Riflessione sul populismo
RIFLESSIONE FILOSOFICA SUL POPULISMO
Nel corso degli ultimi anni è tornato alla ribalta il termine “populismo”. Questa parola, che a molti potrebbe sembrare un neologismo di questi tempi, ha però un’origine e un etimo più lontani. Anche dapprima che venisse coniata, il concetto che essa veicola è qualcosa che probabilmente da sempre si manifesta nella comunità umana, dacché essa è “politica”. Al populismo ci si può interfacciare in diversi modi: lo si può considerare dal punto di vista storico, descrivendone cronologicamente le varie declinazioni. Lo si può considerare dal punto di vista sociologico, descrivendone le cause in relazione a un contesto o tentando di parlarne in generale, al di là delle sue singole manifestazioni. Lo si può considerare dal punto di vista psicologico, chiedendosi cosa spinge un singolo a seguire un movimento, un partito o un gruppo che assuma atteggiamenti ideologici di stampo populista.
In questo articolo si faranno due cose, e, soprattutto, non si farà una cosa: si delineerà il concetto di populismo nell’ambito politico, per come è comunemente inteso, e per come si può definirlo nella maniera più generale possibile, senza nulla togliere alla specificità di ogni movimento populista. Successivamente, si farà una riflessione sul populismo e ci si chiederà: il populismo, e la demagogia che lo attornia, è qualcosa di costantemente presente nella comunità politica? Quali sono le radici umane, troppo umane del populismo? Esso è forse intrinsecamente legato al “fare politica”, sia per le monarchie e le dittature che cercano di giustificare il mantenimento dello status quo, che per i partiti di un sistema democratico che cercano un consenso elettorale, che per i gruppi rivoluzionari che cercano di fare proselitismo fra le masse?
Ciò che non si farà è cercare di tracciare una storia del populismo: un breve accenno al contesto di nascita di questo termine ci servirà solo per dare un battesimo al “populismo”, che per la sua natura abbastanza indefinita, per i suoi principi di carattere più formale che contenutistico e le “gradualità” più o meno intense con cui si è presentato nel corso della storia non è qui considerato come un’etichetta “definitoria e definitiva” che si può appiccicare o meno a un gruppo politico. Troverei un lavoro abbastanza inutile, o comunque troppo ingente per un articolo, dilungarmi sulla storia del populismo, e dei populismi. Come si cercherà di dimostrare, il populismo si avvicina più ad un “atteggiamento ideologico”, utile per il raggiungimento di certi fini, la cui retorica si può presentare in ogni fazione politica-ideologica. Ci basterà dire che il termine nasce in Russia, con il Narodničestvo[1], che viene appunto tradotto in italiano con “populismo”, e indica un movimento politico e culturale nato in Russia negli anni ’60 dell’800 a seguito della deludente “riforma emancipativa del 1861”, che abolì de iure la servitù della gleba in Russia, ma che lasciò de facto insoddisfatti i contadini russi liberati. Essi infatti, nonostante una formale liberazione dalla servitù e l’acquisizione di alcuni diritti civili, dovettero mantenere nei confronti dei precedenti proprietari (e dello Stato) delle obbligazioni che ne accentuarono la dipendenza economica e il ruolo di subalterni. Alcuni intellettuali avvertirono l’ingiustizia di tutto ciò, ed espressero la necessità di “Andare fra il Popolo!” (così recita il motto di Bakunin), per fargli prendere consapevolezza fino in fondo della sua condizione di subordinazione. Successivamente, attraverso un’azione rivoluzionaria, questi avrebbero dovuto rovesciare lo status quo dell’autocrazia zarista e della sua ristretta cerchia aristocratica, per realizzare l’uguaglianza e la liberazione del popolo. La propaganda di questi gruppi rivoluzionari, in particolare dello Zemljia i voljia (Terra e Libertà, in russo), si concretizzava appunto in un “Andare in mezzo al popolo”, ossia emigrare dalle città alle campagne (nella concezione di questi gruppi il popolo era essenzialmente quello dei contadini) e viverne la condizione: lavorandoci accanto, cercando di farsi stimare dai suoi componenti, e combattendo con essi le