Sull’inconsistenza del concetto di buco (parte 2)
TESI
I buchi non esistono. Questi cosiddetti “oggetti immateriali[1]” hanno spesso assunto, nell’ontologia del senso comune, lo statuto di ente in virtù di un’illusione (causata dalla cosiddetta “inferenza psicologica”, e resa effettiva dal linguaggio) che, a livello percettivo, ce li fa catalogare come tali, sebbene sia evidente anche al senso comune che sono collegati necessariamente ad un oggetto solido, “parassitari”, dotati di un’esistenza non indipendente. Tuttavia, forse non basta la loro parassitarietà a squalificarli del tutto.
Se osservati attentamente, e “messi a fuoco ed in questione” da una riflessione più profonda, non si rivelano altro che variazioni della forma di uno stesso oggetto solido, il quale, sebbene apparentemente “bucato”, può benissimo essere descritto senza far ricorso ai buchi come enti suoi costitutivi, sia che essi siano o non siano fondamentali per la stessa sussistenza dell’oggetto come tale. Per esempio, una trave con un buco, con o senza il buco, rimane sempre una trave; una pagnotta di pane invece, causa la lievitazione, ha costitutivamente dei buchini nella mollica. Si vedrà, nella sezione “Argomentazioni”, che è possibile “ammettere la necessità di questi buchini” e al contempo negare che esistano i buchi come enti, semplicemente parafrasando, in una descrizione, questi buchini in un modo diverso. Tuttavia, quand’anche fosse riconosciuta la loro inesistenza, rimane legittimo l’utilizzarlo nel parlato, se non altro per una facilità descrittiva.
Questo saggio, dichiarandosi esplicitamente relativo ad un problema circoscritto, vuole fornire degli spunti di riflessione di portata più ampia al lettore; in particolare meriterebbe di essere approfondita, a mio parere, la questione della correlazione fra linguaggio e rappresentazione: sempre secondo un’ontologia del senso comune, il linguaggio è il mezzo espressivo con cui esprimiamo e comunichiamo ciò che vediamo (sensibilmente) e sentiamo (interiormente); ciò che percepiamo insomma. Il caso da me studiato vorrebbe però dimostrare che talvolta è il linguaggio stesso a rappresentare, e di fatto “creare”, la realtà dell’individuo. L’esempio del buco, come dimostrerò, ne è il caso lampante. Una possibile risposta al “perché” il linguaggio sia costretto a certe operazioni, è che sono i limiti stessi, strutturali, del linguaggio a costringerlo, per forza di cose, a tali modificazioni della realtà. Un’altra possibile risposta non si discosta molto dal discorso fatto da Aldous Huxley nelle “Porte della percezione” (sul cervello in particolare e i meccanismi della percezione in generale)[2]; il linguaggio per come è adesso potrebbe essersi, darwinisticamente, modellato sulla base della realtà, modificandosi in conformità con essa, inibendo e depotenziando dei possibili “upgrade” di sé stesso; upgrade che lo avrebbero reso, magari, addirittura in grado di rivelare più verità, o quantomeno di essere più esaustivo nell’espressione della realtà conosciuta, ma che vengono considerati dal “principio di autoconservazione” inutili o superflui ai fini dell’adattabilità e/o del “buon vivere” all’interno di un determinato consorzio; quello di una società, o in termini più generali quello umano. Per esempio, come già detto, l’utilizzo del termine buco rende più facile la descrizione di un oggetto rispetto ad un’eventuale descrizione ontologicamente più trasparente; di conseguenza, rende più facile la conversazione, la comunicazione. Lo stesso Argle[3] all’inizio dell’articolo di Lewis, quando non è ancora iniziata la discussione con Bargle, utilizza il termine buco in riferimento ai buchi nel gruviera, sebbene non ne sostenga (in un primo momento) l’esistenza.
