Intervista al rettore Collini
Il 23 febbraio si terranno le elezioni per scegliere il nuovo rettore della nostra Università e conseguentemente terminerà il rettorato del prof. Paolo Collini. Per sei anni ha ricoperto tale carica cercando sempre di tenere un contatto con le studentesse e gli studenti dell’Ateneo. E’ sempre stato considerato una figura di riferimento per tutti gli studenti e tutte le studentesse che sono stati presenti in questi anni all’interno dell’Ateneo trentino e certamente c’è chi si dispiace per la fine del suo mandato. Per questo motivo, l’Universitario ha deciso di intervistare il rettore Collini per raccontarci com’è stata quest’esperienza e cos’ha intenzione di fare dopo.
Perché ha voluto candidarsi per questa carica sei anni fa?
Non so se me lo ricordo… l’ho rimosso! (sorride) A parte gli scherzi, nel mio caso forse ho anche avuto un po’ l’ambizione personale di poter fare qualcosa, di poter svolgere un ruolo. Poi sono anche convito che nel nostro mestiere a volte capita di prendere anche strade diverse: io presi quella di occuparmi della gestione dell’Ateneo già un paio di anni fa, quando divenni preside di Economia nel 2006, ormai 14 anni fa. Dunque, già un bel pezzo della mia vita professionale è andato così. A quel punto si comincia ad essere preso anche dal fare, oltre a quello che noi già facciamo di solito, cioè studiare e insegnare.
Mi piaceva anche l’idea così di poter lasciare un contributo in tal senso e comunque ad uno sembra anche di far bene, ma chiaramente ognuno ha la vanità di pensarlo. Come sempre si vuole progredire, e quindi fai una cosa e poi te ne piace fare un’altra e poi si creano le opportunità per farla. Il motivo era quello di poter fare qualcosa per questa Università. A me piace fare le cose e mi era pure piaciuta molto l’esperienza di preside, soprattutto nella prima parte, quando mi sembrava di poter fare tante cose. Al tempo avevamo realizzato l’intera riforma didattica, cambiato totalmente l’offerta didattica e allargato i confini dell’attrazione dei nostri studenti e messo in piedi i sistemi di test nazionale. Insomma, abbiamo apportato diversi cambiamenti che mi è piaciuto realizzare e che sono stati utili per affrontare la nostra Università e le nostre facoltà. E allora poi uno pensa di poterlo fare a livello più alto.
Certamente c’è anche un po’ di ambizione personale: uno vuole sempre raggiungere un traguardo in più finché non cominci a fare questa gara delle funzioni organizzative-gestionali, prima il direttore di dipartimento, poi il preside e poi il vice-direttore. Io infatti avevo fatto per un breve periodo anche il vice-direttore, poi il vice-preside del prof. Borzaga per un po’ di anni, successivamente il vice-rettore e il rettore vicario per la prof.ssa De Pretis ed infine il rettore.
Com’è stata questa esperienza da rettore?
Sicuramente molto diversa da quella che pensavo, pur essendo stato per due anni pro-rettore vicario, quindi molto vicino alla rettrice e ai compiti di questa carica. Gli aspetti che mi hanno più colpito sono stati soprattutto la gestione dell’Ateneo, che non è solo accademica e la gestione operativa, anche se poi la responsabilità prima è della direzione generale ed è molto difficile e complicata.
Con la pubblica amministrazione, poi, le cose sono diventate ancora più complesse. I tempi sono spaventosamente lunghi e le regole di buona amministrazione (o probabilmente ispirate dall’intenzione di creare buona amministrazione) sono molto pesanti, e quindi può anche darsi che producano buona amministrazione, ma solo dopo tanto tempo. Questo è stato sicuramente l’aspetto più deludente, che si è forse accompagnato ad un’epoca particolare in cui queste cose sono peggiorate! E non lo dico solo io, ma lo sentiamo anche nel dibattito politico di questi giorni. Se uno guarda, dovremmo spendere 209 miliardi nell’arco di qualche anno, ma non riusciremo mai a fare le cose che vogliamo in questo lasso di tempo. Per me, è paradigmatica la storia del Ponte di Genova, che è stato costruito di fatto in poco più di un anno! Questo significa che per produrre il ferro, mettere i bulloni, piantare i pilastri, buttare il cemento e asfaltare la strada ci vuole un anno più o meno. Se si fosse seguita una procedura regolare per realizzare quel ponte, sono sicuro che in meno di 10-12 anni non sarebbe stato pronto. Allora un Paese si deve anche interrogare se vale la pena buttar via 10 anni prima di avere una strada. Chissà cosa può succedere in questo periodo: cosa fanno i mezzi che dovrebbero passare per quella via, quanto tempo le persone sprecano nel traffico, ecc..
