il Segnalibro – capitolo 3
Questo 2020 volge al termine, e non si può certo dire che sia stato un anno facile. Tuttavia, guardando indietro a come questi dodici mesi abbiano indubbiamente stravolto le nostre vite, seppure in misure diverse, penso valga un po’ per chiunque lo stesso discorso: abbiamo tutte e tutti riscoperto qualcosa che ci sembrava dimenticato. Per quanto mi riguarda, è stata la lentezza del tempo trascorso a casa senza fretta, senza impegni stringenti, senza ore in bici tra le strade della città. E come potrebbe in tutto questo non rientrare la lettura? È ben noto quanto sia difficile ritagliarsi del tempo per leggere al giorno d’oggi, con le tante distrazioni e la stanchezza che non favoriscono certo la concentrazione. I tre mesi di quarantena trascorsi a casa per me hanno significato un nuovo approccio alla lettura. Nell’impossibilità di uscire e vedere persone, leggere ha sostituito i viaggi e gli incontri. La lentezza delle giornate primaverili costretta in giardino mi ha dato la possibilità di farlo molto più di quanto non riuscissi prima, e questa intimità ritrovata con la lettura non si è poi esaurita con la fine del lockdown, regalandomi uno degli anni in cui ho letto di più. Per questo motivo, nel terzo capitolo della rubrica, che conclude questo anno strano e ci accompagna verso un altrettanto imprevedibile 2021, farò un breve resoconto delle letture di questo 2020 (quindi sicuramente ci troverete un’eco di cose già dette: non per niente, è proprio durante questa lenta primavera che ho maturato l’idea della rubrica stessa).
La Storia di Elsa Morante (1974)
Come primo romanzo, un classico di cui per troppo tempo ho rimandato la lettura. La Storia è il libro che mi è stato accanto per più tempo (ci ho messo alcuni mesi a completarne la lettura, alternandola a quella di libri più leggeri e rapidi) ed è sicuramente anche quello che più di tutti mi è rimasto dentro, per varie ragioni che cercherò di spiegare brevemente. Innanzi tutto, contrariamente a quanto mi aspettassi, non è un romanzo sulla guerra: il Secondo conflitto mondiale non è che uno sfondo per le vicende dei tantissimi personaggi. Inoltre, per citare Garboli, che ne cura l’Introduzione, non è affatto “un romanzo di dolore, contrizione e disperazione”. È anzi “gaio, arioso” e persino divertente. Dal punto di vista della scrittura, ho infatti amato tantissimo lo stile frizzante della Morante, l’uso del dialetto, la prosa ricca e densa, e al tempo stesso scorrevole e accattivante, in grado di divertire e commuovere, la dolcezza percepibile tra le parole, la capacità di raccontare tantissime piccole storie facendoti calare profondamente in ognuna di esse. La protagonista, Iduzza Ramundo, così taciturna e riservata, misteriosamente piena di segreti e preoccupazioni, pensieri profondi inaccessibili a chiunque, è riuscita con la sua quiete apparente a conquistarmi e a farmi affezionare moltissimo. Un’altra cosa che rende speciale il romanzo è l’attenzione per il mondo animale, il modo scherzoso in cui le vicissitudini umane dei protagonisti si intrecciano con quelle degli animali che incontrano, e come questi ultimi abbiano così tanto di umano e di come gli uomini abbiano così tanto di animale. Ninnarieddu, Useppe e Iduzza sono di quei personaggi che, una volta letta l’ultima pagina e chiuso il libro, sai che ti mancheranno moltissimo. E infatti è stato proprio così.
