I fondamenti della Costituzione
“Super partes”
Con la sentenziosità che le è propria, il latino è la lingua che, attraverso questo semplice aggettivo composto, riesce a esprimere al meglio l’imparzialità che connota la Costituzione italiana. La Costituzione del nostro Paese è infatti sia il fondamento dell’imparzialità, perché stabilisce le norme basilari che definiscono una forma di governo, tutelano i diritti fondamentali di ogni cittadino e regolano la suddivisione e i compiti degli organi di potere, che della parzialità, poiché la rende legittimamente possibile nelle forme e nei limiti che impone, a salvaguardia dei diritti fondamentali.
Se è vero, come dicono alcuni, che Dio è morto, la sacra inviolabilità di un qualcosa è ancora il fondamento da cui è possibile partire, dissociarsi, agire e pensare. Per capire i rami, è opportuno partire dalle radici.
La storia e le origini della Costituzione
Lo Statuto del Regno, più comunemente conosciuto come Statuto Albertino nacque per concessione di Re Carlo Alberto di Savoia; venne applicato prima nel Regno di Sardegna, nel 1848, e poi a tutto il Regno d’Italia, non appena nacque, nel 1861. Il Re si trovò costretto a concedere lo Statuto nel contesto dei moti del 1848, che sconvolsero totalmente l’Italia e l’Europa. La richiesta di una costituzione in quegli anni era particolarmente veemente da parte del ceto borghese, ossia quell’insieme eterogeneo di artigiani, agenti di borsa, medici, avvocati e professionisti di vario genere che si andava affermando, a partire dalla fine del Medioevo, come il motore dell’economia e della cultura europea e mondiale. Il reclamo di tutta una serie di diritti, in special modo politici, da parte di questo ceto, esprimeva una volontà di autodeterminazione e di decisione in merito alla “cosa pubblica” e si opponeva all’assolutezza del potere sovrano, che si era riaffermata con la Restaurazione. Carlo Alberto, come molti sovrani della sua epoca, fu costretto a concedere lo Statuto (la parola “Costituzione” era troppo politicamente connotata), solo che, a differenza dei suoi pari, egli non lo abolì mai, ma lo mantenne, e questo durò fino al 1948.
Possiamo delineare lo Statuto Albertino con tre aggettivi:
- breve, poiché si limitò all’enunciazione di alcuni diritti, civici e politici, fondamentali che limitassero le ingerenze del sovrano. Fra questi diritti abbiamo un Senato eletto dal Re, che rimaneva comunque il Capo del Governo, e una Camera dei Deputati, eletta da cittadini con un certo reddito. Questo aspetto implicava quindi la possibilità di libertà di espressione, parola e discussione a una ristretta cerchia di cittadini.
- flessibile, perché poteva esser modificato e integrato da atti di legge ordinari.
- concesso, poiché formalmente fu una concessione libera e spontanea, che il Re fece al popolo e non il frutto di un’imposizione di vincoli del popolo alla sovranità, attraverso una rivoluzione.
Il primo e il secondo aspetto consentiranno un’evoluzione dello Statuto parallela al divenire storico, che porterà l’Italia a una forma di governo parlamentare, in cui un sempre maggior peso verrà assunto dalla Camera dei Deputati.
Lo Statuto però non tutelava, se non con espressioni astratte e piuttosto vaghe, le libertà democratiche. Questo favorì, negli anni Venti del ‘900, l’ascesa al potere in modo formalmente legale del fascismo, che pose fine alla progressiva democratizzazione del Paese, con l’instaurarsi di una dittatura.
Ora, teniamo fermi alcuni punti, che ci servono per un confronto con la Costituzione. Lo Statuto fu redatto in fretta e furia, nel pieno di un periodo di grandi sommosse. Fu, per molti aspetti, vago e indefinito, in quanto non espresse con precisione l’ossatura istituzionale del Paese. Fu anche esplicitamente flessibile, e quindi soggetto a varie interpretazioni. Questi fattori, che se da un lato ebbero un effetto positivo nel consentire alle istituzioni di mutare, come abbiamo detto, in accordo col divenire storico, dall’altro lato consentirono l’ascesa del fascismo, il cui capo, Benito Mussolini, esautorò con una serie di leggi i poteri del Parlamento e assoggettò a sé gli organi del potere.
