Gaber volant, Faber manent
“Verba volant, scripta manent”
Questo detto, divenuto famoso nei secoli, fu pronunciato secondo la tradizione da Caio Tito in un discorso al senato romano, per raccomandare la prudenza di mettere per iscritto le condizioni di un accordo, che altrimenti sarebbe rimasto un’accozzaglia di “parole volanti”, morte subito dopo esser state enunciate, senza nulla che ne attestasse la validità, senza nulla che ne comprovasse il valore. Bisogna però sapere che, in origine, il detto aveva una valenza opposta: in un’epoca in cui la gran parte della popolazione era analfabeta, la stampa non esisteva ed era quindi piuttosto rara e poco accessibile la circolazione di manoscritti, la parola era qualcosa di vivo, che nel costante scambio fra interlocutori circolava, si librava e “volava” di bocca in bocca, fino a raggiungere anche le zone più remote dal luogo in cui era stata proferita, mentre lo scritto rischiava di impolverarsi, fisso nella sua altezzosa immobilità e tortuosa decifrabilità, sugli scaffali e le scrivanie di pedanti studiosi. Considerando entrambe le accezioni del detto, abbiamo da un lato la vivacità, l’esuberanza e la poliedricità di una parola orale ma mortale, e dall’altro lato l’immortalità, l’eternità e la fedeltà di una parola scritta ma asciutta.
È attraverso questa futile e artificiosa contrapposizione, caro lettore, che voglio introdurti a quella è la distinzione fondamentale che c’è fra i due più grandi chansonnier “impegnati” (non me ne vogliano il buon Francesco e la sua roboante Locomotiva) della tradizione cantautorale italiana: Giorgio Gaber e Fabrizio De André.
Diciamo subito che Gaber, nell’articolo che seguirà, rappresenta la parola orale e De André la parola scritta. Il confronto che segue è fra due autori molto simili per l’ambito musicale e le tematiche trattate, ma per molti aspetti distanti nella filosofia, nei valori morali e nella spiritualità. Se un confronto fra questi due autori mi appare comunque lecito, ammetto che vi è un intento, che preferisco rendere manifesto piuttosto che latente, che ne regge la trama: ed è quello di riconsegnare Gaber a una fama maggiore di quella che attualmente gode, soprattutto rispetto a De André. E questo nonostante, come argomenteremo di seguito, vi sia una ragione del perché Gaber gode e godrà sempre di questa minor fama. Il focus su cui ci andremo a concentrare, senza la pretesa di esaurire un confronto su cui si potrebbe scrivere un libro, è da un lato l’immortalità dell’opera di De André, in cui l’espressione del sentimento raggiunge forse le vette che hanno consegnato i vari Catullo, Virgilio, Dante e Ungaretti all’eternità[1]; dall’altro, la “mortalità” dell’opera di Gaber, un uomo che per tematiche affrontate resta molto più legato al suo contesto storico, agli anni ’60, ’70 e ’80 del ‘900 e ai temi sociali, culturali e politici che innervarono la sua epoca. Tuttavia, come si cercherà di argomentare, sia nei testi, che nell’impostazione metrica e nell’interpretazione degli stessi, che nella modulazione della voce (anzi, delle voci) con cui canta, rivela una vivacità, un ardore, una vitalità che nelle canzoni di De André, modulate quasi sempre su un tono basso, profondo e regolare è molto, molto minore.
In Fabrizio De André è più facile vedere le stimmate del classico poeta, che per la relativa convenzionalità dei temi trattati[2], per l’accuratezza metrica dei testi[3] e l’abbondanza di riferimenti alla poesia di ogni tempo[4], è facilmente accostabile all’aeree dell’Olimpo dei poeti della storia. Per Giorgio Gaber, il discorso non può invece essere impostato su un suo possibile accostamento con i poeti della tradizione. Innanzitutto, la metrica dei testi di Gaber è tendenzialmente più “sgangherata”, le rime sono più rare (vengono invece predilette le assonanze) e nell’interpretazione dei brani il cantato spesso si mescola, si confonde, e talvolta viene interrotto, dal parlato. Ciò conferisce alle sue canzoni, in generale, un’armoniosità e una melodiosità molto minori rispetto a quelle di De André. Naturalmente il discorso qui è molto generalista, ne sono consapevole. Potrebbero esser citati degli esempi specifici, soprattutto nel caso di Gaber, che non confermano la tesi qui esposta. Assieme a Sandro Luporini, il cantautore milanese ha scritto testi senz’altro degni di una nota poetico-letteraria, che qualcuno potrebbe cercare di paragonare a quelli di De André, inoltre, sebbene il linguaggio sia diverso (più filosofico che poetico, si può riduttivamente dire), anche in Gaber ritroviamo un uso raffinatissimo della lingua. Ciononostante, se guardiamo al complesso dell’opera di Giorgio Gaber, al “Geist” che la anima, la componente “poetica” nel senso classico del termine passa in secondo piano. A suffragare questa tesi riporto il fatto che, mentre De André comincia a essere presente nei più moderni libri, se non addirittura nei manuali, di storia della letteratura e della poesia italiana, Giorgio Gaber, assieme a Sandro Luporini, ne è completamente assente. Infine, vorrei aggiungere a sostegno di ciò, che mentre in generale i testi di De André sono apprezzabili anche “in sé e per sé”, attraverso la loro sola lettura e analisi (senza nulla togliere al valore aggiunto che vi dà la musica, questo è ovvio), i testi di Gaber non sono scindibili dall’interpretazione del cantante, o meglio, dell’attore. Il primo motivo è che questi erano pensati per essere trasposti in una rappresentazione teatrale, quella propria del teatro-canzone[5], di cui Gaber fu l’inventore italiano, e il massimo interprete sinora. Ridurre l’arte di Gaber ai soli testi, sarebbe un po’come voler ridurre Shakespeare ai libri su cui sono trascritti i suoi drammi.