Questo è un po’ il dramma del Paese e certamente anche in parte nostro. Infatti, dal punto di vista edilizio, non siamo riusciti a realizzare quasi nulla (se non nulla). Spero di vedere inaugurato il cantiere di Borgo Sacco per il nuovo edificio della risonanza magnetica, prima di andarmene. Ecco, quella gara lì era pronta quando io sono arrivato, non ho inventato nulla! Invece non credo che riuscirò ad inaugurare la Biblioteca di Mesiano, che è un progetto già pronto a cui ho solo dato il via, sono partiti a scavare e sono passati sei anni. Ecco questa è un po’ la triste realtà.
Servirebbe una “rivoluzione” della Pubblica amministrazione?
Sì assolutamente! Noi poi abbiamo avuto anche un po’ di problemi, in quanto abbiamo purtroppo avuto delle indagini che hanno visto la nostra amministrazione oggetto di attenzione e che non si sono ancora concluse e che ovviamente hanno molto inciso sulla capacità interna. Difatti, da un lato ci sono state persone coinvolte che poi non hanno più potuto operare per un certo periodo, dall’altro si sviluppa quella che è “l’amministrazione difensiva”, cioè la gente ha paura di sbagliare e segue la strada più prudente e sicura, che è però quella delle regole esasperate e dei tempi lunghi. Tra l’altro, in queste indagini, ci tengo a precisare che non c’è nessuna ipotesi di concussione o simili, ma vi non sono state rispettate alcune procedure, sebbene non per motivi di interesse personale. Siamo comunque in attesa della sentenza. Ad ogni modo, gran parte degli accusati sono stati già assolti, anche se i danni sono rimasti perché, sebbene dopo tre anni ti abbiano assolto, nel frattempo le persone non hanno lavorato e questo è stato sicuramente un problema.
Questa in generale è stata la parte un po’ più deludente, anche se ovviamente non è stata colpa di nessuno. La direzione ha fatto il massimo che poteva e le persone che c’erano hanno fatto il loro meglio, magari alcuni non erano semplicemente all’altezza del compito, infatti si è deciso di sostituire qualche funzione apicale, persone che non erano riuscite a realizzare le cose che ci aspettavamo. Questo ovviamente è avvenuto tardi perché comunque ci vuole tempo. Spero comunque che le cose proseguano meglio e sono molto fiducioso di lasciare un’amministrazione con delle persone valide che abbiamo via via selezionato in questi anni; qualche buco ce l’abbiamo ancora perché qualcuno è andato via di recente, ma sono fiducioso che chi verrà dopo, troverà un’ottima condizione.
