il Segnalibro – cap. 4

Nell’introdurre il suo Fragments d’un discours amoureux (Frammenti di un discorso amoroso – 1977), Roland Barthes scrive: «il discorso amoroso è oggi d’una estrema solitudine». E in seguito, durante un’intervista in merito alla natura del suo saggio, lo definisce «una morale di affermazione», e aggiunge: «Non bisogna lasciarsi impressionare dai deprezzamenti di cui è oggetto il sentimento amoroso. Bisogna affermare. Bisogna osare. Osare amare». Questa frase, in cui mi sono imbattuta in seguito alla prima lettura del libro, durante gli anni del liceo, mi è sembrata subito bellissima e molto vera. Recentemente poi ho letto Passion simple (Passione semplice – 1991), breve e meraviglioso romanzo di Annie Ernaux (autrice che amo molto e di cui sicuramente parlerò ancora). La prima cosa che ho notato – oltre alla meraviglia per quanto accuratamente descriveva qualcosa che mi sembrava di aver vissuto tale e quale – è stata l’inevitabile rimando a quella dettagliata fenomenologia amorosa che Barthes aveva tentato, anni prima, di descrivere in modo quasi scientifico. Fenomenologia alla cui analisi diceva di essere stato chiamato per motivi in parte personali ed oscuri. Ernaux racconta in una settantina di pagine la passione vissuta clandestinamente con un uomo sposato e l’opera costituisce una rottura con la sua produzione precedente, in quanto per la prima volta ha come tema una relazione sessuale tra due personaggi adulti. Ma più che descrivere la storia nei singoli avvenimenti particolari, l’autrice racconta ciò che questa passione ha significato nella sua vita di tutti i giorni, cosa l’ha indotta a vivere e fino a che punto è arrivata a condizionare la sua vita. «Mi aveva detto “non scriverai un libro su di me”. Ma io non ho scritto un libro su di lui, e nemmeno su di me. Ho soltanto trasformato in parole quel che il suo semplice esistere mi ha arrecato. Una sorta di dono a mia volta elargito».

In questo capitolo mi piacerebbe ripercorrere alcuni tra i Fragments più interessanti, e citare le parti di Passion simple che secondo me ne forniscono esempi di realizzazione perfetta. Soprattutto perché, se dovessi pensare ad un sentimento in grado di racchiudere in una sola parola quanto suscitato dal racconto di Ernaux, quella “solitudine estrema” di cui parla Barthes mi sembra la dicitura più calzante.

«Voler scrivere l’amore, significa affrontare il “guazzabuglio” del linguaggio: quella zona confusionale in cui il linguaggio è insieme “troppo” e “troppo poco”, eccessivo e povero» scrive Barthes sotto la voce “Inesprimibile amore”. Il saggio, infatti, si articola sotto forma di enciclopedia: ottanta voci in ordine alfabetico, ognuna delle quali costituisce un breve capitolo in cui vengono fornite definizioni e in cui sono poi raggruppati i “frammenti”, da opere letterarie e artistiche o filosofiche, che forniscono delle riflessioni dell’autore esempi calzanti e rappresentativi.