ARGOMENTAZIONE
Dunque: partiamo dal presupposto che il concetto di buco delinea, anche nella concezione comune, una deficienza di materia su un dato oggetto, in un punto nel quale, concorderà il lettore, si suppone dovrebbe essercene qualora non vi fosse un buco. Secondo questa definizione si potrebbe parlare anche di tagli, fori, orifizi, rientranze, cavità, depressioni etc., tuttavia per comodità utilizzeremo il termine buco. Come si noterà alla fine della trattazione, una differenziazione fra queste (supposte) entità non è necessario, nei termini di un’ontologia. Dunque, penso che su questa delineazione, su questa descrizione, la quale non ha pretesa di essere una definizione, possiamo essere tutti d’accordo. Dunque il buco è relato necessariamente a un oggetto, e non rientra nella costituzione strutturale, ”anatomica” della materia in sé dell’oggetto; ne cambia dunque la sola forma. In questo senso, il buco è paragonabile a una curva: e questa, anche secondo il senso comune, non è un ente, ma una semplice variazione di forma.
Prendiamo per esempio una trave di metallo con un buco al centro (è indifferente pensare ad un buco che trapassi la trave da parte a parte o che formi una mera conca rispetto alla linearità della superficie della trave): con o senza buchi, le componenti del metallo in sé, che compongono la trave (ferro, stagno, rame e affini) non cambierebbero.
Date queste premesse sulla delineazione del concetto di buco, vorrei tirare in causa il concetto di inferenza psicologica, il quale, se riconosciuto valido (come tenterò di dimostrare) in questa circostanza, validerebbe la tesi da me sostenuta nel titolo di quest’articolo. L’inferenza psicologica è un meccanismo di associazione/attribuzione arbitraria compiuto dal cervello umano, che tende a conferire ad un dato oggettivo un significato di carattere soggettivo, per rispondere a un’esigenza psicologica di significato, sia esso volontario, o quantomeno consapevole (come nel caso dei rapporti umani, in cui spesso cerchiamo di conferire un significato a dei gesti delle persone con cui ci rapportiamo) o inconsapevole, o quantomeno involontario (come nel caso che viene riportato nella nota 15, poco sotto). Per quanto concerne la (dovuta) differenziazione fra “inferenza consapevole” e “inconsapevole”, rimando il lettore alla nota 16, di cui vi sarà a breve l’occorrenza nel corso del testo.
Il concetto di buco viene applicato, nell’esempio della trave, a quelle zone in corrispondenza delle quali la nostra mente inferisce vi dovrebbe essere del metallo, per una, potremmo dire, esigenza psicologica di simmetria.
Ora, siccome in queste zone non vi è metallo, ”viene automatico” alla nostra mente attribuire a queste zone ””vuote”” (il lettore intenda il sarcasmo delle molteplici virgolette) un nome, che nel linguaggio comune è detto buco. [4]
Io chiedo al lettore, ora, di considerare la cosa sotto un’altra prospettiva. Essendo, come abbiamo cercato di dimostrare sopra, il cosiddetto ”buco”, null’altro che l’attribuzione di una denominazione, da parte della nostra mente, ad una zona nella quale noi inferiamo debba esserci della materia, il concetto di buco non ha consistenza ontologica; se mi si consente di usare un’asserzione forte, è un inganno dei nostri mezzi di conoscenza; in questo caso del linguaggio. Ritengo infatti che la causa principale della “reificazione” del buco sia da attribuire al linguaggio, che, condizionato dall’inferenza psicologica, nel momento in cui “nomina” il buco, lo “crea” (definendolo, per altro, nei termini di un sostantivo, che è apparentemente la parte della frase più “indipendente”, e non nei termini di un attributo, quale potrebbe essere il più trasparente “bucato”, il quale renderebbe meglio la dipendenza nei confronti dell’oggetto, del sostantivo cui si riferisce); e inoltre lo rende indipendente, anche a livello di definizione, da qualsiasi riferimento specifico a ciò a cui è relato necessariamente (il dizionario Devoto Oli del 2008, per esempio, ne riporta la definizione come “piccola cavità variamente profonda, dalla forma vagamente tondeggiante”. Manca il riferimento esplicito alla sua stretta dipendenza a un oggetto concreto, dall’esistenza indipendente). La sublimazione, poi, di questa reificazione del buco si ha nell’ambiente scientifico, quello che dovrebbe essere il più rigoroso nei termini utilizzati: il buco nero non è un buco. Anzi, in un certo qual modo ne è l’esatto opposto. Mentre il buco si connota per assenza di materia, il buco