Sull’inconsistenza del concetto di buco (parte 1)
Una delle conseguenze più importanti della cosiddetta “rivoluzione copernicana” della storia del pensiero, operata da Kant sul finire del’700 con la sua Critica alla Ragion Pura (ma forse già contenuta in nuce, almeno in parte, nelle teorie di qualche relativista/empirista di tempi precedenti) è l’introduzione di una nuova prospettiva relativamente a come l’uomo si rapporta al mondo che conosce: il mondo che abbiamo innanzi è il mondo che ci rappresentiamo, tramite delle determinate “lenti di percezione”, “categorie a priori” direbbe Kant, il cui filtro è per l’uomo inderogabile. Non conosciamo, non abbiamo percezione, dunque, del mondo esattamente per come è (o almeno, non necessariamente per come è), indipendentemente dalla nostra percezione.
Man mano che la riflessione, filosofica e non, è proceduta nella storia, si è affermata da più parti questa concezione della conoscenza, la quale si è dipanata in forme molto diverse da quella originaria (pensiamo per esempio alla rielaborazione di Schopenhauer), ma che ha sempre mantenuto nel suo nucleo centrale un assioma, un presupposto cardine, della ricerca ontologica e gnoseologica: “Non conta ciò che il mondo è, ma come lo si vede”.
Lo spostamento della prospettiva sul soggetto conoscente, che ora diventa anche “rappresentante”, o addirittura “creatore della realtà” (come per esempio nell’Idealismo Assoluto), porta con sé nuovi problemi, primo fra tutti, quello dei mezzi di conoscenza e rappresentazione: sul loro funzionamento, esaustività, limiti, possibilità di rapportarsi alla cosa in sé e, soprattutto, sugli errori e le illusioni che essi producono, anche all’interno dello stesso mondo fenomenico, e sulla possibilità di prenderne consapevolezza e risolverli.
In Kant, come sappiamo, non si cade nel relativismo o nello scetticismo, pur se la conoscenza della cosa in sé ci è preclusa: la conoscenza della realtà fenomenica si basa infatti su criteri rigorosi e scientifici, le categorie dell’intelletto, che percepiscono il mondo dei fenomeni, già delimitato nell’orizzonte delle “intuizioni pure” (lo spazio e il tempo), e lo ordinano.
In questa sede, ragionando su una questione specifica, che è quella dell’inconsistenza del concetto di buco, penso si possa aprire una finestra di riflessione più ampia, relata ai mezzi di conoscenza (strettamente connessi e dipendenti da quelli di rappresentazione, se rimaniamo fedeli all’impostazione kantiana), e all’erroneità e all’illusorietà che essi talvolta celano, specialmente quando danno per scontato e certo qualcosa che non lo è[1]; nella piena convinzione che una questione di questo tipo sarà sempre terreno anche per una riflessione filosofica, cui le neuroscienze, pur nel loro apporto fondamentale, non potranno mai sostituirsi del tutto, o a cui potranno essere, ancor più felicemente, complementari.
Ritengo che se questo testo riuscirà bene, si dimostrerà che l’inconsapevolezza che abbiamo dei meccanismi di costruzione della realtà dei nostri mezzi rappresentativi (ben lungi dunque da essere, secondo il senso comune, degli specchi perfetti della realtà) è così radicata in noi da attecchire non solo l’ambito dei giudizi morali (la credenza dogmatica nel codice morale di una religione), antropologici (l’eurocentrismo dell’antropologia fine-ottocentesca, le pseudo-teorie razziste), politici (le ideologie totalitarie) e così via, ma anche l’ambito della conoscenza più basilare, apparentemente più certa e meno opinabile, quella relativa agli oggetti del mondo sensibile.
I due mezzi di conoscenza “imputati” in questo testo sono il linguaggio e l’inferenza psicologica.