piccole lotte della quotidianità. Il tentativo di proselitismo passò più per questi mezzi, che attraverso la propaganda scritta, un po’perché troppo astratta e distante per dei contadini analfabeti, un po’per evitare la censura. Il popolo, in un primo momento quello contadino, in un secondo soprattutto quello operaio, era considerato dai populisti del Narodničestvo la base del rinnovamento politico e sociale della Russia. Il movimento ebbe scarso successo nei suoi obiettivi, ma, alla luce di quanto diremo, si può notare come le sue basi ideologiche e metodologiche siano presenti in tutti i gruppi populisti del mondo. Ma non fu certo l’influenza di questo movimento che, alla stregua di un novello Gesù Cristo, ispirò i successivi movimenti populisti. Piuttosto, come si è cercato di argomentare, il populismo russo fu l’istanza di un’esigenza politica, presente in misura massiccia negli ultimi 150 anni, ma anche nel corso di tutta la storia della politica, di comprendere una grande massa di persone e orientarla secondo i propri fini ideologici; obiettivo, questo, per cui è molto utile l’individuazione di un nemico che detiene il potere e che subordina il popolo a cui ci si rivolge. Il populismo sfrutta, in questo modo, quel meccanismo antropologico di definizione per contrapposizione che tanto riesce a compattare e legare un gruppo politico con i suoi aderenti.
È interessante notare, non solo nell’esempio del populismo russo, come il populismo giochi sul doppio binario di “comprendere” e “condizionare” il pensiero delle persone a cui si rivolge. Se per il populismo da un lato è essenziale comprendere i bisogni, le esigenze e i pensieri del popolo cui si rivolge, dall’altro lato esso è pur sempre un movimento politico che si appoggia a ideali di vario genere. Per realizzarli (anche se, nel caso peggiore, può essere mosso dalla sola volontà di conquista e mantenimento del potere), ha bisogno anche che il popolo sia orientato a “pensarla come lui”, attraverso un sottile gioco di condizionamento delle opinioni con la propaganda. Svilupperemo meglio questo punto nella riflessione finale.
Ad oggi per alcuni è facile condannare il populismo, specie nelle forme che ha assunto nei partiti politici che da questo termine sono etichettati. Non è però questa la sede di una critica morale al populismo, che forse trasparirà solo fra le righe. Quello che dobbiamo domandarci, attraverso il domandare radicale che è tipico della filosofia, è che cosa ha portato, e soprattutto, cosa porta gli uomini a credere nella bontà, o nella cattiveria, del populismo? Che cosa porta dei gruppi politici ad adottare atteggiamenti populistici, o avversi al populismo? Convenienza elettorale o sincera convinzione che nelle espressioni del popolo risieda quell’onesta genuinità su cui il potere deve modellarsi? Quali sono i meccanismi antropologici e sociologici che garantiscono l’efficacia, in un contesto comunitario, di una retorica populista? Un confuso malcontento che si indirizza verso obiettivi astratti, o una consapevolezza, magari non del tutto lucida ma comunque veritiera, della discrasia fra le classi popolari e le élite di una società?
Nella convinzione che la verità stia nel mezzo, e che ogni situazione abbia la sua specificità, non abbiamo la pretesa di rispondere a queste domande, ma quantomeno di rifletterci sopra.
IL CONCETTO DI POPULISMO
Nel discorso politico contemporaneo, il termine populismo è utilizzato in vari e disparati modi. Ha perlopiù un’accezione generalmente negativa, legata alla demagogia che ne innerva il discorso, alla tendenza manicheistica e semplificatoria dei suoi giudizi e soprattutto al tentativo di conformarsi, nelle sue battaglie ideologiche, alla “pancia” degli elettori, con l’intento di alimentarne le convinzioni, più che di risolverne effettivamente i problemi.
Cas Mudde e Cristóbal Rovira Kaltwasser, nel loro libro “Populismo: una breve introduzione”, adottano questa definizione: “Un’ideologia, la quale ritiene che la società sia, in definitiva, separata in due gruppi omogenei e antagonisti, ‘il popolo puro’ e ‘l’élite corrotta’, e che sostiene che la politica debba essere un’espressione della volontà generale del popolo”.