nero è un corpo celeste dalle concentrazioni (densità) di materia altissime e variabili, il quale prima del collasso su sé stesso che lo ha portato ad essere un buco nero, era invece un corpo stabile e meno denso. Posto che ancora poco sappiamo della natura dei buchi neri, appare evidente che l’attribuzione del nome di “buco” a un siffatto corpo celeste è impropria, sebbene riconosca una certa legittimità ad attribuirgli il nome di buco in quanto, esattamente come un buco (per esempio dello scarico) attira a sé l’acqua e la fa scomparire, il buco nero attira a sé la materia e l’assimila a sé. “La funzione svolta dai due oggetti fisici è analoga”, mi disse una volta un mio amico fisico per provare a difendere la legittimità del termine buco nero. Ma a me pare evidente che il fatto che se due cose agiscono sulla materia similmente (neanche ugualmente) l’una all’altra, ciò non legittima il denominarle allo stesso modo. Tuttavia, nell’immaginario collettivo persiste l’idea che i buchi neri siano degli effettivi buchi, come dimostra il fatto che degli illustri pensatori (fanta)scientifici li abbiano immaginati come veicoli per il trasporto in altre dimensioni. Come passaggi alla stregua di un foro, di un tunnel, di una cavità. Di un buco.
Tornando all’esempio principale, e concludendo il nostro discorso, si provi a considerare quelli che noi chiamiamo buchi come delle mere irregolarità alla linearità piatta della superficie della trave, componenti esse stesse della forma della trave, anzi, costitutive della forma stessa della trave (la quale, per esempio, potrebbe esser stata costruita, potrebbe esser nata come ente materiale già con quel cosiddetto ”buco”; si rende evidente, nell’ambito di questa possibilità, che l’attribuzione del termine buco inteso come ”qualcosa che manca”, e che diventa un elemento ”in più” da aggiungere alla descrizione di un oggetto, sia impropria). Si lasci da parte l’inferenza automatica del cervello, che appunto è un’attribuzione di significato soggettiva, non oggettiva, che “entizza” l’irregolarità poiché non conforme alla linearità.
E si otterrà che il concetto di buco, come qualcosa di effettivamente consistente, non è necessario da applicarsi per rendere ragione della forma di una data cosa, e che può fungere tuttalpiù come una facilitazione del linguaggio per una descrizione, come, dunque, un termine esistente solo in un orizzonte concettuale-linguistico (ed ecco perché il titolo non asserisce l’inesistenza del concetto di buco, il quale esiste, lo dimostra il fatto che ne stiamo parlando; ma asserisce altresì l’inesistenza del buco come un ente, tuttalpiù come il nome che si può dare a un tipo particolare di curvatura, conformazione); una facilitazione resa possibile dall’impossibilità di prescindere automaticamente e facilmente dall’ inferenza, ”automatica”, del nostro cervello. In questo senso, azzarderei, penso si possa parlare di una sorta di adattamento del linguaggio al meccanismo dell’inferenza, onde facilitare il compito principale per cui esiste: esprimere ciò che il soggetto percepisce. Sulla genesi dell’inferenza psicologica in sé non mi esprimerò ulteriormente[5], sia perché esula dal nucleo centrale del nostro discorso, che è quello della constatazione e della dimostrazione di questo errore del linguaggio, e la sua causa, sia perché ho solo delle ipotesi in merito alle origini di questa. L’inferenza psicologica potrebbe non essere una “struttura a priori”, per usare un termine del filosofo con cui abbiamo aperto il nostro discorso (e io propenderei per questa tesi), ma può darsi che possa essere darwinisticamente un carattere comparso (frutto di una mutazione genetica) nell’individuo di una specie (nel nostro caso, quella umana), che in quanto funzionale all’adattabilità, è, nel corso della storia biologica dell’uomo, diventato pian piano una peculiarità della nostra specie. Banalmente, anche se magari nel mondo contemporaneo occidentale è più opportuno parlare di adattamento alla società più che all’ambiente naturale, e le finalità si sono spostate dalla sopravvivenza al benessere (economico, sociale, emotivo), un meccanismo come quello dell’inferenza, se inteso nel senso di “facoltà di interpretazione”, conserva i suoi vantaggi di adattamento (come ho spiegato, per esempio, nella nota 16), caratteristiche proprie di tutte le “skills” che in una specie diventano dominanti lungo la sua storia biologica. E secondo me questa non è un’analogia da scartare se si volesse supportare questa tesi.