Per tornare alla domanda precedente, la mia idea era che per l’Università la cosa fondamentale fosse quella di cercare di avere persone brave, motivate e con voglia di fare, per fare ciò è bene attrarne di nuove quanto più possibile. Io mi ero fatto l’idea che in sei anni si potessero reclutare tra le cento e le centocinquanta persone, almeno questo era l’ordine di grandezza che mi ero immaginato. Poi in realtà abbiamo fatto quasi due o tre volte questo numero! Ciò grazie a delle circostanze fortuite e di merito mie e dell’Ateneo, per cui abbiamo avuto dei fondi aggiuntivi, riguardanti molti progetti nazionali. Inoltre il governo nazionale è stato bravo nel premiare gli Atenei dando risorse in più. Ci si lamenta sempre, ma dal punto di vista dei posti e delle posizioni dei docenti e dei ricercatori, noi ne abbiamo avuti molti e grazie a dei piani straordinari nazionali a cui abbiamo partecipato, alla fine, abbiamo altri 50 posti da assegnare, arrivati qualche settimana fa, tra cui alcuni anche per ricercatori senior, che diventeranno poi dei professori associati. In più, siamo riusciti ad ottenere 55 milioni di euro, una quota che ha permesso di finanziare almeno una quarantina di posizioni di professori nel programma dei dipartimenti d’eccellenza. Insomma, è chiaro che dal centinaio di persone da reclutare in sei anni per sostituire chi se ne sarebbe andato via, che io ipotizzavo, poi si sono aggiunti altri posti e siamo arrivati a quasi 300. Abbiamo poi questo programma di Medicina che porterà un’altra trentina di persone. Poi abbiamo fatto un’operazione con San Michele e con la Fondazione Demarchi che ha permesso la nascita della nostra area di Agrifood. Ecco, per questi progetti io sono molto contento, come anche per il fatto di aver ricevuto molte chiamate dall’estero. Difatti sono arrivate molte persone, soprattutto italiane ma non solo, per stare qui. Insomma, per queste cose sono molto contento. Abbiamo portato tante energie nuove che nei prossimi anni potranno dare molto per questa Università insieme a quelle che c’erano già.
In questi anni l’Ateneo ha promosso e realizzato molti progetti. Ce n’è uno a cui si sente particolarmente legato?
Insomma, nella storia dell’Ateneo si rimarca sempre la nascita di quelle che prima erano chiamate facoltà, ma che ora sono di fatto dipartimenti e centri. Nei vent’anni precedenti al mio mandato, l’Ateneo ha fatto un grandissimo salto dimensionale, qualitativo e anche scientifico, dal momento che vi è stato un grosso investimento nelle aree delle scienze, in particolare quelle della vita: le neuroscienze, le scienze cognitive e la biologia. Pertanto, in primo piano vi sono il CIMeC (Centro Interdipartimento Mente/Cervello), nel Dipartimento di Psicologia e Scienze cognitive a Rovereto, e poi quello che prima era centro e adesso è dipartimento di biologia, cioè il CIBio (Centro di Biologia Cellulare, Computazione e Integrata). Se guardo questo, dico “beh insomma un rettore che fa due di queste cose nel suo mandato, non è male!”, perché sono progetti ambiziosi da realizzare. Adesso non ricordo esattamente quanti rettori abbiamo avuto dalla nascita dell’Ateneo, mi sembra una decina, anche perché durante gli anni turbolenti del ’68 i direttori degli istituti superiori di scienze sociali non restavano tanto a lungo (erano momenti un po’ complicati); comunque, se fossero stati realizzati due programmi simili per ogni rettore, avremmo circa venti progetti articolati come il CIMeC e il CIBiO. Quindi io sono anche sopra la media perché aprire l’area Agrifood è stata una scommessa importante, non ancora completata perché la sua evoluzione è più ampia di quello che pensavamo. Il rapporto con la Fondazione Mache era stato pensato in un certo modo, ma ora che il piano dell’Agrifood sta diventando sempre più grande in quanto c’è molto interesse e molti temi collegati, bisogna pensare a come proseguire. La presenza di questo ente è molto importante per l’Ateneo, è un settore che per questo territorio è estremamente critico: l’agricoltura, il cibo, l’alimentazione… Bisogna tenere conto che l’Agrifood, che per noi significa soprattutto frutta e vino, sia per la presenza sul territorio, sia perché sono un’eccellenza, è un’industria molto importante per il Trentino. Comunque all’Agrifood sono particolarmente legato perché è nato proprio nei primi mesi del mio mandato.
Un altro progetto interessante che credo riuscirà a portare degli ottimi frutti in futuro è la nostra partecipazione all’European University Initiative con il consorzio dell’European Consortium of Innovative Universities (ECIU), che ci ha visto vincere nella prima fase del progetto europeo a cui allora il numero di progetti era molto ridotto (mi pare una decina) e poi si è allargato a tante altre università, come è giusto che sia. Il nostro è un piano che in qualche modo identifica una sorta di entità europea di tipo universitario, che nella nostra visione si affianca alle università che già esistono e non le sostituisce (sarebbe stato troppo ambizioso, oltre che irrealizzabile). Può essere che tra un anno nessuno se ne ricordi più, ma io ci credo molto. Il giorno in cui abbiamo aderito al consorzio, che mi ricordo bene, prima ancora che ci fosse il progetto europeo, ho avuto la sensazione che questa fosse una di quelle cose che fai (e ne fai tante), che può avere qualche possibilità di cambiare la storia della nostra Università. Non so se sarà così, ma mi piacerebbe dirlo perché se fra vent’anni sarà davvero così, potrò dire “vedi, l’avevo detto che sarebbe potuto essere così!”.