1)È dunque il linguaggio il “colpevole dell’inganno”, che non è soltanto un mezzo espressivo delle nostre conoscenze, ma è esso stesso un mezzo di conoscenza e rappresentazione. Infatti, non a caso il linguaggio, che è probabilmente il mezzo di comunicazione e interscambio di conoscenza più importante (se non l’unico, se consideriamo anche il linguaggio non verbale), si propone di essere il più chiaro ed esplicativo possibile quando deve veicolare una conoscenza (vedesi la Bibbia che, tralasciando le mille possibili esegesi che se ne possono fare, esprime un messaggio che è intendibile da tutti; anche perché è dichiaratamente diretto a tutti) e viceversa il più oscuro, intricato e ambiguo possibile quando deve nasconderla o mascherarla (vedesi, per esempio, il lessico astruso e tecnicissimo del manzoniano Dottor Azzeccagarbugli). E se il veicolo di una conoscenza è il mezzo fondamentale affinché essa venga trasmessa, compresa e metabolizzata da un individuo, allora potremo dire con abbastanza certezza che è esso stesso un mezzo di conoscenza, o quantomeno una componente fondamentale della conoscenza (e conseguentemente, legato alla rappresentazione che ci fornisce del mondo)
2) Complice dell’inganno è la cosiddetta inferenza psicologica, un concetto che delineerò meglio con un esempio nel corso del testo. Questo concetto, speculativamente parlando, l’ho desunto di mia mano dalla cosiddetta inferenza letteraria, la quale è, citando Davide Longo, “la tacita tecnica segreta di ogni scrittore, poeta (ma anche regista) che si rispetti, il minimo comune denominatore di ogni composizione narrativa, quale che sia lo stile o il tema”[2]. L’inferenza letteraria è, in parole semplici, quello che il lettore deve interpretare (o può interpretare, a seconda delle ambivalenze, volute o meno, dello scrittore) dell’opera di cui sta fruendo (film, poesia, libro, dramma teatrale…) e che è resa dalla maestria dell’autore, tramite quel suo gioco di “dire e non dire”, che deve lasciare al fruitore dell’opera uno spazio di attività interpretativa, che afferisca essa ai sentimenti (commedie romantiche, film drammatici), alle deduzioni intellettuali (libri gialli), alle sensazioni vaghe (poesie in generale, mi viene in mente L’Infinito di Leopardi)…
Il senso (anzi, i sensi) in cui utilizzo il termine inferenza è leggermente diverso, ma verrà spiegato nel testo, e chiarificato al meglio con un paio di esempi. Mi scuso in anticipo per le digressioni, nel corso della trattazione, che saranno necessarie per spiegare la mia concezione di “inferenza psicologica”; interromperanno un po’ il filo dell’argomentazione principale, ma sono necessarie, oltre che utili ad allargare un altro possibile orizzonte di riflessione.
Son comunque conscio di non essere un rivoluzionario copernicano, nell’ambito di questo concetto; in particolare, intendo il concetto di inferenza psicologica in due sensi, che verranno esplicitati nella sezione Argomentazione, e problematizzati nella nota 16, che chi volesse avere un quadro immediato dell’inferenza può leggere anche adesso. Per quanto concerne il primo senso, ho trovato molte coincidenze fra la mia teoria e i risultati di un esperimento di Peter Konig[3], professore dell’Istituto di Scienze Cognitive di Oasnabruck, Germania, che ha empiricamente dimostrato, se non in tutti i suoi assunti, almeno parzialmente, la teoria del principio dell’inferenza inconscia, sviluppato nella seconda metà dell’800 dal medico e fisico tedesco Hermann Von Helmhotz[4]. Questi però asserisce che la causa dell’inferenza, e le rappresentazioni che essa fornisce, è da ricercarsi in esperienze pregresse, mentre io sarei più propenso a definirla una sorta di struttura a priori, non dissimilmente dagli psicologi della Gestalt[5]; tuttavia, le analogie sono evidenti. Questo senso è praticamente analogo al fenomeno di “riempimento percettivo”, per rimandare ad un sinonimo. Per quanto concerne il secondo senso che do al termine inferenza, è doveroso riportare che questo presuppone che io sostenga una tesi sulla natura della percezione molto simile alla teoria del New Look, per cui “la percezione visiva sarebbe un’attività complessa e multideterminata guidata in gran parte da processi di natura inferenziale”[6], influenzati, nel loro atto interpretativo, da fattori di vario genere, specialmente emotivo. La New Look si riferisce più alla percezione visiva, mentre io mi soffermo su un’interpretazione più generale e generica, che può afferire anche alla vista, ma non solo e non principalmente. Tuttavia, condividiamo entrambi l’idea che il fattore emotivo sia determinante nel processo di costruzione della realtà.
Ma non era comunque fra i miei intenti essere un rivoluzionario di qualsiasi sorta; non penso di averne né le facoltà né le idee in questo testo, e in questo momento. Ho solo pensato per amore del pensare, magari influenzato inconsciamente da varie vaghe conoscenze che già possedevo, secondo un disinteresse filosofico che già Aristotele aveva individuato come caratteristico di questa disciplina. “It’s indifferent to me whether what I have thought has already been thought before me by another.[7]
ALCUNE PREMESSE TERMINOLOGICHE
Esistenza, ovvero cosa si intende per esistenza in questa sede: in quest’articolo non mi occuperò di quello che è forse il problema preliminare radicale dell’ontologia, ovvero cosa si intende per esistenza, cosa può esser incluso in questo dominio, se vi sono dei ”gradi” o dei ”tipi” di esistenza diversa e così via. Il senso in cui si intende “esistenza” in questa sede è quello proprio del senso comune, ovvero ”peculiarità propria di ciò che è reale, a prescindere da percezioni soggettive atte a diverse interpretazioni (come può essere per esempio il caso di un’allucinazione, che esiste per uno che la percepisce e non per gli altri), di ciò che sussiste concretamente[8] (Come non è Dio per un ateo. Dal momento in cui ne parla, l’ateo infatti non asserisce l’esistenza di Dio, bensì ne parla come un concetto costruito. E ciò non basta ovviamente, secondo l’ateo del senso comune, a conferire a Dio uno statuto di esistenza)”. Mi rendo conto che le definizioni del senso comune sono magari più vaghe, rarefatte e semplici; ma, proprio in quanto appartenenti al senso comune, spesso contradditorie; ho quindi cercato nella mia definizione di preservare il significato che il senso comune attribuisce al termine esistenza (se si può parlare di un unico senso comune), riportando alcuni esempi concreti che la rendessero meno vaga, cercando al contempo di specificare alcune implicazioni di questa definizione per renderla il meno equivoca possibile anche agli occhi del filosofo. Ben conscio di non esserci riuscito appieno. Confido che il lettore sarà in grado, come quel giudice della Corte Suprema Americana, di riconoscere ciò che si intende leggendo ”esistenza secondo il senso comune”, con la trasposizione del celebre ”I know It when I see it” in un ”I understand what are you talking about, without explanations or definitions”[9].
