Meno fiori, più diritti. Riflessioni dopo l’otto marzo
Di tutte le Giornate internazionali, l’8 marzo è quella che in Italia risulta certamente più controversa. Quest’anno, poi, ci ha raggiunto subito dopo un’edizione del festival di Sanremo che ha riportato a galla il dibattito su alcuni temi estremamente divisivi, molti dei quali legati in un modo o nell’altro alla questione della parità di genere. Ragioniamo insieme su questi temi, su quello che la festa dovrebbe essere e su alcuni dei fattori che fanno sì che spesso fallisca nel suo intento.
Il contesto in cui la Giornata internazionale della donna venne istituita è un contesto di ribellione e di lotta, nei confronti del potere patriarcale, dell’oppressione e della discriminazione sistematica. Molte delle esigenze alla base di quella lotta sono ancora vive e attuali, per questo motivo è importante che quella matrice ribelle non venga trascurata. L’8 marzo è la Giornata in cui le donne lottano e scioperano, protestando per i diritti ancora oggi negati e la parità ancora non raggiunta, a livello sociale, economico e politico. Fatta questa premessa, ne va da sé un concetto molto semplice, che in modo piuttosto paradossale nel nostro Paese non risulta ancora chiaro: l’8 marzo non è affatto una festa, e sicuramente non è “la festa della donna”. Mentre nel resto del mondo viene chiamata col suo vero nome, qui la Giornata internazionale della donna si trasforma in una sorta di onomastico generale, l’occasione per regalare un mazzo di fiori, fare gli auguri e celebrare “il femminile”. Ho iniziato questa riflessione dicendo che l’8 marzo è una giornata controversa. Infatti, a mio parere, nelle modalità in cui essa viene celebrata risiede una profonda contraddizione con i propositi stessi alla base della sua istituzione. Quello che si verifica ogni anno è la celebrazione festosa di tutta una serie di stereotipi che altro non fanno che confermare quelle norme – prima di tutto sociali – costituenti la disparità di genere nella sua realtà concreta.
Basti pensare al simbolo stesso della “festa” in Italia: i fiori, in particolare la mimosa. Jonathan Bazzi, in un articolo per TheVision, ricorda che furono proprio le donne di UDI (Unione Donne Italiane) a scegliere la mimosa per celebrare la Giornata, in quanto “fiore fragile ma forte, che cresce anche in terreni difficili”. Bazzi considera piuttosto curiosa la scelta di un fiore che “una volta reciso, dura pochissimo”, e riscontra questa caratteristica negli effetti dell’8 marzo: dura poco e si cerca di buttarlo via in fretta. Ad oggi qualsiasi messaggio nobile è infatti dimenticato, e regalare la mimosa non fa che ricalcare lo stereotipo che vuole la donna associata ad un fiore: delicato, profumato, frivolo, ma soprattutto fragile. Come sottolinea Carlotta Vagnoli, survivor e attivista per la parità di genere, la visione secolare che si è avuta delle donne è proprio questa: “frivole, leggere, dal buon odore, che occupano poco spazio e che quando invecchiano si buttano via”. L’edizione di quest’anno di Sanremo ha dimostrato quanto sia difficile sbarazzarsi di uno stereotipo così ridicolo, anche di fronte alla scelta di alcune artiste donne di cedere il mazzo di fiori, tradizionalmente regalato solo alle donne, ai loro collaboratori uomini (scelta che ha spiazzato Amadeus in modo così genuino da dimostrare quanto radicato sia lo stereotipo soprattutto nelle generazioni dei nostri nonni e padri).