Se quindi De André è universalmente riconosciuto come “il cantore degli ultimi”, un cantautore anarchico dalla vena poetica molto raffinata, militante dell’anticonformismo e del rifiuto dei valori della società borghese tradizionale (l’unica militanza che è forse lecito attribuirgli), in Gaber troviamo un autore altrettanto fuori dagli schemi, ma dalla connotazione politica e sociale ben precisa, che è quella prima di un comunista, e poi di un comunista deluso, che anche nelle manifestazioni più esplicite della sua ideologia non nascose mai il tormento e le contraddizioni che l’impegno politico per una comunità, e la sua personalissima dimensione esistenziale, gli ponevano continuamente, dividendolo fra un forte senso di appartenenza e uno spirito critico che mal si lasciava sedurre dalle semplificazioni, le mode e le ingenuità. Naturalmente, l’appartenenza politica di Gaber e la relativa delusione nei confronti della quale Gaber maturò nel corso dei tardi anni ’70, non è l’unica tematica del cantautore milanese. Tuttavia, si può dire che è quella preponderante, e che tolte forse alcune canzoni relative a temi più introspettivi (come I mostri che abbiamo dentro, o La Parola Io) o relative all’amore (Quando sarò capace di amare), in qualche modo essa “colori” sempre le sue canzoni.
Da questa breve connotazione dei due autori, su cui spero possa essere d’accordo chiunque sia un discreto conoscitore dell’opera omnia di entrambi, risulta chiaro come in De André sia presente in grande misura l’espressione di sentimenti o pensieri universali (di cui la poesia si occupa), sia pure attraverso storie particolari, e sia pure lasciando intendere la propria personale Weltaanschaung. L’ora di libertà narra, per bocca di un criminale, della repulsione per un potere dispotico che opprime la libertà degli uomini. Un Giudice parla, per bocca di un nano, della frustrazione che spesso un uomo di potere nasconde, e che scarica, sublimandola molto spesso sugli gli innocenti. E si potrebbe continuare con numerosi esempi.
In Gaber, invece, l’espressione di sentimenti universali non voglio dire che sia del tutto assente, tuttavia, risulta spesso fortemente filtrata, se non proprio limitata, da un forte componente espressiva del tutto personale, soggettiva, più primordialmente “emotiva”. Se in Fabrizio De André il sentimento e il pensiero espresso si sublimano nelle forme e nei canoni della poesia, in Gaber la presenza dell’Io è del tutto preponderante, tale che riesce difficile scindere il messaggio del testo, con cui l’ascoltatore può identificarsi, dall’autore e dalla sua soggettività. Un fatto oggettivo a supporto di quanto detto, sta nel fatto che De André utilizza raramente la prima persona nei suoi testi, e quando lo fa, è quasi sempre per immedesimarsi in un personaggio che, narrando la sua storia, narra un messaggio; è questo il caso del già citato Il Giudice o de Il testamento di Tito, dove si narra di un uomo che, contestualizzandoli nel suo vissuto, sfida l’eterna validità e la dogmaticità dei Dieci Comandamenti e di altre canzoni. In Giorgio Gaber l’utilizzo della prima persona singolare è invece più la regola che l’eccezione, e il riferimento di questa prima persona è praticamente sempre l’autore. In sintesi, si può dire che se De André narra le sue canzoni, e filtra attraverso di esse il suo pensiero, Gaber vive, si manifesta e si esprime “nelle sue canzoni”. Come casi emblematici possiamo citare Non è più il momento, dove Gaber narra a sé stesso, in un interscambio repentino fra una prima persona singolare e plurale (un io/noi), e una seconda persona singolare (un tu), con una voce drammatica, quasi dilaniata, la sua struggente nostalgia per un cambiamento sociale, politico ma anche spirituale che poteva essere, e non è stato. Per quanto riguarda il messaggio universale, se in tutti noi è presente una nostalgia per ideali che, vuoi perché siano stati traditi, vuoi perché si siano rivelati ingenui, abbiamo abbandonato, il riferimento di Gaber alla propria esperienza personale è ben chiaro ed evidente: Gaber parla della delusione nei confronti della mancata realizzazione del ’68, un sogno che lo aveva sinceramente appassionato, tanto da indurlo ad abbandonare una consolidata carriera di successo nella musica e nella televisione italiana, per tentare la fortuna in una forma artistica del tutto nuova, quella del teatro-canzone, in cui avrebbe potuto esprimersi più liberamente. In Quando è moda è moda, poi, gli esiti della Rivoluzione del ’68 sono messi sfacciatamente alla berlina dalla prepotente prima persona singolare di Gaber, che bolla come “futili modaiolismi” gli attivismi post-sessantottini, che hanno reso i progressisti di fine anni ’70 “non tanto diversi dai piccoli borghesi”, che tanto criticavano. Un altro caso, il più emblematico, è quello della canzone Io se fossi Dio, in cui Gaber si immedesima in Dio, il quale, nonostante sia quanto di più universale si può immaginare, “è usato” da Gaber per condannare una situazione storica, geografica e politica in particolare, quella dell’Italia di fine anni ’70, cui l’autore era, soprattutto sul versante critico, indissolubilmente legato.