Poi, è inutile nascondere che anche Medicina è stato un obiettivo per me importante. La sua realizzazione ha rappresentato il passo evolutivo più alto per la storia dell’Università, in quanto complessa e molto diversa da tutte le altre. Infatti, essa è un progetto che un’università non realizza da sola. La medicina è un ambito di ricerca e formazione che si integra con l’attività assistenziale: i professori di medicina sono anche medici dell’ospedale, per farla semplice. Ed ecco quindi, che la loro ricerca è una ricerca fatta là, sui casi che fanno nel loro lavoro. Per cui la didattica per gli studenti è fatta mostrando loro “come si fa”; le famose “cliniche”, che sono quei periodi in cui gli studenti passano nei corridoi e nelle stanze degli ospedali a seguire i medici, per vedere cosa fanno e per ascoltare (una specie di stage sul campo), si accompagnano all’attività in aula. Quindi, in sintesi, la didattica si svolge in parte dentro l’attività assistenziale, la ricerca è fatta su ciò che si vede nell’attività assistenziale e l’attività assistenziale è fatta anche di ricerca e quindi anche di approfondimento.
Medicina è molto complessa proprio per questa caratteristica qui e per questo un ateneo la realizza quando è maturo, con delle spalle solide, soprattutto per non “sbilanciare”, perché un dipartimento medico ha una presenza di colleghi molto diversi dagli altri: professori che vanno in aula e poi devono correre all’ospedale. Per questo è bene che un ateneo sia maturo, sia come struttura che come solidità: noi siamo un’Università solida con una dimensione buona. Al momento abbiamo un corpo accademico di 700-720 persone e puntiamo agli 800, come ho detto prima, siamo cresciuti molto da quando sono arrivato, prima eravamo 570 circa (ovviamente, come abbiamo deciso, non aumenteremo il numero). Ad, oggi, il corpo docenti di Medicina corrisponde a meno del 6-7% del totale. Questo dato è importante perché alcuni atenei sono nati con una forte presenza dell’ambito medico, per cui poi alla fine succede che metà ateneo è Medicina; questo è ad esempio il caso dell’Università di Verona, il nostro partner, il cui rettore è tra l’altro un medico chirurgo. Comunque, per noi va bene così, perché siamo in grado di gestirla e non sarà mai una facoltà di 300 persone, non ci sono i mezzi e non c’è neanche la dimensione territoriale. Altro aspetto molto importante è che la salute è un tema di ricerca che interessa tutti, non solo la ricerca clinica, ma anche tecnologico, scientifico, socio-umanistico. Si pensi solo all’etica, agli aspetti della gestione della sanità, delle nuove tecnologie, a quelli sociologici e psicologici. La medicina è un campo trasversale, per questo che abbiamo aperto un centro interdipartimentale e non un dipartimento di Medicina.
Ciò detto, ritengo che Medicina darà un’accelerazione alla crescita dell’Ateneo. D’altro canto, basti pensare a cosa sono stati il CIBio e il CIMeC, due centri di ricerca riguardanti le scienze della vita che ci hanno permesso poi di creare proprio Medicina.