Ma siamo solo nel campo delle ipotesi, e finché non sarò avanzato un po’su questo terreno di indagine, mi astengo dal proferire ulteriori giudizi. L’inferenza psicologica c’è, esiste; un altro paio di maniche è spiegarne la natura profonda e la genesi.
[1] così li definiscono Varzi e Casati nel loro articolo “Perché i buchi sono importanti: problemi di rappresentazione spaziale”
[2] Questo saggio breve di Huxley tratta di un’esperienza autobiografica dell’autore relativa all’uso di mescalina in un pomeriggio del 1953. Attraverso la descrizione delle visioni psichedeliche avute sotto l’effetto della droga, Huxley tende a voler dimostrare che il cervello, quando non sottoposto all’azione di certe sostanze psicotrope, tende ad agire da valvola riduttrice delle visioni e delle esperienze che potrebbe fare un uomo, in quanto le ritiene inutili alla sopravvivenza dell’organismo. La nostra, secondo Huxley, è una percezione prettamente utilitaristica.
[3] Stephanie and David Lewis, Holes
[4] Per intenderci, il meccanismo al quale mi sto riferendo è il medesimo per il quale se, per esempio, vediamo un N pari di punti (per esempio, 36 punti) distanti l’uno dall’altro una stessa distanza N (per esempio, un decimetro), e formanti l’uno rispetto all’altro un angolo di N gradi (per esempio, 10 gradi), e che sono a loro volta disposti equidistantemente da un punto centrale, la nostra mente infierisce, “interpreta” che quei punti formino un cerchio (o, per i più pignoli fra i pignoli, un esatriacontagono, un poligono di 36 lati), e che il punto centrale sia il centro del cerchio (della circonferenza, se vogliamo usare il termine geometrico), sebbene questi punti non siano effettivamente congiunti fra loro a formare un cerchio.
Ricalcando la celebre citazione di Magritte contenuta nel suo quadro “La Trahison des images”, “Ceci n’est pas un cercle”, “questo non è un cerchio”.