Elena Ferrante
Il 2020 è stato l’anno in cui ho scoperto Elena Ferrante, motivo per cui non mi limito a citare solamente un suo titolo. Nel primo capitolo di questa rubrica ho già parlato de L’amica geniale (2011-2014), la sua opera più vasta, tramite la quale mi sono approcciata alla sua lettura. La quadrilogia, che ho divorato nel giro di poche settimane, ricostruisce le tappe dell’amicizia tra Lila e Lenù, un’amicizia reale nella sua complessità, con tutti i suoi aspetti contraddittori e dolorosi. Le due protagoniste crescono in un rione della periferia di Napoli negli anni Cinquanta e il racconto prosegue per tutto il corso delle loro vite (infanzia, adolescenza, età adulta e vecchiaia). Della Ferrante, oltre alla prosa ruvida e magnetica, ho amato la capacità di riprodurre un intero universo di personalità complesse ed imperfette, che spinge a solidarizzare con tutti i personaggi, ma mai con nessuno in modo completo ed esclusivo. Nei suoi romanzi Elena Ferrante racconta senza veli cosa significhi essere donna, madre, amica, amante, figlia, sorella. Narra le difficoltà imposte da pregiudizi che sembrerebbero essere propri solo di una Napoli periferica e arretrata, ma che le protagoniste finiscono per riscontrare anche in ambienti diversi e insospettabili. I temi e le ambientazioni della saga si ritrovano in tutta la sua produzione. In particolare, ne La vita bugiarda degli adulti (2019), l’autrice descrive lo scontro doloroso di un’adolescenza difficile e incomprensibile con un mondo di adulti che si dimostrano sempre più imperfetti e riluttanti ad ammettere le loro tante colpe. C’è inoltre l’intreccio di mondi lontani, classi sociali differenti, che simbolicamente vengono incarnate dai quartieri della Napoli bene e quelli della bassa periferia. I romanzi della Ferrante sono per lo più dolorosi e pregni di amarezza, e forse riescono a catturare proprio perché non comunicano l’immagine di una realtà edulcorata e del lieto fine convenzionale. Le tappe della vita vengono raccontante senza alcun romanticismo, nel loro realismo spesso frustrante e ricco di compromessi. Suggeriscono anzi la latente, pessimistica consapevolezza che nella vita non c’è niente e nessuno di perfetto.
Middlesex – Jeffrey Eugenides (2002)
Middlesex è il secondo romanzo di Jeffrey Eugenides, pubblicato nel 2002 e premiato con il premio Pulitzer l’anno successivo. Eugenides è un autore che adoro e di cui ho già parlato nel primo capitolo, citando La trama del matrimonio. Middlesex è un altro libro imponente e ricco, per niente convenzionale. La persona narrante dà inizio al romanzo affermando: «Sono nato due volte: bambina, la prima, un giorno di gennaio del 1960 in una Detroit straordinariamente priva di smog, e maschio adolescente, la seconda, nell’agosto del 1974, al pronto soccorso di Petoskey, nel Michigan». A narrare infatti è Calliope Stephanides, nata da una famiglia di origine greca, che durante l’adolescenza scoprirà di essere quello che oggi chiameremmo un intersessuale, ma nel libro viene chiamato “pseudoermafrodito maschio”, e cambierà il suo nome in Cal. La trama però, riassunta in questo modo, non rende l’idea di quanto potente e articolata sia in realtà la storia. La vera protagonista del romanzo, infatti, è proprio la mutazione cromosomica che, nascosta e rimasta allo stato latente nel corredo genetico della famiglia Stephanides, la segue nel suo viaggio di emigrazione dalla Grecia agli USA. Callie (poi Cal) inizia infatti a raccontare la sua storia a partire dalle vicende dei suoi nonni, che emigrano da Smirne durante il conflitto greco-turco del 1922. L’itinerario della mutazione cromosomica fa da supporto per la voce narrante nel raccontare una storia corposa e divertente che copre tre generazioni: quella dei nonni, quella dei genitori e poi la sua. La narrazione delle vicende della famiglia Stephanides si accompagna quindi a quella di mezzo secolo di storia americana e fornisce anche un ritratto culturale della famiglia greca immigrata, che mantiene vive molte delle sue tradizioni, impersonificate nella figura della nonna, Desdemona, per sempre legata alla sua scatola di bachi da seta, portata con sé nel travagliato viaggio verso l’America. L’aspetto più bello del romanzo è la leggerezza. La vicenda di Cal non viene rivestita di nessuna tragicità, ma questo non significa che non venga riportata in modo sensibile o approfondito. È evidente come, cimentandosi nella narrazione, Eugenides abbia lasciato da parte qualsiasi preconcetto e abbia posto tutto nelle mani dei personaggi. Di questo autore amo moltissimo la capacità di descrivere i sentimenti, l’originalità degli espedienti narrativi, la ricchezza dei riferimenti culturali e letterari.
