La politica nel mondo ebraico-cristiano

Rispetto al mondo antico, nel mondo ebraico e cristiano la religione veniva vissuta come qualcosa di assolutamente totalizzante, perché impregnava di sé l’intera esistenza umana. Dato che il cristianesimo è largamente debitore dell’ebraismo per il suo modo di interpretare la realtà, per riuscire a comprendere quale fosse il rapporto tra il cristianesimo e la politica è necessario, per prima cosa, capire quali erano i tratti fondamentali del modo in cui il mondo ebraico concepiva il potere.

In generale, quasi tutte culture del Medio Oriente – i Greci erano gli unici ad avere il senso orgoglioso dell’autogoverno – erano caratterizzate da una monarchia divina, ossia una monarchia in cui la figura del re era presentata o come figura divina tout-court, oppure come inviata dagli dèi per governare il popolo: il regnante era, quindi, immerso in un’aura di sacralità. Rispetto alle altre popolazioni mediorientali, invece, il popolo ebraico rappresentava una sorta di eccezione: non aveva un re, ma il re era Dio stesso. Dio, infatti, svolgeva pienamente tutte le funzioni di un monarca: dava le leggi (le tavole di Mosè), e teneva saldamente nelle sue mani le redini del popolo.

Dio era in tutto e per tutto la guida, e si può anche dire che fosse assolutamente geloso delle sue prerogative: un esempio lo troviamo nella storia di Gedeone. Gedeone, alla guida del popolo di Israele, doveva scontrarsi con i Medianiti, e, per farlo, aveva preparato un esercito di trentaduemila uomini. Tuttavia, Dio disse a Gedeone di tenerne solo trecento, così che lui, Dio, avrebbe potuto mostrare tutta la sua grandezza facendo vincere la battaglia al popolo di Israele nonostante la drastica inferiorità di partenza. In questo episodio si nota come, per il popolo ebraico, la salvezza possa derivare soltanto da un’azione sovrannaturale di tipo divino, che, per mettere in luce tutta la propria potenza, si manifesta contro natura.

Nel mondo ebraico, dunque, si ebbe un’inversione della logica dominante, a favore di una teocrazia. Dato che i greci avevano suddiviso le forme di governo sulla base del numero di governatori (monarchia, aristocrazia, democrazia), quando Filone Alessandrino[1] si trovò a dover classificare la forma di governo degli ebrei, non sapendo dove collocarli, coniò proprio il termine “teocrazia”. Filone usava questa parola in senso letterale: per quanto riguarda la gestione del potere tra gli ebrei, i sacerdoti non contavano particolarmente, ma era Dio stesso non solo a dare le leggi, ma anche a governare concretamente. L’insieme dei poteri politici era tenuto saldamente nelle mani di Dio.

La conseguenza principale del modello teocratico ebraico fu che i poteri politici terreni cominciarono a essere considerati interamente umani: si ebbe, così, una forte secolarizzazione. Infatti, dato che non si credeva più che il re terreno fosse una figura divina o che avesse un rapporto particolare con Dio, il potere politico cominciò a essere visto come un potere relativo: mentre prima, quindi, era considerato come qualcosa di sacro, con il popolo ebraico, pur mantenendosi l’obbedienza, venne meno la venerazione, cosa che evidenziò la netta distinzione tra il potere divino e il potere umano.

Un altro aspetto interessante è legato alla visione della storia. I Greci e i Romani pensavano la storia come caratterizzata dalla ciclicità – idea che derivava dall’osservazione della natura (basti pensare al ciclo delle stagioni) –: Polibio, ad esempio, aveva proposto la formulazione dell’anakýklosis tòn politeiòn[2]. Per la religione ebraica, invece, la storia iniziò con la creazione di Dio, che avvenne dal nulla: il tempo cominciò lì (non si tratta, quindi, del Demiurgo platonico, che semplicemente riordina una materia già esistente). In seguito, ci fu la schiavitù del popolo ebraico e la sua conseguente liberazione. Si trattava, dunque, di uno schema triadico – creazione, caduta, redenzione – e lineare che prevedeva il progresso: non si torna al principio, ma si arriva a uno stato ontologico più elevato. Quindi, la storia non era più la ripetizione di qualcosa che ritornava in forme diverse, ma era diventata il luogo in cui si poteva sempre dare qualcosa di nuovo.