Non sono stati solo i fiori ad accendere la polemica durante l’edizione del festival. Un altro momento piuttosto emblematico di quanto sia ancora necessaria la lotta culturale ci è stato regalato da Barbara Palombelli, che nel suo monologo ha sollevato una marea di stereotipi agghiaccianti. La giornalista ha esortato le donne ad essere grate dei diritti che la sua generazione ha contribuito a fornirci e sottolineato il ruolo primario e fondamentale delle donne nel nostro Paese: tenere insieme le famiglie in questo difficile momento storico, prendersi cura di loro e, wait for it, lottare “come delle VERE DONNE” per raggiungere i nostri obiettivi. Sorvolando sull’ipocrisia alla base di questa esortazione, che presuppone che tutt* abbiamo le stesse possibilità in partenza ed attribuisce quindi gli insuccessi eventuali ad una qualche pigrizia o mancanza di volontà, è proprio questo concetto delle “vere donne” a ritornare imperante e martellante ogni 8 marzo. Lo troviamo scritto dappertutto, da parte di uomini e donne, sui profili social e nei messaggi di auguri: auguri alle vere donne, le Donne con la D maiuscola. Purtroppo, però, l’8 marzo è una giornata istituita per la difesa dell’autodeterminazione delle donne, quindi sfruttarla per ricordare loro come dovrebbero essere, come ci si aspetta da loro che siano, è profondamente contrario ai principi alla base della Giornata stessa. Rivolgersi alle “vere donne” presuppone che ci sia un giusto modo di essere donna e tutto ciò che esula da questo schema è quindi sbagliato e può essere giudicato, biasimato, ostacolato.
Come ha gridato in piazza il Collettivo transfemminista Trento Queer nel pomeriggio di lunedì, «autonomia significa autodeterminazione, (…) significa poter prendere voce per sé senza che altri la prendano per noi, poter gestire la nostra sessualità e le nostre scelte riproduttive, poter scegliere chi amare e come farlo, poter usare i nostri pronomi, poter apparire in pubblico e sul luogo di lavoro come meglio crediamo, potercene fregare delle aspettative sociali e dei ruoli di genere».
Perché la società sia più giusta ed inclusiva deve essere tutelata la libertà all’autodeterminazione, quella di tutt*, come sottolinea il Collettivo di Trento, che è sceso in piazza anche a tutela delle soggettività LGBT+. Quindi si devono pretendere spazi nuovi all’interno dei quali l’autodeterminazione possa manifestarsi. Questa conquista è nell’interesse collettivo e va rivendicata come qualcosa di imprescindibile: questo significa pretendere sì, politiche sociali ed economiche, ma soprattutto comprensione e ascolto. Invece ancora assistiamo ad un benaltrismo imperante e disarmante tutte le volte che viene sollevata la possibilità di cambiare ufficialmente qualcosa. Basti pensare al dibattito scatenato dalla declinazione dei mestieri al femminile, di fronte al quale il commento è quasi sempre un richiamo alle “cose più importanti a cui pensare”. Il primo passo per uscire da una situazione di disparità sistemica è smetterla di estendere il proprio limitato punto di vista a livello universale, e responsabilizzarsi. Il fatto che un problema non ti tocchi nello specifico non significa che non esista, anzi: ti rende abbastanza privilegiato da poter considerare tale problema una “futilità”, per cui dovresti tendere la mano e aiutare chi, al contrario di te, vive una situazione di ingiustizia, non vedendo riconosciuta la propria identità quotidianamente, essendo praticamente invisibile e non nominabile dalla sua stessa lingua.
La manifestazione svoltasi a Trento, che ha visto la collaborazione di Non Una Di Meno Trento, UDU, Murga Trentinerante e il Collettivo Transfemminista Queer Trento, ha contribuito a infondere un po’ di fiducia nella possibilità che il vero messaggio della Giornata non vada perso completamente. È stato bello vedere la partecipazione commossa ed entusiasta di donne e uomini, a conferma del fatto che, quando i diritti vengono negati anche solo ad una persona, vengono negati alla collettività intera: gli stereotipi che danneggiano le donne sono gli stessi che intrappolano gli uomini in schemi altrettanto rigidi di mascolinità, discriminando in maniera determinante una grossa fetta della società. La speranza è che il messaggio di questa Giornata venga raccolto e possa conoscere una diffusione progressiva e rivoluzionaria, e che sia chiaro che la lotta per la parità è una lotta di tutt*.
“i stand
on the sacrifices
of a million women before me
thinking
what can i do
to make this mountain taller
so the women after me
can see farther
– legacy”
Rupi Kaur