Non chiamatelo “black humor”
di Gresa Fazliu e Erica Turchet
Apro la chat di Telegram e noto una quantità notevole di messaggi. Scorro febbricitante e inizio a leggere. Più scrollo, più mi salgono sentimenti di disgusto, rabbia, incredulità e infine rassegnazione. È possibile che ragazzi così giovani ci vedano solo come delle “fighe” da votare? Quante volte mi è capitato di leggere commenti del genere su Facebook, Instagram, gruppi Whatsapp e di fare una di quelle risate amare, perché “tanto tutti ridono” e non vuoi ridere anche te? Ma poi gli anni passano e passa anche la voglia di accettare queste squallide battute, che vengono spacciate per “black humor” o “satira”. Quello che più mi stupisce è il modo in cui si parla delle candidate, così oggettivo, asettico, noncuranti del fatto che sono loro compagne di corso, persone che si mettono in gioco per migliorare l’università, sono persone come loro che soffrono quando vengono giudicate solo per il loro aspetto fisico e non per le loro capacità. Quello che più stupisce è che sono studenti universitari, adulti che hanno ricevuto un’educazione al di sopra della media, persone che trattano di body shaming, violenza sulle donne, revange porn come argomento di conversazione usuale e stigmatizzano tali atteggiamenti in pubblico.
Rileggo e rileggo le frasi dette e penso a quanto la nostra società sia ancora ad un punto fermo. Un punto che conosciamo tutti benissimo, il patriarcato. Ne siamo veramente mai usciti? Andiamo in ordine. La prima cosa da tenere a mente di questi commenti è da chi sono stati scritti; il genere maschile. La seconda cosa è il diritto che ha pensato di avere scrivendo quelle cose, e la terza – fondamentale a mio avviso – che oltre a ciò sia stato fatto in una chat da 300 membri – e oltre. Esiste ancora il patriarcato? Si. È questo: pensare di poter sminuire la donna pubblicamente – non chiamiamola chat privata – credendosi superiore. Per quanto si pensi che questo sistema sociale – il patriarcato – appartenga ormai al passato dicendo: “le donne hanno voce”, così non è. Rileggendo quelle parole mi chiedo che futuro ci aspetta se i cresciuti nel nuovo secolo continuano a cadere negli stessi vecchi schemi, portando avanti pensieri che provengono dal passato. Pensieri, che se non corretti sul nascere rischiano di non sparire. È una catena portata avanti da generazione in generazione che ancora non è stata spezzata del tutto, e questo si denota dal fatto che, a quei commenti nessuno ha risposto con un semplice “ma che stai dicendo?”. Bastavano queste quattro parole dette. Forse il pensiero di chi ha scritto queste cose non sarebbe cambiato o forse avrebbe smosso la coscienza dei membri del gruppo, forse così ne sarebbe scaturita una discussione sana. Invece nella più totale anomia, si è dovuti ricorrere a un canale terzo, dove il carnefice stesso è diventato vittima di una discussione senza fine, che non ha portato da nessuna parte. Nuovamente, non si è sfruttata l’occasione di instaurare uno scambio che avrebbe potuto far ragionare sulla gravità di certe frasi.
Anche in questo 25 novembre si continua a parlare di violenza sulle donne, di stupro, di machismo, di patriarcato, come fossero fenomeni lontani dalla nostra realtà, propri dell’uomo nero, brutto, cattivo, non educato. Eppure come dimostrato in questi giorni, anche i giovani e le giovani ben pensanti, possono cadere nella trappola del sessismo e non rendersene neanche conto. Non è solo colpa loro, siamo figli e figlie di una società che ancora non riesce a non dare dell’ “ingenua” a una vittima di stupro, a riconoscere loro una posizione di potere per le loro capacità senza dover pensare che “o è una stronza o l’ha data a qualcuno”. Si continua a dire “ma dai era solo una battuta, che acida che sei, non capisci l’umorismo”, ma niente di tutto questo fa ridere, anche questa è violenza, seppur verbale, è sottile, ma viscida e inaccettabile come quella fisica. E chi l’avrebbe mai detto che si nascondeva anche a UNITN?