Far nascere Medicina è stato certamente un importante traguardo per l’Ateneo e infatti ha richiesto un processo complesso e vi sono stati alcuni scontri con la Provincia di Trento
Inizialmente la Provincia Autonoma di Trento, io penso per aver sottovalutato la nostra capacità di realizzare questo piano, aveva pensato ad un partner diverso a cui affidare interamente il progetto: la proposta era di consegnare interamente all’Università di Padova la gestione dei contenuti della parte clinica, mentre noi avremmo dovuto dare supporto alla parte non medica, la logistica e l’accoglienza fisica. Devo confessare che io, quando ho detto “no, lo facciamo noi”, mi sono preso una responsabilità che mi ha fatto passare più di qualche notte insonne. Ero infatti ben consapevole del fatto che se non fossimo riusciti a ottenere l’accreditamento di Medicina (che è un procedimento articolato) dal Ministero o avessimo azzardato troppo e non avessimo avuto gli studenti a settembre in aula, probabilmente avrei dovuto trarne delle conseguenze. Insomma, credo che me ne sarei dovuto andare. Dopotutto, però, la vita è fatta anche di rischi. Io ci credevo molto nella nostra capacità di farlo, e farlo in un modo molto speciale. Anche qui mi auguro che tra 10-15 anni la nostra Università possa riguardare indietro e dire “beh, direi che abbiamo fatto proprio una bella cosa”; se così non fosse, allora mi verranno a prendere, se sarò ancora in vita (sorride).
Per il momento, pare che a Medicina proceda tutto bene. In questi anni, Lei ha svolto diversi incarichi all’interno del nostro Ateneo e quindi Le chiedo: quali sono, secondo Lei, i punti forti e quelli da migliorare della nostra Università?
Un punto di forza è sicuramente, per usare un termine che a me non piace particolarmente, il capitale umano, cioè le persone. Noi abbiamo una comunità molto forte di accademici, di ricercatori e di docenti, tutti scientificamente di qualità; difatti siamo sempre valutati molto bene sotto questo aspetto. Una struttura gestionale molto buona rispetto alla media nazionale, anche se, come ho detto poco fa, abbiamo dei problemi per cui non riusciamo a fare certe cose. Comunque, per la nostra gestione riceviamo sempre complimenti da chi viene da fuori e questo lo so, perché incontro personalmente tutti i nuovi assunti, anche se devo dire che questo è stato molto più gravoso di quanto pensassi visti i numeri, per cui ho incontrato più di un centinaio di persone. Poi ovviamente, dopo i primi mesi, ci si comincia a lamentare; ma quando si arriva si rimane sempre colpiti perché si vede l’attaccamento di molte persone al lavoro, a ciò che fanno e che voglio fare. Queste sono sicuramente le cose buone che abbiamo.
Oggi abbiamo un punto debole poiché non siamo riusciti ad accompagnare la nostra crescita con un adeguato sviluppo infrastrutturale, cioè spazi. Per di più, all’inizio del mio mandato vi erano circa 570 persone accademiche e 700 nell’amministrazione, mentre ora i primi sono quasi 800 mentre i secondi sono aumentati di poco. Pertanto soffriamo di una situazione infrastrutturale non proporzionata, che non è riuscita ad andare alla velocità di quella accademica. Non ci mancano del tutto le risorse per farlo perché abbiamo dei fondi per crescere, con cui abbiamo ad esempio acquistato Palazzo Consolati e realizzato opere edilizie, però siamo molto lenti e quindi siamo in grande sofferenza. Pertanto credo che il prossimo periodo debba essere, mi passi la parola, quello “del mattone” e anche delle strutture di gestione e amministrazione. In sintesi, si potrebbe dire che quello che abbiamo è di qualità (da persone valide a buone infrastrutture), solo che ne abbiamo troppo poco.
Altro punto importante è la nostra buona reputazione, sia nazionale che internazionale. Infine abbiamo anche una componente studentesca di grandissima qualità e questo non è certo un atto di piaggeria. Ciò dipende da tanti fattori, come ad esempio dal fatto che quasi il 70% degli studenti provengono da territori diversi perché vogliono venire a studiare a Trento, e questo lo fa chi è molto motivato e ha voglia di fare. Già questo quindi ti porta ad avere studenti diversi ed è un grandissimo punto di forza anche perché significa avere brave laureate e bravi laureati che vanno in giro per l’Italia e per il mondo, si fanno riconoscere ed apprezzare e conducono ottime carriere: questo è importantissimo per un’Università. Da questo punto di vista, credo che nei prossimi vent’anni vedremo la presenza dei nostri laureate e laureati in posizioni importanti. Chiaro, siamo piccolini e i nostri numeri non sono quelli della Sapienza da cui escono più di 10 000 laureati l’anno, noi abbiamo un numero di circa 2 400 laureati l’anno in triennale e circa 2 000 in magistrale. Però io sono fiducioso che la loro presenza si vedrà sempre di più. Potrei anche dire che nel recente governo c’era un buon numero di nostri laureati, ma non so se questo sia un merito o no, però erano sicuramente bravi, quindi anche un po’ un motivo di vanto per noi.