Problematizziamo questa definizione, che è senz’altro molto completa ma che va articolata: innanzitutto, il termine “ideologia” presenta dei problemi. Si considera infatti “ideologia” tutto un insieme di idee e principi che disegnano una particolare visione del mondo, e sotto la cui lente i fenomeni sono interpretati. Dunque, è senz’altro vero che il populismo disegna una particolare visione del mondo, che individua due classi, che Mudde e Kaltwasser chiamano “il popolo” e “l’élite”, in contrapposizione manichea, dove il popolo è il Bene e l’élite è il Male ed è anche vero che pure in questa definizione così generale sono rintracciabili elementi della democrazia radicale (il fine della politica è l’espressione della volontà generale) e del marxismo (la suddivisione in due classi della società, in lotta fra loro). Tuttavia, il populismo si connota anche per una certa conformità alla cosiddetta “pancia” dei propri elettori, tale per cui, a seconda del contesto storico-sociale del momento e della convivenza, in un partito populista, con ideologie più definite, non si può dire che esso abbia dei principi ben definiti che ne orientino l’agire. Non si può dire, cioè, che abbia degli “Ideali” in cui credere, o perlomeno degli ideali concreti, in grado di guidare l’azione e la realizzazione degli ideali astratti nel mondo. Per esempio, alla base del populismo vi possono essere gli Ideali di Libertà, Uguaglianza, Onestà e Lavoro, ma, differentemente dal liberalismo classico, dal marxismo, dalla socialdemocrazia e altre Ideologie meglio definite, non è facile dire in che cosa consistano effettivamente questi valori e come possono essere realizzati.
Questo è uno dei motivi per cui si può parlare sia di populismi di sinistra, che di populismi di destra, che di populismi ancora più indefiniti, che rivendicano un carattere “non ideologico” o “post-ideologico”[2]. Come già si è anticipato, a opinione di chi scrive, il populismo sarebbe più “un atteggiamento ideologico”, ossia un particolare modo di porsi nei confronti della realtà, fatto di divisione in bianco (il popolo) e nero (l’élite), giudizi semplicistici, conformità a bisogni, pensieri ed esigenze di un “popolo” inteso in maniera piuttosto grossolana e ideologizzata; per un partito politico, solo alla stregua di uno strumento, va successivamente ad applicarsi a un’ideologia, modificandone le forme del discorso ai fini dell’ottenimento del consenso. Non è un caso che i partiti politici populisti che, come il Movimento 5 Stelle, rivendicano un carattere post-ideologico, siano quelli la cui collocazione politica risulta più indefinita (e variabile) possibile sullo spettro politico e quindi, detto in parole povere, quelli con meno idee definite sul da farsi.
Altra caratteristica del populismo è la già citata contrapposizione alle cosiddette “élite”, viste come fondamentalmente corrotte, sfruttatrici e manipolatrici e collocate su un più o meno astratto Olimpo da cui manovrano il mondo. A queste fa da contraltare una generica virtù del popolo, visto come depositario di valori concreti e genuini, che subisce le angherie del potere e di cui il populismo cerca di indirizzare e alimentare, in modo spesso fanatico e semplicistico, il malcontento generale. È evidente come questa contrapposizione sia assimilabile al concetto marxista di “lotta di classe”, pur con tutte le differenze del caso.
Un altro elemento che è interessante rilevare del populismo, sebbene non sia onnipresente (non compare infatti in questa definizione), è il legame emotivo del popolo con un capo carismatico, che comunica col popolo con il minor numero di intermediari istituzionali e mediali possibile. Così facendo, egli rafforza un legame emotivo ben più forte di quello che c’è fra un cittadino, convinto da argomentazioni razionali, e l’attuale o possibile governatore che le ha espresse. Un esempio emblematico di questo atteggiamento lo abbiamo in Italia con il segretario della Lega Matteo Salvini, che prima dell’emergenza Covid-19 era solito presenziare a numerosi comizi, sagre e feste di paese, con l’evidente intento di fidelizzare i suoi elettori, avvicinandovisi il più amichevolmente e umanamente possibile. Questo tipo di legame è stato spesso, nella storia dei populismi (specie quelli di destra) un pretesto per avallare, col tacito consenso del “popolo”, gli interessi dell’effettiva élite del Paese, le quali erano spesso gruppi della borghesia industriale che fornivano sostegno economico al partito in cambio di politiche favorevoli. Il nazismo e il fascismo hanno rappresentato l’esempio paradigmatico di questa politica.
