L’arte di essere felici secondo Seneca ed Etty Hillesum
Corre l’anno 65 d.C. quando, all’età di 69 anni, il filosofo e politico romano Lucio Anneo Seneca è costretto a togliersi la vita, accusato di aver ordito una congiura contro l’imperatore Nerone. La sua è stata un’esistenza turbolenta, dapprima favorito dalla sorte e precettore del giovane imperatore, poi allontanato da corte e forzato a ritirarsi a vita privata. Così la fortuna si fa beffe degli uomini. Ma alcuni uomini arridono alla fortuna, e Seneca è uno di questi. Nella seconda metà della sua vita, persino in punto di morte, egli non fu meno felice di quanto lo era stato prima.
La sua fu un’epoca di sconforti e di tumulti, così come ogni epoca, del resto, ha i suoi sconforti e i suoi tumulti. I periodi più difficili sono sempre tempi di prova e spesso, quando non si riesce a rendere ragione delle sofferenze, ci si convince che esse siano state mandate sulla terra al solo fine di testare le virtù umane. Così come avvenne ai tempi di Seneca e ad ogni tempo che la terra abbia vissuto, anche oggi noi ci sentiamo solennemente chiamati a dare prova del nostro coraggio, della nostra resilienza, della nostra bontà e forza d’animo. Questi sono gli obblighi che pesano su di noi.
Le difficoltà sono sconvolgenti perché, oltre a toglierci qualcosa di materiale, ci presentano numerose domande irrisolte, tutte incentrate su un’antica ma persistente questione: da cosa dipende la felicità? È realmente raggiungibile, anche nella privazione? Esiste una ricetta generale per la felicità o può essere raggiunta solo tramite un percorso di vita individuale?
Sono in molti tra noi, nella cupa solitudine delle loro stanze, a percepire una doppia direzione del tempo. Da un lato il tempo interiore che sembra non passare mai, per cui tutte le nostre giornate appaiono schiacciate su un loop estenuante, in cui le possibilità sono sempre le stesse e sempre ridotte. Dall’altro il tempo esteriore, che continua a correre come prima, trasfigurando un mondo che forse non riconosceremo più e che non saremo pronti ad affrontare quando saremo realmente chiamati a farlo. Così come i giorni e i mesi, sentiamo anche le occasioni scivolare via dalle nostre mani, e alla fine il fatto che il tempo si sia fermato è un pretesto per non fare, per fermarsi e, semplicemente, aspettare.
Sappiamo bene che ogni grande tragedia è uno spartiacque che segna un prima e un dopo. E allora non ci resta altro che sognare un “dopo”. Un “dopo” in cui potremo fare, osare, uscire, divertirci, essere finalmente felici. Ma più passa il tempo più il sogno di questo “dopo” diventa inafferrabile ed evanescente.
Neanche un secolo fa, il 27 gennaio 1945, le grigie e fredde porte del cancello del campo di concentramento di Auschwitz si aprivano alla libertà, alla rinascita, alla redenzione. Dietro i cancelli si affacciavano molti volti spaventati, sorretti da corpi stremati. Erano loro i prescelti, i redenti, i salvati. Per molti altri corpi, invece, era troppo tardi. Eternamente sepolti nel ghiaccio, non videro mai quell’era nuova che tanto avevano atteso. Ciò che rimane sono solo i resti delle loro vite, che furono loro sottratte e poi fatte a brandelli. La fortuna non fu affatto clemente con loro, nonostante la loro rettitudine.
Etty Hillesum, scrittrice olandese morta proprio lì, ad Auschwitz, appena due anni prima, non poté vedere questo nuovo “Umanesimo” risorto dalle ceneri della disgrazia che lei tanto aveva sognato. Tuttavia anche Etty, come Seneca, fu felice fino ai suoi ultimi giorni.
