Grillo e la cultura (dello stupro)
Negli ultimi giorni, a causa di un video pubblicato sul web da Beppe Grillo, ha spopolato la notizia di un caso che avrebbe visto coinvolto in uno stupro di gruppo il figlio del politico. Le indagini sul fatto, avvenuto nello scorso luglio 2019 in Costa Smeralda, erano state chiuse dalla Procura nel novembre scorso, mettendo gli atti a disposizione della difesa, che ha chiesto un termine per svolgere le controdeduzioni ed eseguire le indagini difensive. Attualmente, a livello legale, per Ciro Grillo si profila il rinvio a giudizio.
Lasciando in secondo piano gli aspetti giuridici, il discorso dell’ex comico -pubblicato tramite video sul web – argomenta la tesi per la quale i ragazzi sarebbero innocenti sulla base del fatto che la ragazza ha denunciato dopo otto giorni.
Giustificare atti del genere con frasi come “sono solo ragazzi di 19 anni che si stanno divertendo, che sono in mutande e saltellano col pisello così perché sono quattro coglioni, non quattro stupratori” esplica semplicemente quella che definiamo “cultura dello stupro”, termine usato per descrivere una cultura nella quale lo stupro e altre forme di violenza sono comuni e in cui tale violenza è normalizzata e minimizzata.
Ancora più imbarazzante ed esplicativo di questo genere di cultura è il fatto che l’innocenza dei ragazzi, secondo Grillo, si basi non solo su un video, nel quale la ragazza appare in una “posizione di consensualità”, ma anche sul fatto che la denuncia della ragazza sia avvenuta “ben” dopo otto giorni.
Dire che il tempo che intercorre tra l’atto e la denuncia dà poca credibilità alla ragazza è esempio lampante della cultura dello stupro sopra citata. Colpevolizzare la vittima per non aver denunciato tempestivamente conferma il fatto che, in questo tipo di cultura, la vittima ha sempre torto, anche (e soprattutto) nel silenzio. E questo comporta a sua volta la vittimizzazione del colpevole, che consiste nel trasferire parte della responsabilità della violenza alla persona che la subisce. Non esistono codici che definiscono quale sia il tempo minimo per denunciare. Chi ha subito una violenza denuncia se se la sente, mentre se preferisce solo parlarne non vale di meno, né vale di meno la sua sofferenza: non esistono classifiche di validità in base a quanto tempo ci si mette per denunciare, dopo aver subito violenza.
Rispetto a questa tematica è stato anche lanciato nel web il tag #ilgiornodopo da Eva Dal Canto che ha condiviso la sua personale esperienza. Interessante è infatti il report che ne ha fatto Fanpage a riguardo, reperibile a questo link.
In conclusione, verrebbe quindi da dire “stendiamo un velo pietoso” su quella che, più che una gaffe, è stata a tutti gli effetti una dimostrazione di quanta ignoranza ci sia su tematiche sensibili come questa. Ma non sarebbe forse ora di smetterla di stendere teli per nascondere questi siparietti tutt’altro che comici?