Il piacere di tradurre Joyce: Terrinoni racconta “Finnegans Wake”
James Joyce è una delle personalità più geniali e influenti della letteratura del XX secolo. Originario di Dublino, tra le sue opere principali vanno ricordate Dubliners, Ulysses e Finnegans Wake, libro in cui la tecnica del “flusso di coscienza” (la libera rappresentazione dei pensieri così come appaiono nella mente dell’individuo, senza venire riorganizzati logicamente in frasi dal senso compiuto) raggiunge le sue estreme conseguenze. La grande complessità di quest’opera la rende particolarmente enigmatica non solo agli occhi di coloro che ne affrontano la lettura, ma soprattutto di chi prova a tradurla.
L’argomento è stato trattato da Enrico Terrinoni, professore ordinario d’inglese presso l’Università per stranieri di Perugia, intervenuto nella mattinata di martedì 24 novembre in un incontro a cura di LETRA – Seminario di traduzione letteraria. Laureatosi con lode in lingue e letterature straniere all’Università di Roma Tre, nel 2004 Terrinoni ottiene il dottorato di ricerca in Irlanda presso il celebre University College Dublin. Riconosciuto e apprezzato per le sue traduzioni dall’inglese di opere classiche e contemporanee, il suo nome è particolarmente legato agli scritti dello stesso Joyce, di cui ha tradotto, tra le altre, l’Ulisse e alcuni libri del Finnegans Wake.
Il Finnegans, afferma Terrinoni, è un libro complesso e unico nel suo genere, considerato per lungo tempo intraducibile da molti critici. Josh Bishop, autore di Joyce’s Book of the Dark, sostiene che “nulla potrà mai rendere il Finnegans Wake meno oscuro”: il fascino del libro, dunque, risiede proprio nella sua oscurità. È importante sottolineare che il termine inglese, obscurity, non si riferisce solamente al significato di “oscuro” in quanto “buio”, ma di “oscuro” nel senso di “ignoto”, “invisibile”. Il Finnegans è obscure perché non è ancora totalmente conosciuto, ma il lettore può continuamente cogliervi nuovi dettagli e sfumature. Lo stesso titolo nasconde più significati: il nome “Finnegans”, infatti, può essere diviso in due parti (“fin” e “negans”), ottenendo l’espressione “negare la fine”. Bisogna inoltre considerare cosa intenda Joyce con tale termine: negare la fine o negare un fine? La prima ipotesi è avvalorata dal fatto che il Finnegans è un libro circolare, che comincia con una parola e finisce con l’articolo che avrebbe dovuto precederla a inizio romanzo, secondo il corretto uso della grammatica. Ora, rimane aperta la questione relativa all’esistenza di un fine nell’opera. Effettivamente, secondo Terrinoni il testo nasconde un potente messaggio di emancipazione linguistica: “il linguaggio è lo strumento più forte che possiamo usare per migliorare le nostre condizioni e quelle di chi ci circonda, ma troppo spesso viene ridotto all’essenziale per provare ad essere più efficaci.“
L’opera presenta un linguaggio particolarissimo, che mescola sapientemente parole note e sconosciute per crearne di nuove. In molti lo considerano come un libro profetico, che potrà essere letto nel futuro secondo i parametri e i contesti del domani: non del tutto capito nel passato e nel presente, forse gli uomini potranno raggiungere la sua completa comprensione negli anni a venire. Anche questa è una peculiarità che contribuisce a donare un’attrattiva unica al Finnegans. Ora, si consideri la seguente citazione:
“How bootifull… to steal our historic presents from the past postpropheticals…”
Da Finnegans Wake, 11.29-31
Si può notare subito la presenza di un neologismo creato da Joyce: il vocabolo “bootifull” si riferisce chiaramente a “beautiful” (meraviglioso), ma viene scritto in modo decisamente insolito. La radice “boot-” potrebbe riferirsi a uno stivale (appunto, “boot”), oppure a un bottino di guerra (“booty”). È chiaro che per l’interprete risulta molto complicato dare un significato alla nuova parola: Schenoni risolve il dilemma optando per la traduzione di “bootifull” in “generaloso”, spostando probabilmente il suo focus sul piano militare (“booty”). Dunque, partendo dal concetto di riferimento (“beatiful”, bello), il traduttore trova un’analogia tra il gergo bellico inglese della radice (“boot-“) e l’aggettivo italiano “generoso”, risolvendo il tutto nella scelta finale del termine “generaloso”. È più che lecito contestare a Schenoni l’incapacità di attenersi alla lettera del testo originale, ma è altrettanto vero che spesso il Finnegans costringe l’interprete a stravolgere alcuni vocaboli originali per ottenerne di nuovi nella lingua d’interesse.
