il Segnalibro – cap. 5
La paura non ti salva. Il primo capitolo de Le Divoratrici si intitola così, e a mio parere è l’incipit più calzante che si potesse pensare per questo libro. Romanzo d’esordio di Lara Williams, Le Divoratrici è stato pubblicato in Italia da Blackie Edizioni pochi mesi fa e rappresenta uno dei rari casi in cui ho apprezzato davvero la traduzione, trovandola forse più calzante del titolo originale (The Supper Club). Ma andiamo per ordine.
Il romanzo è scritto in prima persona e la voce narrante è quella di Roberta, ragazza inglese di quasi trent’anni che si trascina in un’esistenza apatica tra un lavoro comodo ma privo di stimoli e una profonda solitudine. Il racconto del presente di Roberta si alterna a vari flashback sul suo passato di universitaria, che lentamente ricostruiscono la sua storia e suggeriscono come sia arrivata dove si trova adesso. Un giorno, durante la sua routine lavorativa, Roberta viene affiancata a Stevie, una tirocinante dalla personalità estrosa e sicura. Le due stringono in fretta un’amicizia profonda, arrivando a decidere di andare a vivere insieme. La vicinanza di Stevie dà a Roberta, di solito timida e remissiva, il coraggio di mettere su un progetto straordinario. Le due amiche organizzano il Supper Club, un gruppo di giovani donne, ognuna col suo bagaglio di traumi e paure, decise a rompere con le abitudini che sono state loro imposte fino ad ora, e riprendersi lo spazio che è stato loro negato.
Gli sguardi sul passato di Roberta evidenziano il contrasto tra gli esordi sereni di una vita circondata dagli affetti della madre e della zia, e un’adolescenza di solitudine e insicurezza. Quando racconta del suo approdo all’università, il cibo sembra in un primo momento rappresentare il filo conduttore tra le due fasi della sua vita: dapprima come rito consolatorio legato alla casa, poi come bisogno crescente e incontrollabile, una fame che non si soddisfa e cui l’atto di cucinare serve a imporre “una sorta di dignità”. In questo senso, Roberta definisce il Supper Club «l’ufficializzazione di qualcosa di personale e premeditato».
«La mia intera esistenza esprimeva gli impulsi contrastanti della fame: un desiderio di consumare, ma anche di essere consumata. (…) c’era sempre un senso di condivisione profondamente intima. Non mi dispiaceva l’eventualità di ingozzarmi da sola. Ma il pensiero di riunire un gruppo e fargli da mangiare era carico di potenziale. Un clan tutto mio da poter nutrire e allevare. Un’istantanea di noi, indomite, e affamate… e in continua espansione. L’aumento di peso fu una trovata di Stevie. Voleva che fossimo dei progetti d’arte viventi».
Le ragazze del Supper Club si incontrano infatti per mangiare, ma non solo. Celebrano i loro corpi che si ingrandiscono, sancendo la loro riappropriazione dello spazio, anzi, di tutti gli spazi che sono stati loro preclusi. Per questo il Supper Club viene organizzato provocatoriamente in luoghi occupati, cucinando cibo recuperato dai cassonetti e indossando vestiti appariscenti. Nonostante tutto, e contrariamente alle aspettative che mi ero fatta cimentandomi nella lettura, il romanzo non sembra voler raccontare l’esperienza collettiva, tanto più che delle ragazze che partecipano al Club conosciamo solamente il passato, ciò che le ha spinte ad unirsi al gruppo. L’unica persona di cui realmente seguiamo l’evolversi è Roberta, che è costretta a fare i conti con un passato traumatico man mano che il club diventa popolare e raccoglie nuove partecipanti. Una di loro racconta che «una notte, passando di fianco a una trattoria italiana vicino casa, un ristorante quasi sempre deserto, aveva visto un gruppo di donne che, vestite di colori fluo, ballavano come pazze e mangiavano con le mani. (…) si era rivista da sola, mentre si trascinava nel mondo alla ricerca di conforto, senza mai rivolgere un pensiero alla gioia. Ed era proprio quello ad averla colpita mentre guardava il Supper Club dall’esterno: la gioia. Sembrava una cosa da prendere in considerazione.»
In definitiva, si può dire che ad essere davvero determinante non sia tanto il club stesso, quanto tutta la serie di testimonianze di coloro che decidono di aderirvi, ciò che le spinge a ribellarsi. Il romanzo infatti tocca tante tematiche diverse, non necessariamente approfondendole nel dettaglio: dalla violenza sessuale a quella psicologica, dall’aborto al tradimento, dalla depressione all’autolesionismo. Roberta e le sue compagne sono donne che hanno imparato a farsi sempre più piccole, ad occupare meno spazio possibile, a non dare fastidio, ad essere compiacenti. Il Supper Club rappresenta il simbolo della loro opposizione netta a regole non scritte secondo cui una donna è costretta a muoversi con cautela senza uscire dai limiti prestabiliti, costretta ad essere come ci si aspetta da lei.
«E se, in realtà, tutti gli spazi fossero restrittivi, tutto il mondo fosse progettato per inibirci, e anche solo esisterci volesse dire infrangere un tabù profondo? Cosa succede se smetti di rimpicciolirti costantemente, tutto il tempo, e invece ti ingrandisci? Forse, per trovare lo spazio necessario a ingrandirti, devi prendertelo!»
Grazie all’esperienza del club e anche al controverso rapporto con Stevie emergono le tante fragilità di Roberta, che dovrà rimettere in discussione la sua incapacità di volersi bene, il suo bisogno di protezione e approvazione. Tuttavia, proprio nella sua imperfezione e nei suoi attriti, mi sembra che la rappresentazione dell’amicizia sia forse la più credibile nel libro. Prova del fatto che può esserci sorellanza anche nelle divergenze e nelle distanze, che queste possono arricchirci anziché separarci.
Credo che il romanzo di Williams parli a tutte coloro che, come Roberta, si scusano sempre per prime, si scusano troppo: le esorta ad abbandonare questa remissività, ad affermarsi nel mondo con libertà e, perché no, con eccesso e trasgressione. «Niente fa più paura di una donna che mangia e scopa con abbandono» dice Roberta. La sua storia è rivolta a chi percepisce il proprio stare al mondo come un’invadenza e non riesce ad occupare lo spazio con sicurezza. Un libro per chi si sente sola e si incolpa della propria solitudine, Le Divoratrici insegna l’indulgenza nei confronti del proprio corpo e della propria persona, l’importanza della gentilezza verso noi stesse.
«Riflettei sul fatto che non avevo altri pesi da portare, che del mio peso, e di quello soltanto, dovevo sentirmi responsabile. La sola cosa che ero tenuta a portarmi appresso nella vita ero io. Avrei voluto saperlo prima».