[5] Questa nota vuole approfondire entrambi i sensi in cui intendo il concetto “inferenza psicologica”, e assieme problematizzare il fatto che li racchiudo sotto un’unica denominazione. Per la sua lunghezza e per il tema specifico di cui tratta, può quasi essere considerata una sezione a parte. Mi sono a lungo interrogato sulla questione se sia possibile parlare di inferenza psicologica sia, nel primo senso, in riferimento al fenomeno di riempimento percettivo, quello classico “di unire i puntini”, sia, nel secondo senso, in riferimento alle diverse interpretazioni che un uomo X può dare a un’opera letteraria, cinematografica o artistica in generale, ma non solo, anche ai gesti e agli atteggiamenti che le altre persone hanno nei suoi confronti, o nei confronti di altri, di cui l’uomo X è osservatore, e di cui inferisce un significato di sua mano. Il minimo comune denominatore dei due sensi in cui è intendibile “inferenza psicologica” è che ad entrambi è applicabile la definizione di inferenza come “meccanismo automatico d’attribuzione di significato soggettivo ad un dato oggettivo”. La differenza principale è questa: mentre nel primo caso sembra che ad operare sia una “struttura a priori”, universalmente valida e analoga per tutti (gli esperimenti sul riempimento percettivo sembrano poter prescindere, nei loro risultati, da influenze e determinazioni sociali e culturali di vario genere), e che si possa dunque parlare dell’attribuzione di un significato soggettivo universale (per es. un aborigeno e un italiano uniranno i punti dei cerchi sempre allo stesso modo); dove soggettivo è inteso nel senso di derivato dal soggetto. Nel secondo caso le interpretazioni sembrano essere soggettive, nel senso relativistico del termine: variano da persona a persona, e dipendono da una molteplicità di fattori tali per cui, per fare una “genealogia” delle cause che spingono una persona a interpretare in un modo X un dato oggettivo Y, bisognerebbe prendere in considerazione l’individuo in tutte le sue determinazioni, sia da un punto di vista psicologico, che sociologico, che antropologico, oltre che il contesto situazionale in cui avviene l’interpretazione; la qual cosa non è certo cosa facile. Un’altra differenza che si può notare è quella in base alla quale, nel corso del testo, ho diviso i due sensi di inferenza: mentre l’azione di unire i puntini pare automatica, in certo modo involontaria e inconsapevole (almeno sino a quando non se ne prenda atto), l’atto d’interpretazione di un comportamento umano/opera narrativa, sebbene spesso “guidato” dalla persona di cui si interpreta un gesto, o dalle tecniche narrative del compositore (Leopardi con l’Infinito non voleva certo farci immaginare un pic nic in collina…), avviene in maniera più consapevole, se non addirittura arbitraria, da parte del “soggetto rappresentante”. Come si può intuire dal fatto che ho racchiuso in un unico termine questi due sensi, si comprenderà che sono incline a farli rientrare in un’unica componente (per quanto eterogenea) dell’uomo, che è quella, per non usare termini tecnici o neologismi fuorvianti, della capacità di interpretazione. Un’argomentazione in favore di ciò può vertere sul fatto che entrambi i sensi sono peculiarità inderogabili dell’uomo (sebbene non necessariamente sue esclusive), per quanto una sia più “soggettiva” dell’altra: non si può prescindere in alcun modo da questi due meccanismi di interpretazione, nel nostro approcciarci con la realtà. Inoltre, c’è una (velata) analogia di funzione: sia l’inferenza intesa nel senso di “riempimento percettivo”, la quale ci fornisce un’immagine completa della realtà, che l’inferenza intesa come “interpretazione della realtà”, che ci fornisce la possibilità di generare chiavi di lettura con le quali affrontare e comprendere svariate situazioni in cui la riflessione è indispensabile, sono funzionali, darwinisticamente, all’adattabilità all’ambiente, al conseguimento di scopi e obiettivi. Ora, una piccola precisazione: sono consapevole che, nel secondo senso di inferenza, essa non abbia sempre e solo una funzione meramente utilitaristica (la descrizione contenuta un libro su cui faccio inferenza e che mi provoca un’emozione, così come un luogo che mi provoca malinconia perché mi ricorda un amico caro che ho perso, non sono cose utili), ma il lettore si avvedrà da sé di come la capacità di interpretazione (e l’inferenza che facciamo conseguentemente)sia di per sé utilissima in altri casi: Sherlock Holmes che intuisce dalla gestualità di un sospettato la sua colpevolezza, l’indiano d’America che presagisce l’arrivo di una tempesta dall’inquietudine del bestiame, il figlio che intuisce che il genitore è dell’umore propizio per fargli una data concessione, etc.