Un ultimo punto di forza è il nostro rapporto con il territorio, un territorio tanto speciale quanto particolare. L’autonomia trentina non poteva certo non avere un impatto sull’Università, dal momento che impatta su tanti altri ambiti. Lo spiego sempre ai miei colleghi rettori: questa particolare condizione implica che tu debba lavorare molto con il governo del posto, quindi porta via tempo, in quanto è impegnativo. Tuttavia, questo aspetto, che se ne dica con i suoi alti e bassi, è sempre stato un punto di forza; magari ci sono certamente delle difficoltà, ma se uno guarda ai risultati non può certo lamentarsi.
Dopo quest’esperienza da rettore, cosa farà?
Beh tornerò in aula, leggerò e scriverò qualcosa in più: tornerò al mio lavoro che un po’ mi manca, insomma. In particolare, mi manca la parte didattica ed essere parte paritetica di una comunità. Il lavoro di rettore è molto solitario, perché alla fine con tutti gli altri sei in una posizione diversa, non sei pari, non certo di potere, ma sei semplicemente in un ruolo diverso e questo modifica il tipo di relazioni; molte persone mi sono state vicine, senza le quali non avrei fatto niente, ma comunque ti senti un po’ isolato. Per questo mi fa piacere tornare ad essere un membro qualsiasi della comunità accademica e universitaria e fare il mio lavoro.
Certamente qualche momento di cambiamento, anche scioccante, ci sarà: l’ufficio sarà più piccolo ad esempio (ride). Certi aspetti di questo ruolo possono alimentare un po’ l’ego di una persona, come l’essere in vista, non che io ci tenga particolarmente, ma poi quando non ci saranno più credo che ad una persona possa mancare. Oggi ad esempio sono perseguitato dal telefono che suona sempre ed e-mail che sono infinite; poi però quando non suonerà più il telefono e non arriveranno più e-mail magari vivrò un momento di smarrimento.
Adesso mi lamento di questa vita stressante, anche molto impegnativa dal punto di vista del tempo che assorbe. Questo lavoro assorbe molto tempo alla vita personale, hai sempre la testa sulle cose che devi fare, sei sempre indietro, alla sera alle 20:30/21, quando esci dall’ufficio, c’è sempre qualcosa che hai lasciato lì. Insomma, questo lavoro toglie tanto alla vita personale. Poi sono certo che mi mancheranno la tensione, lo stress, l’adrenalina e i conflitti che sono legati a questo incarico.
Qui ci si lamenta sempre, ma fa sempre bene cambiare ogni tanto: nessuna buona cosa dura per sempre e se dura per sempre allora non è buona.
Ho terminato le domande che volevo porLe. Vuole aggiungere qualcosa, magari dare un messaggio alla comunità studentesca?