Precedentemente Terrinoni ha accennato al carattere profetico dell’opera. Ecco un esempio di tale qualità nella seguente frase:
“… trump adieu atout atous...”
Da Finnegans Wake, 286.13
In questo caso la premonizione di Joyce è tanto chiara quanto sconvolgente. L’autore irlandese sembra salutare l’ormai ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump (“Trump, addio a tutto e a tutti”), sconfitto poche settimane fa dal democratico Joe Biden. Per avvalorare la tesi si consideri il significato delle singole parole dal francese all’inglese: con (a) “tout” si indica infatti un propagandista, un piazzista, mentre la particella privativa “a-“ davanti alla parola “dieu” potrebbe sottolineare il concetto di “non-Dio”. Ma non abbiamo ancora finito. Terrinoni illustra il seguente passo:
“Bide in your hush, do! The law does not aloud you to shout.”
Da Finnegans Wake, 305.25-6
Il passaggio può essere così tradotto: “Aspetta in silenzio! La legge non ti permette di strillare.” In inglese il verbo “to bide” significa “attendere”, ma è automatico il collegamento con Biden. In questi giorni, profeticamente, il democratico è riuscito a scalzare Trump con pacatezza e rigore, senza rendersi protagonista di grandi filippiche e sfuriate. Incredibilmente, Joyce sembra quasi invitare Biden ad aspettare con pazienza la sua vittoria, rimproverando indirettamente l’avversario Trump.
Ovviamente, il Finnegans Wake è profetico solo se lo intendiamo nel senso della possibilità: “è un libro che, per bocca di Joyce, non può essere compreso, nel senso che non può essere del tutto capito o circoscritto nel suo insieme, come l’universo che si espande e si comprime. È per questo che il “Finnegans” nega la sua fine.” Una domanda sorge dunque spontanea: come si può tradurre un testo che non può essere compreso e che sfugge al linguaggio comune? Il neologismo “shaddo”, ad esempio, racchiude ben tre concetti: “shadow” significa “ombra”, “El Shaddai” è uno dei nomi ebraici di Dio e, secondo il filosofo Giordano Bruno, caro a Joyce, le idee del mondo in cui viviamo non sono altro che “ombre” delle idee spirituali al di fuori del mondo dei mortali. Le tre nozioni, dunque, sono “ombra”, “Dio”, e “uomo”. La traduzione proposta da Terrinoni è “ombripotente”: si uniscono le parole “ombra”, “onnipotente” e “hombre” (spagnolo per “uomo”), riuscendo ad unificare con successo tutti i significati del termine originale.
Terrinoni, nello sviluppare il suo lavoro, spiega di aver letto con grande interesse la versione italiana del Finnegans elaborata da Joyce nel 1940. In particolare, Terrinoni osserva che, nell’auto-tradursi, l’autore di Dublino non abbandona mai tre punti chiave alla base dell’opera originale: la lingua irlandese, l’elemento comico e la musicalità. Restando su quest’ultimo concetto, Joyce era convinto che il Finnegans creasse una sorta di partitura musicale, che poteva essere ascoltata solo quando il libro veniva letto ad alta voce: così l’uditore poteva sentire ogni singolo suono a cui l’autore aveva prestato particolare attenzione durante la stesura del libro, riuscendo inoltre a distinguere le varie sfumature linguistiche appartenenti ai più diversi idiomi europei. Non è raro, infatti, trovare termini presi dall’italiano, dal francese, dal tedesco o da lingue nordiche.
In conclusione, si potrebbe definire il Finnegans Wake come un libro “democratico”. Lo stesso Joyce invitava i traduttori ad interpretare i suoi scritti con il massimo della libertà creativa, consapevole della mutevolezza del linguaggio e dell’impossibilità di traslare il significato letterale di alcuni termini, espressioni e neologismi in una lingua diversa. Ma è proprio qui che si nascondono l’unicità e il mistero insiti nell’opera di Joyce: il solo modo per comprendere cosa voglia dirci l’autore irlandese sarebbe entrare nella sua testa e questo è impossibile. Sta al lettore, quindi, provare a mettersi nei panni dello scrittore e cogliere il senso delle sue parole, rimanendo cosciente del fatto che la sua soggettività potrà a volte tradirlo, mentre in altre occasioni contribuirà a donare significati sempre nuovi al testo originale.