Cos’è dunque che accomuna questi due personaggi, e quale conforto possiamo trarre oggi dalle loro parole? In primo luogo, Seneca ed Etty, così come molti altri uomini, sono stati messi a dura prova dalla sorte. Un’aspra verità che non dovremmo mai dimenticare è che così come un giorno ci è dato, il giorno seguente può esserci tolto. Comprendiamo soprattutto adesso come tutto intorno a noi sia estremamente fragile e come nulla di esterno possa fare da appiglio alla nostra serenità. Ma se c’è anche una sola cosa che non può esserci sottratta, allora è lì che bisogna cercare una risposta, una via d’uscita dalle tenebre e, infine, la felicità. Come scrisse Søren Kierkegaard:
Ogni concezione che fa dipendere il senso della vita da qualcosa di esteriore è disperazione
La disperazione, intesa non tanto come tristezza, quanto come sintesi tra desiderio e paura, è il maggiore ostacolo alla felicità. Ne La vita felice, Seneca definisce la felicità come uno stato d’animo in cui si gode di ciò che si ha e non si desidera nulla di più. Mentre l’uomo comune crede erroneamente che la felicità comporti l’esaudimento di ogni desiderio, l’uomo saggio sa bene che la vera povertà alberga nell’abbondanza e, al contrario, la ricchezza si nutre della semplicità. Ancora più radicalmente, Seneca ci dice in modo chiaro che meno cose desidereremo, meno saremo schiavi della sorte e più padroni di noi stessi. La felicità non è mai asservita al futuro, ma focalizza tutte le sue attenzioni sul presente. Il momento presente va vissuto in tutta la sua pienezza, e non scansato come preludio di un futuro illusorio in cui forse si potrà essere gratificati o risarciti. È esattamente questo che intende Seneca quando scrive, ne La brevità della vita:
Ognuno brucia la sua vita e soffre per il desiderio del futuro, per il disgusto del presente
La felicità è la capacità di vivere senza niente: uno stato di tranquillità segnato dall’assenza del desiderio. Non dipende affatto da beni esteriori quali cariche, denaro, cibo raffinato, bei vestiti. Anzi, è proprio quando i beni esteriori ci vengono tolti che, se volgiamo lo sguardo verso noi stessi scopriamo tesori immensi. Lo aveva compreso bene Etty Hillesum, a cui il regime nazista aveva tolto tutto. A Etty rimaneva solo uno spazio interiore che lei ha saputo illuminare di luce e libertà. Così scrive nel suo diario:
E ora che non voglio più possedere nulla e sono libera, ora possiedo tutto e la mia ricchezza interiore è immensa
Etty respira e vive con la sua anima, che è diventata per lei un rifugio prezioso che è riuscita a costruirsi con le sue mani. Coltivando questo spazio interiore, tutti noi possiamo sfuggire al conformismo e allenarci a fare ciò che è giusto e bene fare, non ciò che è fatto più frequentemente. La pigrizia può ora lasciare il posto all’attività. Se ci alleniamo ad essere indipendenti nei confronti di ciò che è fuori di noi, allora potremo vivere in una cella vuota e grigia con più dignità di chi vive nel lusso.
Non bisogna tanto rifiutare il possesso delle cose esterne, ma viverle con distacco, per cui se ci vengono sottratte non ci considereremo più miseri di prima. Occorre andare al di là della disperazione, al di là della sterile attesa del futuro che paralizza l’azione presente, al di là dell’apparenza, della superficialità. Vivere nel presente e non attendere il domani, sentire il proprio corpo e la propria anima nel profondo senza essere disturbati dal chiasso del traffico esterno. Dedicarsi al perfezionamento individuale con gli strumenti che si hanno, esercitarsi nella virtù, che significa allenarsi a non dipendere da nulla. La felicità che si ricerca tutti i giorni è illusoria ed è schiava del piacere che si consuma brevemente come la fiamma di una candela. La vera felicità è invece gioia, fuoco che arde eternamente dentro di noi.