È ora possibile un confronto con la Costituzione, che nacque nel 1948 per delibera dell’Assemblea costituente dopo la caduta del Fascismo, la fine della Seconda Guerra Mondiale e la votazione (per la prima volta a suffragio universale) a favore di una forma di governo repubblicana. La Costituzione, in una definizione per contrapposizione, può essere definita con questi tre aggettivi:
- lunga, poiché si pronuncia in un modo relativamente preciso e dettagliato, su molti settori della vita pubblica e non solo. Il testo costituzionale è diviso in tre parti. I primi dodici articoli costituiscono i principi fondamentali della Costituzione e ne esprimono essenzialmente “lo spirito”, che afferma i valori di laicità, democrazia, uguaglianza giuridica, inviolabilità dei diritti fondamentali, diritto al lavoro e rifiuto della guerra come strumento d’offesa. La parte prima è invece riservata ai diritti e i doveri dei cittadini; si specifica come le libertà degli uomini, individuali e collettive, siano un diritto inviolabile, oltre che una serie di diritti sociali (come quello al lavoro, al riposo, al giusto salario e alla durata massima della giornata lavorativa) e una serie di doveri (come crescere e istruire i figli) e limiti (come nell’uso della forza) cui gli stessi sono sottoposti; la parte seconda, denominata “Ordinamento della Repubblica”, su cui non ci dilungheremo, è invece incentrata sull’organizzazione dello Stato e tratta delle varie suddivisioni del potere legislativo, esecutivo, giudiziario, della figura del Presidente della Repubblica (che della Costituzione è il garante), della Corte Costituzionale e delle Regioni.
- votata, perché è stata, pur se per tramite dei suoi rappresentanti, eletta dal popolo in maniera democratica. Essa vincola tutti i cittadini italiani, compresi coloro che hanno redatto la Costituzione.
- rigida, perché qualsivoglia procedimento di legge preso in contrasto con quanto espresso dalla Costituzione può essere prontamente rimosso, e questa può esser modificata solo attraverso atti straordinari di revisione della Costituzione, che richiedono un lungo iter procedurale prima di essere approvati.
Essa fu redatta dall’Assemblea costituente, a sua volta eletta dal popolo nello stesso giorno del referendum per la forma di governo, al fine di discutere e approvare la nuova Costituzione della Repubblica italiana. Composta da esponenti di forze politiche molto distanti tra loro, ma con l’obiettivo comune di scrivere una Costituzione di matrice democratica e antifascista, l’Assemblea si insediò per la prima volta il 25 giugno 1946 e nominò suo presidente Giuseppe Saragat. È su queste forze politiche, espressione istituzionale delle diverse idee, ideologie e convinzioni che animavano l’Italia politica di quegli anni, che andremo adesso a sviluppare la seconda parte del nostro discorso, sulla scorta di alcune considerazioni di Norberto Bobbio. Mostreremo come è dalla diversità di pensieri, ma allo stesso tempo dalla comunanza d’intenti, che è nata la Costituzione italiana, la libera espressione di un patto democratico che, con la sua universalità, è in grado ancora oggi di raccoglierci sotto un’unica bandiera e che proprio per questo, al di là di anacronistici sentimentalismi pseudo-nazionalisti, è forse l’unico vero fondamento della nostra italianità.
Le idee cardine della Costituzione italiana
Secondo Norberto Bobbio, le idee cardini che, attraverso un compromesso, hanno dato vita alla Costituzione italiana sono quattro: l’idea liberale, l’idea democratica, l’idea socialista e l’idea del Cristianesimo sociale. Qui le esponiamo brevemente, rielaborando parzialmente il testo di Bobbio per esigenze di sintesi e ponendo, attraverso esempi tratti dalla Costituzione, l’accento su quali siano stati i contributi delle varie idee.
