Netanyahu, re di Israele (consultazioni e giudici permettendo)
Le elezioni israeliane del 23 marzo consegnano ancora una volta il primo posto a Netanyahu, che però non raggiunge la maggioranza assoluta. Male Gantz, il leader dell’opposizione è ora Lapid. “Bibi” riunisce attorno a sé la destra. Le prossime sfide: consultazioni e procedimenti giudiziari.
Usanza ha voluto, per molto tempo, che la stampa si riferisse al vincitore delle elezioni israeliane come “Re d’Israele”. Nel 2012, il TIME aveva intitolato “King Bibi” il suo numero dedicato a Netanyahu, seguito dal The Economist nel 2019. Con il passare del tempo e la maggiore frequenza delle tornate elettorali, l’appellativo sta cadendo in disuso. Se però esiste un “re” nell’attuale politica israeliana, è certamente Benjamin Netanyahu, ormai noto come “Bibi”, cinque volte Primo ministro (1996-1999 e dal 2009 in poi), leader della destra del Paese.
Le elezioni del 23 marzo 2021, le quarte in due anni, hanno visto il Likud (partito liberale nazionale/conservatore nazionale) guidato da Netanyahu, arrivare ancora una volta primo, conquistando 30 seggi su 120 alla Knesset, il Parlamento israeliano. Il voto in piena pandemia si era reso necessario dopo il naufragio, dopo solo 7 mesi di governo, della coalizione tra il Likud e il partito centrista Blu e Bianco, guidato dal generale Benjamin Gantz. L’accordo era venuto meno sull’approvazione della legge di bilancio e per i dissapori fra i due leader, che coabitavano malvolentieri in un esecutivo “a staffetta” (Gantz, ministro della difesa, sarebbe dovuto subentrare a Netanyahu come premier a metà legislatura). Gantz si era unito agli avversari del premier accusandolo di personalismo, mettendo in luce anche le sue recenti controversie giudiziarie: a carico di Netanyahu ci sono accuse di corruzione, frode e abuso di potere.
Tuttavia, dal voto del 23 marzo, Netanyahu è riuscito ad ottenere la sua ottava vittoria, la settima consecutiva dal 2009. Per due volte, il fattore personale è stato più importante dei numeri: sia nel 2009 che nel 2020, il Likud era arrivato secondo, ma Netanyahu era riuscito ad ottenere la maggioranza dei seggi alla Knesset mettendo in piedi coalizioni conservatrici.
Anche in questo caso, la vittoria di Netanyahu non è stata assoluta (e quindi non può dirsi pienamente “re d’Israele”), ma è evidente lo scarto rispetto ai suoi avversari. In particolare, il grande rivale Gantz, passato dai 33 della seconda elezione del 2020 a soltanto 8 seggi; i Laburisti, storico partito fondatore del Paese e di leader come Ben Gurion e Golda Meir, sono riusciti a malapena a sopravvivere con 7 seggi. Indebolito Gantz, il principale leader dell’opposizione è ora il centrista Yair Lapid, capo di Yesh Atid, secondo alla Knesset con 17 seggi.
In totale sono 13 i partiti entrati in parlamento, ma solo il Likud e Yesh Atid hanno ottenuto più di 10 seggi: molte forze politiche possono contare su un limitato numero di rappresentanti, che oscilla tra i 9 e i 4. Ciò è principalmente dovuto al sistema elettorale israeliano, un proporzionale con una soglia di sbarramento del 3%. Ad ogni elezione entra in Parlamento un gran numero di partiti, difficili da aggregare e, soprattutto, mantenere in un unico governo per un’intera legislatura. Si rendono dunque necessarie – e si è visto nel periodo 2019-2021 – continue elezioni anticipate, in cui il governo in carica spera di rafforzare la sua maggioranza, i piccoli partiti di incrementare il loro potenziale, l’opposizione di andare al governo. Nella storia israeliana si è cercato di porre rimedio una volta sola a questa instabilità, con la parentesi del “premierato” tra il 1996 e il 2003, poi abortita. Sul lungo periodo, il ricorso alle elezioni anticipate potrebbe minare la credibilità del voto agli occhi degli elettori e abbassare la loro partecipazione, anche se per il momento l’affluenza rimane alta (67,4%). Il Primo ministro, inoltre, non si dice per nulla spaventato da un’ulteriore – quinta – elezione, se questo dovesse servire a conferirgli una maggioranza più marcata.