L’attesa – tra le prime voci elencate c’è “L’attesa”, definita “Tumulto d’angoscia suscitato dall’attesa dell’essere amato in seguito a piccolissimi ritardi (appuntamenti, telefonate, lettere, ritorni)”. Nel racconto di Ernaux sulla sua passione per A., l’attesa sembra rappresentare l’elemento più significativo. L’intera storia sembra esserne pervasa ed è proprio in questa continua attesa che sembra annidarsi la solitudine della protagonista. Tant’è che la voce narrante esordisce proprio così: «Sin dal mese di settembre dello scorso anno non ho fatto nient’altro che aspettare un uomo: che mi telefonasse e che venisse da me». Poco più avanti poi aggiunge che le telefonate di appuntamento di A. costituivano il suo solo avvenire. «Cercavo di uscire il meno possibile oltre i miei obblighi professionali, sempre per paura che chiamasse in mia assenza. Evitavo anche di usare l’aspirapolvere o l’asciugacapelli, che mi avrebbero impedito di udire lo squillo». È semplicissimo quindi riagganciarsi a quanto scritto da Barthes, che aggiunge alla sua definizione: «L’attesa d’una telefonata si va così intessendo di una rete di piccoli divieti, “all’infinito”, fino alla vergogna: proibisco a me stesso di uscire dalla stanza, di andare al gabinetto, addirittura di telefonare (per non tenere occupato l’apparecchio); per la stessa ragione, io soffro se qualcuno mi telefona». In questo continuo spaesamento dato dall’attesa c’è la totale dissoluzione della temporalità. Non c’è infatti il racconto di una storia, con una sua cronologia precisa, bensì un susseguirsi di sensazioni dettate prima dalla presenza, poi dall’assenza. «Io non conoscevo che la presenza o l’assenza. Affastello soltanto i segni di una passione, oscillando senza posa tra “sempre” e “un giorno”, come se un tale inventario mi possa permettere di raggiungere la realtà di quella passione». Annie Ernaux non vuole “spiegare” la sua passione («il che equivarrebbe a considerarla un errore o una follia di cui ci si deve giustificare»), ma per sua stessa ammissione vuole solamente esporla. Così come Barthes espone le varie fasi e le varie caratteristiche del processo amoroso. Ancora sull’attesa, Barthes afferma che si può identificare l’innamorato come “colui che aspetta”. Sebbene qualche volta questo provi a “giocare a quello che non aspetta” tutti gli espedienti pensati a questo scopo falliscono miseramente. Così come la voce narrante di Passion simple descrive le sue passeggiate per Parigi, quando si aspettava sempre di vedere A. passare in macchina, e camminava “impettita, in un atteggiamento già in anticipo orgogliosamente indifferente a quell’incontro”. Naturalmente questo incontro non si verificava mai, lasciandola vagare “sotto il suo sguardo immaginario, mentre lui era altrove, irraggiungibile”.

Insopportabile – sotto questa voce Barthes spiega: la coscienza di un accumulo delle sofferenze amorose trova sfogo con questa frase: “Così non può continuare”. In questa constatazione c’è tutta la lucidità espressa anche da Ernaux, che scrive: «Provavo incessantemente il desiderio di rompere, per non essere alla mercé di una telefonata, per non soffrire più». Questo perché lo squilibrio tra la passione di lei e l’indifferenza di A. la induce a non riuscire più a godere nemmeno della momentanea presenza di lui. L’assenza e la presenza arrivano al punto di fondersi fino a non essere più del tutto riconoscibili. «Vivevo il piacere come un futuro dolore» scrive Ernaux, descrivendo la perenne ossessione del “momento successivo”, che arriva inesorabilmente a guastare tutto il resto, costringendola in quella tensione dolorosa e inarginabile. («Mi domandavo con stupore: “dov’è il presente?”») Il sentimento di esasperazione è forte, ma equivale ad un bisogno del desiderio che la spinge a non recidere mai il legame. L’abitudine all’attesa si trasforma in dipendenza e la prospettiva di una sequenza di giorni senza più nulla da attendere le si presenta come un male ancora maggiore, qualcosa in cui sembra impossibile ritrovarsi, orientarsi ed andare semplicemente avanti.