L’ultimo elemento da analizzare di questa definizione è l’idea che la politica sia “espressione diretta della volontà generale del popolo”. In sostanza, viene detto che ciò che il popolo pensa debba essere attuato. Nella visione populista, viene meno l’importanza delle istituzioni, delle regole del mercato e delle forme in cui si esercita il potere. Nell’analisi sul populismo di Yves Mény e Yves Surel si afferma che “La fondamentale caratteristica del populismo è la convinzione che il popolo sia ‘fonte del potere’. Da ciò deriva un ‘rifiuto della rappresentanza o una critica dei rappresentanti, un considerare il costituzionalismo un ostacolo insopportabile al potere del popolo’”.
Da questa connotazione del populismo, non si possono che trarre logicamente dei giudizi negativi: l’idea che il potere sovrano sia in balia di decisioni arbitrarie e prese sull’onda del momento, irrispettose dei tempi e delle forme in cui esso si è organizzato nel lungo processo di razionalizzazione (intesa come organizzazione razionale) degli Stati europei, appare come il capriccio di un bambino che, a scuola, vuole mangiare in mensa quello che vuole, all’ora che gli piace, senza rispettare i tempi dedicati al pasto, i turni di mensa, il menù del giorno…
Tuttavia, non bisogna dimenticare che talvolta il populismo nasce da contingenze storiche che ne giustificano, almeno in parte, l’insorgere. Pensiamo al caso della crisi economica greca: molto del discorso antieuropeista, appannaggio dei partiti populisti di destra (ma anche di sinistra, come nel caso del PC guidato da Marco Rizzo), nasce da una contestazione delle politiche di austerity dell’Unione Europea nei confronti della Grecia. In questa sede non ne parleremo diffusamente (lascio in nota un link per un approfondimento[3]), ma ci basterà ricordare delle numerose politiche di austerity, quali tagli alla sanità, ai salari e alle pensioni e in generale allo Stato sociale, negoziate dall’Europa con la Grecia come condizione per i prestiti miliardari che avrebbero dovuto risollevare il debito pubblico greco. Ci basterà ricordare come questi tagli, “dolorosi ma (forse?) necessari”, ebbero terribili conseguenze sulla vita della popolazione. Tuttavia, non è questa la sede per indagare di chi sia la colpa della situazione della Grecia negli ultimi anni [4]. Ci basti pensare che spesso è difficile squalificare un legittimo malcontento popolare (come quello che ha attraversato, e tuttora attraversa, la popolazione greca ma anche europea) di fronte a condizioni materiali così tragiche[5]. Questo ci porta a pensare che l’insorgere di argomentazioni populiste e antieuropeiste, che facciano leva sulla “volontà generale del popolo” è per alcuni versi inevitabile, per quanto magari ingenua da un punto di vista economico. La parabola del politico ellenico d’ispirazione comunista Alexis Tsipras ci fornisce un caso esemplare delle vittorie, ma anche delle sconfitte, del populismo: egli vinse le elezioni nazionali del 2015 anche grazie alle sue ferme intenzioni di non accettare più dei piani di aiuto così “austeri” dall’Europa e le ribadì cercando il sostegno del popolo attraverso un referendum, in cui vinse il No, in cui chiedeva “direttamente al popolo” se il governo avrebbe dovuto o meno accettare le dure condizioni che venivano imposte per l’accettazione dal nuovo piano. Sappiamo poi che Tsipras non fece quanto promesso e scese a patti con l’Unione Europea, accettando un piano di finanziamenti sostanzialmente identico a quello precedentemente rifiutato. Questo lo aiutò a risollevare, almeno parzialmente, l’economia del suo Paese, ma gli valse la sconfitta alle successive elezioni.[6]
In altre circostanze, invece, il richiamo alla “sovranità popolare” del populismo sembra solo essere un escamotage per delle prese di posizione autoritarie, rasenti l’illegittimità e l’oltraggio alle istituzioni. È il caso delle proteste del presidente americano Donald Trump per dei presunti brogli elettorali durante le elezioni americane del 2020. Presunzioni, queste, mai suffragate da alcuna prova, ma che hanno contribuito (assieme alle provocazioni dello stesso Trump) a scatenare uno dei più grandi attentati interni alla democrazia americana: l’assalto a Capitol Hill da parte di una folla di manifestanti il 6 Gennaio 2021, che è ancora ben vivo nella memoria di tutti noi.