Risulterà quindi chiaro, da quanto detto, che De André, per l’universalità dei suoi messaggi, l’armoniosità delle sue composizioni e il generale “fascino poetico” che lo circonfonde, è più destinato a permanere nel tempo. Tuttavia, come ho cercato di argomentare, la forza, la vis, il sentimento e l’esplosività che irrompono dalle canzoni (e dai monologhi) di Gaber, talvolta violente e polemiche, talvolta caustiche e irrisorie, talvolta malinconiche e struggenti, talvolta anche ironiche e leggere, hanno una vitalità che l’eterea poesia di De André non riuscirà mai a eguagliare e come ogni cosa viva, prima o poi, pagano lo scotto della loro mortalità. L’uno ha raccontato, attraverso la sua opera, valori universali che da sempre animano il cuore e la mente degli uomini, ma che si mantengono comunque nell’astrattezza della loro generalità. L’altro ha inscenato sé stesso su un palco, nel suo essere unico e irripetibile, con la forza travolgente di un sentimento terreno e concreto, in cui magari è più difficile rispecchiarsi, ma verso il quale, una volta riconosciutane l’intima, sincera e autentica “nudità”, non si può che provare una fortissima ammirazione.
Di seguito propongo il link per le due canzoni che ritengo il testamento di Gaber e De André. Sono consapevole dell’arbitrarietà della scelta, ma sono certo che quantomeno sono due canzoni rappresentative di una buona parte del pensiero e della poetica dei due autori. Le lascio qui, nella speranza che chiunque conosca solo uno dei due autori abbia l’occasione di affiancarsi anche all’altro. Inoltre ritengo che, come queste due canzoni siano i testamenti dei due artisti, esse siano anche emblematiche nel rappresentare quanto finora ho descritto e argomentato dell’opera dei due cantautori.
Le canzoni sono “Io se fossi Dio” di Giorgio Gaber, e “La città vecchia” di Fabrizio De André.
IO SE FOSSI DIO https://youtu.be/S3Fn7C7awqw
LA CITTÀ
VECCHIA https://youtu.be/cKBjwy25fkQ
[1] un’eternità che si rende manifesta nel fatto che De André è ancora ad oggi, anche presso i giovani, il cantautore e poeta italiano più conosciuto ed emblematico.
[2] sono ricorrenti, nel poeta genovese, diversi topoi della poesia d’ogni tempo, come l’amore, il libertinaggio sessuale, la critica al potere, la miseria degli ultimi nobilitata attraverso la poesia.
[3] la scrittura di alcuni testi, come per esempio la Canzone di Marinella, è in quartine endecasillabi. Inoltre, nel corso della sua opera, De André fa un uso variegato di vari tipi di rima, come la rima baciata, sempre in Marinella, la rima alternata, come in Tutti morimmo a stento, la rima incrociata, come in Il Testamento , la rima interna, come in alcune strofe de la Città vecchia. In generale, vi è anche un attenzione alle sonorità delle lettere e delle parole, che sono strettamente connesse a ciò che descrivono. Per un’analisi poetica de La canzone di Marinella, a titolo esemplificativo della sensibilità poetica di De Andrè, lascio qui il seguente articolo: https://alessandria.today/2020/05/18/fabrizio-de-andre-la-canzone-di-marinella-analisi-testuale/
[4]Le canzoni di Né al denaro, né all’amore né al cielo sono ispirate all’Antologia di Spoon River di Edgard Lee Masters, la derivazione della Città Vecchia da una poesia di Umberto Saba e la messa in musica di S’i fossi foco di Cecco Angiolieri, l’ispirazione per Bocca di Rosa a Brave Margot di Brassens, e si potrebbe continuare,
[5] Il teatro-canzone era una forma di spettacolo in cui Gaber, sul palco di un teatro, alternava monologhi, monologhi accompagnati da musica, dialoghi e canzoni nel corso di una singola performance, accompagnando il tutto con una drammaticità nella gestualità, nella parola e nell’interpretazione tipiche del teatro.