«Secondo me, le emozioni non possono essere descritte da singole parole. Io non credo in termini come “tristezza”, “gioia” o “rimpianto”. Sono proprio le eccessive semplificazioni che dimostrano le caratteristiche patriarcali della lingua. Mi piacerebbe disporre di complesse emozioni ibride, costruzioni di tipo germanico come: “la felicità che accompagna il disastro”. Oppure: “il disappunto di dormire con la propria fantasia”. Mi piacerebbe dimostrare che “gli annunci di mortalità portati da un membro della famiglia che invecchia” si collegano all’ “odio per gli specchi che comincia nella mezza età”. Mi piacerebbe avere una parola per definire “la tristezza ispirata dai ristoranti destinati al fallimento” come per “l’eccitazione che ti dà una stanza con il minibar”. Non ho mai trovato le parole giuste per descrivere la vita e adesso che mi sono immerso nel racconto della mia storia personale ne ho bisogno più che mai.»
Per quanto riguarda i romanzi penso di potermi fermare qui. Ce ne sono altri due, importantissimi per me quest’anno e per i quali rimando al capitolo precedente, in cui ne ho già parlato ampiamente. Mi riferisco naturalmente a Napoli mon amour (2018) di Alessio Forgione, che senza indugio è stato il mio romanzo preferito di quelli letti nel 2020, e Falsa partenza (2017) di Marion Messina.
Un piccolo appunto anche di saggistica! Consiglio due saggi molto interessanti. Uno è Liliana Segre. Il mare nero dell’indifferenza, a cura di Giuseppe Civati (pubblicato dalla sua casa editrice indipendente, People, nel 2019). Sono una grande appassionata di biografie, e quest’anno in occasione del novantesimo compleanno di Liliana Segre mi sono incuriosita e ho deciso di leggere questo saggio che riassume la sua vita, e l’ho amato molto, nonostante costituisca una lettura senza dubbio amara. L’altro è Il fascismo eterno di Umberto Eco (1995), indubbiamente più breve ma non meno intenso ed illuminante. Eco raccoglie una serie di considerazioni sul Fascismo, cercando di descriverlo in un’ottica generale, distinguendolo quindi dal nazionalsocialismo. Egli sottolinea come – proprio per questa sua minore specificità – il fascismo non si sia affatto estinto nel 1945, ma persista in modo latente nella società del nostro Paese, rischiando sempre di riemergere. Questo, secondo l’autore, è il motivo per cui la Resistenza deve essere un lavoro continuo e instancabile.
Concludo con un breve accenno alla poesia, consigliando questa raccolta: Life of the Party. When a Girl Screams and Other Poems (2019) di Olivia Gatwood, di cui non esiste una traduzione in italiano. Olivia Gatwood è una poetessa, scrittrice, attivista e educatrice americana, che io ho scoperto nel più banale dei modi: su Youtube. Sono una grande appassionata di poetry slam, e seguo spesso anche quelli in lingua straniera, tramite il web. Così ho scoperto Olivia, che scrive poesie bellissime su infanzia, adolescenza e sorellanza, sessualità, identità di genere e violenza sessuale.
Come al solito ho iniziato a scrivere con l’intenzione di essere breve e poi mi sono dilungata tantissimo! Direi che a questo punto posso concludere.
Spero davvero che abbiate trovato interessanti questi spunti di lettura e che stiate gradendo la rubrica in generale. Auguro a tutte e a tutti delle feste serene e un anno nuovo più luminoso e positivo, e vi do appuntamento a gennaio con un estratto da una poesia di Gatwood.
(…) and the sea, of course, the sea,
Olivia Gatwood – When I say that we are all teenage girls
its moody push and pull, the way we drill
into it, fill it with our trash, take and take
and take from it and still it holds us
each time we walk into it.
What is more teen girl than not being
loved, but wanting it so badly
that you accept the smallest crumbs and call
yourself full?