RIFLESSIONE SUL POPULISMO: È POSSIBILE UN’ALTRA VIA?
La detenzione del potere politico è da sempre legata, in tutte le sue forme, a una necessità di consenso popolare: persino i regimi più autoritari e repressivi (anzi, in particolare i regimi più autoritari e repressivi) hanno sempre trovato necessario giustificare davanti al popolo sé stesse e il proprio operato, sia in una funzione auto-assolutoria (giustificare i comportamenti apparentemente negativi messi in atto, per un fine superiore, spesso un fine “Storico”), sia soprattutto in funzione positiva (mettere in mostra i risultati, reali o presunti, delle proprie politiche). Ne segue che il potere politico necessita sempre di una comprensione, per quanto generica e grossolana (il cosiddetto popolo è comunque una massa eterogenea di classi, ceti e individui), dei desideri, delle esigenze e dei pensieri dei “sottoposti alla sovranità”, siano essi sudditi, uomini irreggimentati o, a maggior ragione, elettori. Qualsiasi gruppo politico ritiene di fare il Bene comune. Che il Bene comune sia da circoscrivere a una stretta cerchia di “uomini liberi”[7] o, in un senso più inclusivo, alla totalità dei cittadini di uno Stato[8], o alla totalità dell’umanità[9], è un altro conto, che afferisce ai presupposti ideologici di ogni partito o ideologia. La cosa sicura è che la sovranità deve legittimarsi, e per farlo deve fornire una propria immagine della realtà e proporla come “la migliore possibile”. Quest’immagine, a seconda dell’ideologia che la sostiene, capterà gli interessi prevalenti di un certo gruppo/di certi gruppi, di cui si figurerà ideologicamente le caratteristiche principali (che idealmente devono afferire al numero più ampio possibile di individui) e che scommetterà essere il più numeroso e il più rappresentativo della totalità delle persone a cui si rivolge. Un comunista si rivolgerà ai propri possibili elettori scommettendo che essi rappresentino la maggioranza della popolazione e scommettendo che la condizione materiale ed economica sia la componente principale nella definizione di un individuo. Analogamente, un democristiano si figurerà che la maggioranza della popolazione sia fatta di cittadini moderati e ossequiosi nei confronti della morale e la religione, scommettendo che queste inclinazioni caratteriali e determinazioni socioculturali siano quelle decisive nella definizione e conseguentemente nella scelta politica di un individuo. Allo stesso modo Matteo Salvini si figura “gli Italiani”, di cui parla in senso generale e inclusivo, come fondamentalmente stufi dell’emergenza immigratoria che il nostro Paese sta affrontando e di cui la sola Italia, secondo la sua narrazione, farebbe le spese, rispetto a un’Europa distante e menefreghista. È vero anche che esistono dei partiti politici in democrazia che rappresentano specialmente gli interessi di fasce minoritarie della popolazione, e tuttavia questi stessi partiti cercheranno, per guadagnare consenso, di abbracciare gli interessi di una classe sempre più ampia di individui.
Il populismo odierno si inserisce in questo complesso ideologico di giustificazione della sovranità e ricerca del consenso. La sua capacità “camaleontica” di adattarsi alle contingenze storico-sociali, di costruire un’immagine della realtà semplice e ben definita, funzionale a una narrazione che voglia veicolare un messaggio altrettanto semplice e diretto, e infine la capacità di creare un legame emotivo molto forte fra capo carismatico/movimento politico e popolo, lo rendono un utile strumento, innervato nella pratica stessa del fare politica.