Ho ritenuto doverosa questa esplicitazione, poiché, se per esempio avessimo assunto la nozione di esistenza propria di Peter Berger e Thomas Luckman [10], per la quale ha uno statuto di realtà anche (e anzi, principalmente) ciò che è socialmente costruito, come per esempio un concetto, allora l’argomentazione sull’inesistenza effettiva dei buchi non solo non avrebbe avuto successo, ma neanche senso.
Buco:
sebbene io non sostenga l’esistenza dei buchi, può darsi che talvolta,
soprattutto all’inizio, quando il lettore non sarà ancora giunto al punto in
cui avrò opportunamente argomentato la tesi, io ricorra al termine buco. Questo
in virtù di una più facile comprensione che voglio offrire al lettore, oltre
che di una facilità espressiva per me; facilità espressiva che è poi la ragione
per cui, secondo me, il concetto di buco può continuare ad essere usato pur
quando non gli si riconosca uno statuto di esistenza effettiva, o statuto di
ente. D’altronde, lo diceva già Carnap[11] in “Questioni
esistenziali interne ed esterne” che l’utilizzo delle regole, delle
proposizioni e dei termini interni di un dato sistema di riferimento (che in
questo caso possiamo delineare come quello de “gli enti immateriali”) nel parlato non implica l’accettazione e la
credenza nell’effettiva esistenza di quel sistema di riferimento, e delle sue
regole, proposizioni e termini interni.
[1] La loro limitatezza è invece, mi si consenta il francesismo, un altro paio di maniche, che non verrà trattato in questa sede, ma che comunque non dimentichiamo essere un’altra grande questione gnoseologica, anzi, strettamente correlata a questa.
[2] Mi spiace non poter riportare qui la fonte della citazione, avendo sentito questa frase dello scrittore piemontese, insegnante della Holden, ad una sua conferenza. La frase non è peraltro una citazione letterale del professore, bensì la parafrasi del concetto da lui espresso, qui condensato in un aforisma.
[3] Cfr. http://www.lescienze.it/news/2017/05/18/news/immagini_reali_inferenze_punto_cieco-3532685/?fbclid=IwAR3PSki3M631akD8JOoeWoYo2xXQ7bwxZLuU4xSPrfblRy2RSwfTybvigfY
[4] Cfr. https://www.linkedin.com/pulse/la-teoria-dellinferenza-inconscia-1-franco-rossi?fbclid=IwAR1H_vuCUyMrUSdLB_QXhZZahVUYOZFnrk4aFZBJJoTBC_MLdmhVj4WnZ5I
[5] Cfr.http://www.psicologia.unina2.it/images/FIT_24_CFU/materiali/PsicologiaGenerale/Gruppo1/Percezione_FIT_Gruppo1_PsicologiaGenerale_FR.pdf
[6] Cfr. http://www.crescita-personale.it/teorie-psicologia/947/percezione-visiva-psicologia-new-look/2645/a?fbclid=IwAR1H_vuCUyMrUSdLB_QXhZZahVUYOZFnrk4aFZBJJoTBC_MLdmhVj4WnZ5I
[7] Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Prefaction
[8] nel senso in cui qui si intende “sussistere concretamente”, “esistere” può essere applicato anche da un realista in senso medievale in riferimento alle entità astratte, o da un credente in riferimento a Dio. Questa nota è funzionale a troncare sul nascere le possibili ambiguità che potrebbero generarsi dalla dicotomia che nel linguaggio comune (ma anche, spesso e volentieri, filosofico) vi è fra i termini “astratto” e “concreto”, in cui il termine “astratto”, specie se proferito da un materialista, è un sinonimo denigratorio di “inesistente”, “aereo”, “inconsistente”. Almeno in questa sede, non è così.
[9] La frase è una citazione di Potter Stewart, Giudice della Corte Suprema Americans, che per scusare la sua difficoltà di giustificare ed esplicitare la sua tesi, al momento di dover asserire che non credeva che il materiale d’indagine che aveva sottomano fosse pornografico, pronunciò questa frase con l’intento (forse un po’retorico) di far valere, ancor prima dell’argomentazione e la spiegazione, la constatazione evidente di un fatto.
[10] La realtà come costruzione sociale
[11] Questioni esistenziali interne ed esterne, saggio contenuto in Metafisica Classici e Contemporanei, a cura di Achille Varzi.