Il liberalismo
Il liberalismo è quella dottrina politica che parte dall’enfasi sulla libertà dell’individuo, sulla sua possibilità di realizzarsi autonomamente, con il minor numero possibili di vincoli ed obbligazioni esterne. Esso si è declinato storicamente prima nel liberalismo religioso e poi, quasi contemporaneamente, nel liberalismo economico e politico. Nato durante le guerre di religione (sia civili che interstatali) del ‘500 e del ‘600, in contrapposizione all’assolutismo della Chiesa dominante nel proprio territorio, il liberalismo religioso professava la libertà di coscienza nel credere e nello scegliere la propria professione di fede. Uno dei più grandi risultati storici del liberalismo religioso è stata la Rivoluzione Francese, con l’affermazione del principio di laicità dello Stato; principio, questo, che è ribadito anche nella nostra Costituzione. Il liberalismo politico e il liberalismo economico sono stati invece formulati teoricamente da filosofi ed economisti dell’Illuminismo, o comunque vicini a quella temperie culturale: per il liberalismo politico, il nome che per primo viene in mente è quello di John Locke, in particolare con i “Due trattati sul governo”. In questa sede, viene posto particolare accento sul ruolo “negativo” che deve avere lo Stato: la libertà dell’individuo è il punto di partenza etico-politico della riflessione di Locke, che afferma, sulla scorta della tradizione giusnaturalistica, che l’individuo abbia tre diritti naturali fondamentali, ossia la vita, la libertà e la proprietà privata. Questi diritti sono naturali, nel senso che appartengono alla persona in quanto tale, e non gli possono essere legittimamente tolti. La propria libertà finisce dove inizia quella degli altri. Lo Stato, quindi, ha un ruolo piuttosto limitato, “negativo”, ossia deve rimuovere gli ostacoli che vi sono per la realizzazione autonoma dell’uomo, e altresì non intromettersi in questa; non ha il ruolo “positivo”, dunque, di fornirgli gli strumenti per una realizzazione “guidata dall’alto”, ma deve fare da arbitro delle contese fra gli uomini e “disinnescare” gli elementi pericolosi per il rispetto reciproco dei diritti naturali. Il liberalismo economico ha invece in Adam Smith il suo più grande teorico e in generale ha come padri tutti quei pensatori che, in accordo con lo sviluppo storico, nell’Età Moderna, di un’economia mercantilistica, fondata sulla libera concorrenza fra individui in un mercato, affermavano la necessità di questa come motore del progresso e dello sviluppo collettivo.
L’idea democratica
Un altro principio fondante della Costituzione è l’idea democratica. Nonostante le diverse accezioni del termine nella storia, ha sempre significato una volontà di consegnare al popolo la sovranità: la democrazia è essenzialmente autogoverno, che si esprime nel voto e nella decisione collettiva in merito alle leggi. Spesso questa forma di autogoverno si esprime nella forma rappresentativa: il popolo delega dei propri rappresentanti a prender le decisioni. Questa delega è comunque periodica (in Italia si va a votare i propri rappresentanti ogni 5 anni, o ad ogni caduta del governo). La democrazia ha come proprio principio cardine l’uguaglianza, che si esprime non solo nello stesso valore del potere di decisione di ciascuno, ma anche nella parità di trattamento di tutti i cittadini di fronte alla legge e nel godimento degli stessi diritti. È facile vedere come questo sia il principio che più di tutti caratterizza il nostro Paese. Spesso e volentieri, nella storia il liberalismo e la democrazia sono confluiti in un’unica forma di governo (come nel caso dell’Italia, in cui si vedono distintamente, sin dai 12 articoli fondamentali, i principi dell’uno e dell’altro) perché rappresentano due momenti della stessa lotta contro lo Stato assoluto, il quale, come Stato senza limiti, offende la libertà e, come Stato fondato sul rango, sui privilegi di ceto, sulla distinzione dei cittadini in diversi stati con diversi diritti e doveri, offende l’eguaglianza. Tuttavia, sia per i principi cardini che li fondano (libertà e uguaglianza), sia per le lotte che li hanno contraddistinti[1], sia per le molte fazioni che hanno posto l’accento sui valori dell’uno ma non dell’altro[2], fanno sì che liberalismo e democrazia debbano essere distinti.