E tuttavia, non tutta la politica è populismo.
Per quanto in questo articolo si sia più volte insistito su quanto il populismo sia presente nel fare politica, ciò che demarca la differenza fra le due cose, è che il populismo –in primis, si serve della distinzione manichea popolo/élite, cosa che non tutti i movimenti politici fanno –in secundis, è un mero strumento di propaganda, che si fonda quasi solo sulla critica e che esaurisce in ciò la sua funzione. Il fare politica è certamente ricerca del consenso e critica dell’esistente (e in quest’ambito, per i motivi che abbiamo appena descritto, il populismo ha un terreno molto fertile, ed è difficile non cadere nel tentativo di sfruttarne i meccanismi di costruzione della realtà e fidelizzazione del consenso), ma è anche proposta costruttiva, attività trasformatrice, fondata su ideali concreti che guidano l’agire. Il populismo, lo ripetiamo per l’ennesima volta, non fa tutto ciò e quando lo fa, spesso agisce in questo modo perché si trova non più dalla parte dell’opposizione, ma da quella del governo. In questo caso, o prevalgono le istanze ideologiche del movimento cui il populismo si appoggia, e/o si tentano di realizzare, senza una preventiva organizzazione, le promesse millantate precedentemente, oppure, nel peggiore dei casi, si alimenta la retorica per cui l’élite condiziona sempre, in qualche modo, l’agire del partito/movimento populista al governo, impedendo di realizzarne le promesse.
Quando ci confrontiamo con temi così divisivi nella nostra epoca, e che si prestano a un così ampio campo di applicazione, come il populismo, innanzitutto dobbiamo calare il termine, ogni volta che lo sentiamo o lo utilizziamo, nel suo contesto di riferimento. Capire le ragioni che ne hanno portato l’insorgenza, per correggerle se sono sbagliate, o per accettarle nei limiti del possibile, se sono giuste. Se vogliamo effettuare un giudizio critico su un leader, dovremmo sforzarci di capire quanto nei suoi discorsi c’è di meramente populista e quanto invece è una parte, dolorosa ma necessaria, di semplificazione della realtà volta a ottenere il consenso, ottenuto il quale il leader politico si impegnerà ad attuare idee e progetti ben più concreti.
Ma soprattutto vorrei che passasse l’idea che i malcontenti
male indirizzati, figli del populismo moderno, non vanno semplicemente
condannati e liquidati per ragioni morali, bensì vanno analizzati nel profondo.
Perché è anche attraverso l’analisi di questi che si riesce a compiere quell’esercizio
di pensiero critico, di “pensare altrimenti”, che sempre nella storia
dell’umanità, in qualsiasi ambito, ha portato all’innovazione e al progresso.
[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Populismo_russo
[2] Zulianello 2019a, pag.32
[3] https://www.lifegate.it/crisi-greca-date-storia-riassunto
[4] anche se la prima colpa, o quantomeno la più immediata da individuare, sta nel falsamento del bilancio pubblico, al fine di rimanere nella zona Euro, da parte dei governi precedenti a quello di George Papandreou, il primo ministro che rivelò questo falsamento ed innescò la crisi economica in Grecia.
[5] https://valori.it/grecia-cronistoria-di-un-dramma-economico-e-sociale/
[6] https://www.ilpost.it/2019/07/14/grecia-sconfitta-tsipras-syriza/
[7] com’era nel caso della democrazia ateniese di Pericle, dove c’è una concezione del cittadino abbastanza “esclusiva”, escludente schiavi, stranieri, donne…
[8] come per i teorici del moderno sovranismo
[9] come nel caso del comunismo marxista, che propone un abbattimento delle frontiere fra popoli e nazioni per una fratellanza universale, ma anche nel caso di alcune frange del Partito Democratico che spingono per un’integrazione il più inclusiva possibile degli immigrati che arrivano sul suolo italiano.