In questo momento particolare, mi sento di aggiungere qualcosa, perché nessuno come i nostri studenti sta oggi soffrendo. Siamo riusciti a tenere in vita e a rimettere in moto, anche se con fatica dopo l’estate, tanti aspetti legati alla ricerca, purtroppo non tutti perché alcuni campi sono paralizzati. Abbiamo cercato poi di tenere viva la didattica, però la sofferenza è gigantesca. Quindi io mi rendo conto che per le nostre studentesse e i nostri studenti, questa vicenda è drammatica ed è il prolungarsi oltre quello che avevamo immaginato. Credevamo infatti che con l’arrivo della primavera avremmo avuto una condizione diversa. Abbiamo studenti di laurea magistrale che hanno iniziato la loro attività ad ottobre del 2019 e che sono state nelle nostre aule fisicamente 10-12 settimane, hanno poi fatto gli esami nella sessione di gennaio e poi da fine febbraio del 2020 sono rimasti a casa. Queste ragazze e questi ragazzi possono quasi laurearsi, e anzi alcuni ce la faranno, a luglio-settembre. La pandemia ha portato ad un impoverimento della loro esperienza universitaria. Io qualche volta avrei voluto dire “ragazzi, sospendete l’attività e fate qualcos’altro, non vi facciamo pagare le tasse l’anno prossimo, venite e completate la vostra esperienza qua. Non fate l’università così”. Chiaro che così si sarebbe perso un anno di vita, posticipando tutti i progetti professionali e simili, però io la tentazione di suggerire questo l’ho avuta tante volte. Io spero che molti di loro riescano ad avere un’esperienza per quanto possibile completa. Magari le ragazze e i ragazzi in triennale hanno più tempo e quelli dei cicli unici ne hanno tantissimo, certo è che questa è stata una grande perdita. Tuttavia, dico la verità, bisogna anche tenere conto che spesso abbiamo avuto delle tensioni e delle lamentele, ancora ho qualcuno che mi scrive su giornali, che non facciamo gli esami in presenza, ma non ci si rende conto che la mobilità interregionale è proibita: quindi come facciamo a fare gli esami se uno studente di Verona non può venirli a fare, salvo violando la legge, ovviamente.
Non si può pensare di ripristinare le attività d’aula normalmente. Bisogna ricordarsi che l’indicazione, al di là delle norme, è “state a casa il più possibile”. Quindi non è tanto lo stare in aula, quanto il muoversi e l’uscire, la vita normale che tutti rimpiangiamo tantissimo. Questa pandemia ci ha forse fatto riscoprire l’importanza delle relazioni umane, del parlarsi, dello stare insieme, persino del litigare di persona. So che alcuni nostri studenti provano una grandissima sofferenza e purtroppo non c’è modo che noi possiamo compensare questo. Non ho la bacchetta magica e non posso costruire un altro mondo. Qualcosina stiamo cercando di fare, ma è comunque poca roba. Pensiamo anche a chi non è potuto andare all’estero, esperienze che sono andate proprio perse per studenti che spesso hanno scelto la nostra Università proprio per la sua spiccata internazionalità. Inoltre, la nostra Università è un’università in presenza, anche perché io non ho mai visto un ateneo italiano ove gli studenti ci siano sempre, dappertutto. Quando io racconto ai miei colleghi rettori che la domenica noi abbiamo 900 posti studio aperti in città e non bastano, non ci crede nessuno! “Ma come? Gli studenti pure alla domenica studiano?” Sì, perché gli studenti sono nella loro comunità sempre. E quindi nessuno come noi, purtroppo, paga un prezzo così alto.
Ecco, alle nostre ragazze e ai nostri ragazzi dico che sono molto sensibile nei loro confronti e sono loro molto vicino. Purtroppo abbiamo la volontà di fare qualcosa, abbiamo cercato di farlo e continueremo a farlo, anche questo semestre, con l’esigenza assoluta di preservare la salute di tutti che non è né la mia né quella dei giovani, che hanno un’età per cui è poco probabile che abbiano seri problemi, ma è quella degli altri. Ciò che dobbiamo evitare è la propagazione: uno può anche dire “me ne frego e mi ammalo”, vabbè, cavoli suoi, al massimo ci sono i costi dell’ospedale, la libertà può essere anche questa, ma ciò che non abbiamo è la libertà di contagiare gli altri e questa è una libertà che non ci possiamo prendere. Per questo noi sappiamo che quando contraiamo il virus poi lo possiamo trasmettere ai nostri cari e ai nostri conoscenti, magari più anziani.
Abbiamo visto tale fenomeno quest’estate, quando il ritorno dell’epidemia è stato portato dai ragazzi che tornavano dalle vacanze; infatti, l’età media dei contagiati a fine agosto era di 30 anni, non era 72. Ovviamente, non è che si sarebbe evitata la seconda ondata se i ragazzi non fossero andati in vacanza. Quindi, ripeto, sono sensibile nei loro confronti e questo è stato un patimento anche per me, pensate che il mio ultimo anno da rettore, in cui di solito uno svolge i suoi ultimi impegni, l’ho passato da solo. Quindi, capisco che chi viene in un’università è anche per avere una grande esperienza di vita che, però, quest’anno non tutti sono riusciti a vivere.