Veniamo ora al mondo cristiano. Gesù parlava dell’avvento del regno di Dio, luogo di rivelazione e pienezza, che si sarebbe compiuto alla fine della storia. Nelle parole di Cristo riportate nei Vangeli, si può notare la divisione tra la dimensione divina e quella politica: il regno di Dio non è politico, non è di questo mondo, né è da instaurarsi con gli strumenti di questo mondo (denaro e spada). Gesù rifiutava l’uso delle armi e, in generale, dei mezzi economici, militari e propagandistici per la diffusione del suo annuncio, che doveva essere trasmesso senza l’aiuto di mezzi politici.

Ma, quindi, che ruolo aveva la politica per la religione cristiana? Gesù è stato abbastanza chiaro: «Date a Cesare quel che è di Cesare e date a Dio quel che è di Dio». Anche qui, dunque, si può osservare una netta distinzione tra i due regni. Tuttavia, anche per i cristiani era necessario mantenere un’obbedienza formale al potere politico: quello cristiano non era un messaggio di rivoluzione, ma solo di distinzione dei piani. È interessante, però, notare come Gesù sia stato condannato a morte da un’autorità politica a seguito di una sollecitazione delle istituzioni religiose: pur avendo predicato la distinzione tra religione e politica, ha finito per pagarne la massima collisione.

I primi rapporti tra cristianesimo e politica furono conflittuali: dopo la morte di Gesù cominciarono le persecuzioni e, di conseguenza, i martirii. Il martire è una figura molto interessante per il nostro discorso: testimoniava che gli attributi del potere erano nelle mani di Dio e, quindi, che le autorità politiche non potevano pretendere una venerazione di tipo religioso. Infatti, come abbiamo visto anche per gli ebrei, non era possibile per i cristiani riconoscere che l’autorità politica fosse una figura divina.

Attraverso l’incarnazione di Gesù si realizzava, dal punto di vista teologico, una dinamica particolare: l’incorporazione dell’umano all’interno del divino. Nel mondo cristiano, la relazione con Gesù – la comunione – è un atto fisico grazie al quale tutti i credenti diventano parte del corpo di Dio. San Paolo diceva che il corpo di Cristo era la comunità dei credenti: tutti partecipavano alle funzioni di Gesù e, siccome queste funzioni sono le più grandi di tutte, tutti erano partecipi di poteri che li ponevano al di sopra del re, dell’imperatore e della morte stessa. 

Quest’ultimo aspetto è quello più interessante. Infatti, la paura della morte è lo strumento di potere più forte in assoluto – è lo strumento politico per eccellenza – e, nel cristianesimo, questa paura fu depotenziata. In più, tutti partecipavano di questa realtà. Mentre in Grecia i filosofi erano considerati gli unici in grado di distaccarsi dalle cose terrene, nel mondo cristiano si proponeva un messaggio di tipo anti-aristocratico: ogni singolo individuo era portatore di un potere quasi sovrano e, quindi, chiunque si poteva considerare un piccolo re.

Gesù, inoltre, diceva: «chi vuole essere primo tra voi si faccia servo». La dimensione politica, con queste parole, veniva desacralizzata. Il governante non era più padrone, ma servo: in questo tipo di società, i governanti erano in una condizione giuridica di maggiore obbligazione.

Per concludere, non si può non menzionare il De Civitate Dei di Sant’Agostino, dove è presente un forte uso della terminologia politica. Per Agostino, tutta la storia è una storia di amore, e, dentro questa dinamica storica, si muovono due città completamente immerse l’una nell’altra: la città di Dio e la città dell’uomo. La domanda che a noi interessa è: perché anche i membri della città di Dio dovrebbero occuparsi di politica? La risposta di Agostino è che bisogna cercare di contenere il male che c’è nella storia costruendo delle condizioni di pace: questo è il compito del potere politico. La funzione fondamentale della politica è, dunque, garantire la pace, che non è solo assenza di conflitti, ma è la tranquillità dell’ordine delle cose, in cui la giustizia dà a ciascuno ciò che gli spetta (questo è, per Agostino, il modello della giustizia divina). 

Questa costruzione agostiniana rimase un punto di riferimento per tutto il Medioevo, dove si intrecciò con la civiltà romana e, quindi, con il diritto romano.


[1] Filosofo di cultura ebraica vissuto in età ellenistica.

[2] «il ciclo delle forme di governo», che consisteva in un ripetersi delle varie forme di governo. A una forma di governo pura, ne seguiva la versione corrotta, che poi veniva rimpiazzata da un’altra forma pura, e così via. Si passava così, secondo questa idea, dalla monarchia alla tirannia, poi all’aristocrazia che, però, sfociava in oligarchia, alla quale seguiva la democrazia che poi degenerava in oclocrazia; per sconfiggere l’oclocrazia si tornava alla monarchia, e così il ciclo ricominciava.

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