L’idea socialista
Il principio fondante del socialismo è quello, come per la democrazia, dell’uguaglianza, ma in un senso più forte, che di fatto lo va a opporre alle linee direttive di uno Stato puramente liberale: se la democrazia si occupa prettamente dei diritti politici uguali per tutti, per il socialismo quest’uguaglianza va integrata con un’uguaglianza sociale ed economica, poiché l’uguaglianza vera non si può realizzare solo sul piano politico. Per il socialismo, che nelle sue forme novecentesche[3] risulta in larga parte influenzato dalle considerazioni sociologiche di Karl Marx e Friedrich Engels, il potere determinante nel definire gli assetti di una società è quello economico. Spesso il potere economico strumentalizza quello politico per i propri fini e quindi, se da un lato i diritti politici possono essere formalmente uguali per tutti, dall’altro ciò non basta per garantire un’uguaglianza sostanziale, perché non si creino situazioni di “ingiustizia e diseguaglianza sociale”, in cui una ristretta cerchia di dominatori (da Marx identificati come i borghesi, o i capitalisti) sfrutti, alieni e opprima una maggioranza di sottoposti (gli oppressi, che Marx identificava soprattutto nella classe degli operai, chiamata “proletariato”). Nel Novecento, le due principali correnti del socialismo sono state quella riformista, che prevede il raggiungimento di un’uguaglianza economica e sociale attraverso delle riforme democratiche; come risulta evidente, è quello che è prevalso nella formazione della Costituzione; e quella rivoluzionaria, che prevede appunto una rivoluzione per instaurare una nuova forma di governo, che renda possibile un’effettiva uguaglianza sociale ed economica. Una tesi centrale del socialismo è quella dell’abolizione della proprietà privata, con una conseguente assunzione da parte dello Stato, o più in generale della collettività, del ruolo di guida (economicamente parlando) del Paese. In favore dell’uguaglianza (o dell’equità, a seconda dei vari partiti e movimenti della storia) sociale ed economica, allo Stato è preposta un’organizzazione e una pianificazione del lavoro molto massiccia, e/o l’adozione di misure assistenzialistiche più o meno grandi, volte al sostentamento del cittadino, specialmente quello più debole. Quanto è più evidente del socialismo nella nostra Costituzione è soprattutto quest’ultima idea, ossia quello di uno Stato che sia anche assistenziale nei confronti del cittadino: questo si rende evidente nella detenzione e nell’organizzazione statale di tutta una serie di servizi considerati essenziali alla persona, i cosiddetti “servizi pubblici”. Esempi semplici di questi servizi sono la sanità e l’istruzione pubblica, la concessione che parte sempre dallo Stato, dalle Regioni, dalle Provincie o dai Comuni di appalti per costruzioni di pubblico utilizzo, come le strade, gli ospedali, le scuole. Esempi di misure assistenziali nei confronti dei cittadini più deboli si possono vedere in vari provvedimenti presi dai Governi d’Italia negli anni: i vari bonus erogati, durante la pandemia, ai lavoratori in difficoltà, ne sono un esempio.
L’idea del Cristianesimo sociale
Una medietà fra le esigenze del liberalismo e socialismo, sotto l’egida della morale cristiana, è rappresentata dal Cristianesimo sociale. La Chiesa ne fu la principale promotrice. Del liberalismo il Cristianesimo sociale rifiuta l’eccessivo individualismo; del socialismo condivide la necessità di difendere gli umili dai soprusi e di aiutarli nel sostentamento, secondo il principio della carità cristiana. Tuttavia, rifiuta la tesi dell’abolizione della proprietà privata, considerata un diritto naturale. Alla base del Cristianesimo sociale vi è l’idea della solidarietà, tale per cui se la proprietà di un bene o un mezzo è privata, l’uso che se ne fa è sociale: la proprietà privata va estesa il più possibile a tutti e l’auspicio del Cristianesimo sociale è che l’uso che se ne faccia sia collettivo, secondo un principio di cooperazione fra gli uomini. In quest’ottica, lo Stato del Cristianesimo sociale è attivo, ma non fino agli estremi del socialismo, citando Bobbio, “sostenendo la necessità che si formassero fra l’individuo e lo Stato libere associazioni a scopo economico e sociale, le quali permettessero, da un lato, il superamento dell’individualismo e l’attuazione dell’idea solidaristica, ed evitassero, dall’altro, il pericolo di cadere nel livellamento collettivistico.”
[1] Il liberalismo ha perlopiù combattuto per i diritti civili, come la libertà di parola, di mercato, di concorrenza, mentre la democrazia ha posto più che altro l’accento sull’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge e sul potere decisionale affidato al popolo.
[2] se il liberalismo è un principio essenzialmente “borghese”, che può esser condiviso anche da frange più a sinistra, la democrazia ha invece avuto, come nel caso dei giacobini, dei mazziniani, dei marxisti e degli anarchici, molte rivendicazioni soprattutto a sinistra, per quanto ciò non escluda che essa sia diventata parte anche delle rivendicazioni di frange politicamente più destrorse.
[3] che sono quelle, secondo lo stesso Bobbio, più concrete e realistiche, rispetto alle forme di socialismo utopico che nella storia del pensiero si presentavano sin da Platone.