Oggetti Ogni oggetto che sia stato toccato dal corpo dell’essere amato diventa parte di questo corpo e il soggetto vi si attacca appassionatamente. A questa definizione Barthes aggiunge anche: «Talvolta l’oggetto metonimico è presenza (che genera la gioia), talaltra è assenza (che genera lo sconforto)». Anche in Ernaux gli oggetti hanno una funzione fondamentale nello sperimentare la passione, così come nel raccontarla. «Spesso, avevo l’impressione di vivere quella passione come avrei scritto un libro: la medesima necessità di centrare ogni scena, la medesima preoccupazione dei singoli particolari». La protagonista finisce per legarsi indissolubilmente a tutto ciò che possa rappresentare una testimonianza, seppur remota, del passaggio di A., di un pomeriggio insieme o di un incontro. «Contemplavo i bicchieri, i piatti con i resti, il portacenere pieno, gli abiti, i capi di biancheria sparpagliati nel corridoio, la camera, le lenzuola (…). Avrei voluto conservare immutato quel disordine in cui ogni oggetto significava un gesto, un momento, componeva un quadro la cui forza e sofferenza non erano per me paragonabili a quelle di nessun altro quadro, in un museo.» Nel presente del racconto si annida l’importanza di tali oggetti e al tempo stesso la consapevolezza che un giorno forse perderanno questo loro valore. «Rileggere le prime pagine è altrettanto doloroso quanto guardare e toccare l’accappatoio di spugna che lui infilava da me e levava al momento di rivestirsi per andar via. La differenza: queste pagine serberanno sempre un senso per me, forse per altri, mentre l’accappatoio non mi evocherà più nulla un giorno, e lo aggiungerò a un pacco di stracci.»

Le diciture elencate da Barthes, nonché le analogie che mi è parso di cogliere col romanzo di Ernaux, sono sicuramente moltissime ancora, e lo spazio di questo breve capitolo non mi permetterebbe di analizzarle tutte. Vorrei però concludere con una breve riflessione. Durante un’intervista Barthes ha affermato: «Che cos’è questa “svalutazione” di cui oggi soffre l’amore? L’amore-passione (quello di cui ho parlato) non è “ben visto”; lo si considera come una malattia di cui bisogna guarire; non gli si attribuisce, come una volta, un potere di arricchimento (…) Dirò che ho scritto il libro per poterlo riconoscere! Per ricevere delle lettere e delle confidenze che mi permettano di pensare, ora, che ci sono molti più soggetti amorosi di quanto non pensassi…». In seguito all’indignazione espressa da Barthes per la scarsa considerazione di cui gode il sentimento amoroso, cui lui decide di rispondere provocatoriamente pubblicando un’opera che lo riveste di valore quasi scientifico, penso che il racconto di Ernaux, consapevolmente o meno, costituisca a distanza di qualche anno una risposta perfetta. Il racconto della passione vissuta sulla propria pelle, privo di qualsiasi abbellimento romanzesco, crudo nei suoi picchi di felicità e inabissamento, fornisce una fonte di immedesimazione veramente bella da leggere. L’autrice sottolinea di non provare alcuna vergogna nell’annotare questo racconto, e non si pone mai il problema, se lui abbia meritato oppure no il sentimento ricevuto. L’accento non è posto sull’ingiustizia o lo squilibrio della passione vissuta, ma sul suo valore. «Ho misurato il tempo in modo diverso, con tutto il mio corpo» afferma. «Ho scoperto di cosa si può essere capaci, cioè di tutto, desideri sublimi o mortali, assenza di dignità, credenze e comportamenti che trovavo insensati negli altri. A sua insaputa, egli mi ha unito ancora di più al mondo» . Non c’è quindi traccia di rimorso, né di biasimo per la sé stessa del passato, non c’è amarezza nelle parole dell’autrice. La possibilità di aver vissuto qualcosa di così intenso e vero è ben più importante della sofferenza che ne è inevitabilmente derivata. Questo mi ha regalato un racconto vero e prezioso, lontano da cinismi o recriminazioni, nel quale ho potuto rispecchiarmi e trovare persino sollievo. «Quando ero bambina, lusso significava per me pellicce, abiti lunghi, e ville sulla riva del mare. Più tardi, ho creduto che fosse condurre una vita da intellettuale. Mi sembra ora che sia anche poter vivere una passione per un uomo o per una donna».

Sara Nichiri

Sono una studentessa di Letterature, traduzione e critica letteraria presso l'Università di Trento. Mi piace leggere e condividere riflessioni, amo la musica e mi interesso anche di attualità, femminismo e sostenibilità.

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