Altre due importanti tendenze vengono confermate dal voto di marzo: la prima è il continuo spostamento di Israele a destra. Dal 1977, da quando è iniziata l’era del Likud con Begin, i Laburisti sono saliti al potere soltanto due volte. La seconda è l’emarginazione progressiva della questione palestinese dal dibattito pubblico. Se dei palestinesi con cittadinanza israeliana (i cosiddetti arabi israeliani) tutti i partiti tengono conto, perfino lo stesso Likud, dal momento che ormai rappresentano il 21% della popolazione, lo stesso non può dirsi dei palestinesi al di fuori dello Stato ebraico o nei territori cisgiordani in cui sono presenti o in costruzione gli insediamenti israeliani. Su questo tema, i partiti israeliani, di ogni colore, si esprimono poco o per nulla: la stessa sinistra sta ormai lasciando cadere la questione, dato che, semplicemente, non porta voti.
Nel frattempo, si delinea dopo il voto una corsa tra Netanyahu e Lapid per la premiership. “Bibi” è riuscito nuovamente a costituire una coalizione di destra, che al Likud unisce partiti vicini alla galassia religiosa quali Giudaismo Unito nella Torah, il Partito Sionista Religioso e l’ortodosso Shas. In totale, i parlamentari a sostegno di un sesto governo Netanyahu sarebbero 52 su 120. Ago della bilancia per la buona riuscita della coalizione di destra, sarà la decisione del blocco della destra religiosa Yamina (7 seggi), capeggiato dall’ex ministro Naftali Bennett. Pur non essendosi ancora pronunciato, è probabile che questi possa accordare, in fase di consultazioni, la sua fiducia al premier, data la presenza di partiti simili al suo nella coalizione. I partiti “anti-Netanyahu” raggiungerebbero invece quota 57, ma, date le divergenze, non riescono ad esprimere un unico leader. Ad avere più possibilità sembra essere Lapid, che dispone dei centristi di Blu e Bianco, dei Laburisti e di altre liste di centro e centrosinistra, non arrivando però oltre i 45 deputati.
Il 6 aprile il Presidente della Repubblica Rivlin ha conferito a Netanyahu l’incarico di formare un nuovo governo. Da quel momento in poi, il premier avrà 28 giorni di tempo (più due settimane di proroga) per le consultazioni e raggiungere la soglia dei 61 parlamentari per la maggioranza assoluta. L’incarico a Netanyahu è arrivato negli stessi giorni in cui è ricominciato il processo che lo vede imputato per corruzione, frode e abuso di potere. L’accusa gli contesta di aver ottenuto “favori inappropriati” da alcuni imprenditori (tra cui l’australiano James Packer e il produttore cinematografico Arnon Milchan) e di aver appoggiato il gruppo editoriale Yedioth Ahronot in cambio di copertura mediatica. Netanyahu si è sempre dichiarato innocente e ha affermato di voler affrontare il processo rimanendo in carica.
Si prospetta dunque un momento interessante per la politica israeliana. Netanyahu, detto anche Mr. Sicurezza per la sua provenienza dai servizi segreti e l’enfasi posta sull’esercito e la difesa durante i suoi governi, è riuscito a sfruttare in quest’ultima competizione elettorale i suoi ultimi successi in patria e in politica estera. Sul piano interno, ha potuto contare sull’ottimo andamento della campagna vaccinale anti-Covid, che ha portato il 60% dei cittadini israeliani a ricevere il vaccino, grazie anche alle ridotte dimensioni geografiche e demografiche del Paese, al suo elevato sviluppo tecnologico, alla qualità del sistema sanitario locale e all’efficienza del supporto messo in campo dalle forze armate, l’IDF.
In politica internazionale, il 2020 si è chiuso con gli Accordi di Abramo e l’avvio del processo di normalizzazione delle relazioni tra Israele da un lato, e attori fondamentali del mondo arabo – Emirati Arabi Uniti e Bahrain – dall’altro. Infatti, con la mediazione americana, ultimo atto dell’Amministrazione Trump in Medio Oriente, Israele ha potuto proseguire il processo di pace avviato a Camp David nel 1978 con l’Egitto e, in seguito, la Giordania. Negli Emirati e Bahrain, Israele potrà trovare due partner strategici sia per la stabilità regionale che per le relazioni economiche e commerciali. Potrebbe essere perfino un primo cauto passo per la normalizzazione con l’Arabia Saudita, già de facto in sintonia con Tel Aviv in chiave anti-iraniana e filo-americana. La precedente amministrazione Trump aveva riconosciuto Gerusalemme come capitale d’Israele e spostato l’ambasciata americana nella città. Su quest’ultimo punto, l’uscita di scena di Trump, il principale alleato di Netanyahu, potrebbe rappresentare un’incognita, benché non sia un elemento tale da mettere in crisi la pluridecennale alleanza USA-Israele.
Tante sono le variabili di cui dovremo tenere conto, ma, nel breve periodo, quale sarà l’avvenire politico di Mr. Sicurezza ce lo potranno dire solo le consultazioni e, in una versione israeliana di tanti duelli a noi noti, la magistratura.