze seghe? Non sarà che abbiamo bisogno di autorità e paletti? E poi arriva il disagio più acuto, quando lentamente ci rendiamo conto che in realtà i genitori non torneranno più – e che noi dovremo essere i genitori.”
La caratterizzazione stilistica del postmodernismo potrebbe essere definita esattamente come abbiamo definito lo stile cinematografico di Wes Anderson: un continuo promemoria del fatto che stiamo assistendo a una finzione. Lo stile postmoderno consiste in una esasperazione così esacerbata dello stile da far sì che esso assorba tutto il contenuto. In altre parole, nel postmodernismo lo stile è tutto il contenuto trasmettibile di un’opera. Per questo esso è un’opera di scardinamento e di rottura, ma per questa stessa istanza rivoluzionaria nei confronti di quella sorta di ingenuità letteraria precedente, è impossibile che il postmodernismo diventi lo stile mainstream senza tradirsi in modo irrimediabile. Eppure è quello che è successo. A un certo punto la voglia di rottura dell’ordine costituito è diventato ordine costituito. In quello stesso momento ha perso la sua portata rivoluzionaria ed è diventato un esercizio di stile fine a se stesso, una masturbazione intellettuale e una epocale deresponsabilizzazione dell’intellettuale riguardo al ruolo morale dell’arte. I postmodernisti sono diventati i ragazzi alla fine del party, strafatti e nauseati, nel limbo dell’attesa di genitori che non arriveranno mai, tesi tra il desiderio che qualcuno metta in ordine il salotto e la certezza che non saranno di certo loro a farlo.
È sbagliato ma comprensibile che queste siano le principali critiche rivolte anche a Wes Anderson. Tuttavia io credo che i film del regista americano non si possano inscrivere nella (non) poetica postmodernista: come ho notato sopra, nelle opere di Anderson lo stile non assorbe completamente il contenuto. Piuttosto ne mette in moto la trama e ne costituisce la meraviglia, ma tutta l’impalcatura stilistica indica qualcosa di più profondo che non se stessa. Come una cattedrale gotica non è solo una costruzione di contrappunto ma rimanda come immagine speculare alla grandezza di colui per cui essa è stata costruita, così i film di Anderson usano la stilizzazione esasperata per omaggiare l’arte di raccontare storie, piuttosto che come mezzo per denigrarla: in questo movimento emotivo sta il senso del superamento del postmoderno. I film di Anderson creano una commistione unica e apparentemente contraddittoria tra fiaba e postmoderno, usano la meraviglia immaginifica della prima e gli artifici decostruttivi del secondo. Noi sappiamo sempre di star vedendo un film di Anderson, perché è proprio l’autore a ricordarcelo continuamente, sottraendo strutturalmente la possibilità di una sospensione dell’incredulità. Per quanto le situazioni prese a livello oggettivo siano tipicamente realistiche nei film di Anderson, la loro messa in scena è volutamente surreale. È da questo contrasto tra stile e oggetto che deriva il senso autoironico e autocosciente dei film del regista.
Mettete a confronto un film come Avengers: Endgame con un film come Grand Budapest Hotel. Tutti saranno concordi nel dire che gli eventi del primo sono ben più irreali di ciò che avviene nel capolavoro di Anderson. Eppure la differenza è che Avengers: Endgame si prende estremamente sul serio. È per questa ragione che possiamo affermare che Avengers è un film molto più realistico di Grand Budapest Hotel: il primo infatti cerca di creare una coerenza interna all’opera, ponendo dei presupposti che una volta accettati rendono un realismo interno all’opera che è sostenuto dal naturalismo della recitazione, degli elementi scenici, delle inquadrature ecc. In Grand Budapest Hotel, al contrario, abbiamo il ribaltamento di questo approccio naturalistico. Tutto, dalle inquadrature alla recitazione, punta l’attenzione sulla presenza di una camera, di un regista, di attori, di oggetti di scena… Mentre nella maggior parte del cinema contemporaneo il regista cerca di essere assorbito sulla scena, di girare un film come se esso fosse la registrazione di una quotidianità naturale, Wes Anderson ci fa sentire che siamo in un film. E la magia delle sue opere è che questo non significa che lo spettatore perde il suo coinvolgimento.
Anderson ha invece dimostrato che è possibile rompere la sospensione dell’incredulità senza far svanire la meraviglia. Ha dimostrato che la forza di una storia è molto più potente di come sarebbe se l’unico motivo per cui ci appassioniamo ad essa è cedendo la nostra consapevolezza. Al contrario ha mostrato che anche e soprattutto lo sforzo riflessivo e consapevole sull’opera costituisce il piacere dell’esperienza mentre la si fruisce. Questo perché la poetica di Wes Anderson non si riduce a una mera espressione di consapevolezza della finzione: il fine delle opere di Anderson non è rivelare la finzione ma esaltarla. Non è mostrare il meccanismo del cinema, o meglio non è solo questo. Perché la visibilità della finzione è solo il primo passo per esprimere l’amore sincero per quella meravigliosa finzione. Il cinema di Anderson è un’ode al cinema, è l’espressione del suo amore per i film, per le storie e il riconoscimento che le storie e la finzione narrativa del cinema ci salvano davvero la vita, come accade ripetutamente ai personaggi delle sue opere, che trovano una dimensione di salvezza proprio nei rapporti tra di loro, nelle relazioni umane. È questo il fine morale del cinema di Anderson, che mi fa dire che esso è il superamento del postmoderno, la responsabilità di una nuova sincerità, di un’umanità salvifica, che non ha paura di esprimere sentimenti e profondità emotiva. C’è sempre una scena nei film del regista statunitense che sembra cambiare le sorti della Storia (sia quella con la s maiuscola che quella con la s minuscola), una scena che sembra far convergere tutto il film verso sé stessa. È di solito l’espressione un affetto disinteressato tra due personaggi, che nel bel mezzo di avvenimenti assurdi e surreali, riconoscono la loro vicinanza, unico ordine profondamente sensato in un mondo che è solo formalmente ordinato secondo inquadrature simmetriche ma che per il resto è dominato dall’assurdo. L’affetto di Zero e Mr. Gustave in Grand Budapest Hotel ne è un esempio lampante.
Il fine delle storie di Anderson è mostrare quanto siano belle le storie, quanto abbiamo da imparare da esse, quanto di esse possiamo meravigliarci. E così, Anderson riesce a scrollarsi di dosso il peso di quel disagio acuto di cui parlava Wallace. Sa che non arriveranno i genitori. E inizia lui stesso a mettere in ordine dopo la festa.