L’esistenzialismo è un umanismo
L’esistenzialismo è un umanismo è la trascrizione di una conferenza pubblica tenuta da Jean-Paul Sartre al Club Maintenant il 29 ottobre 1945, nata per contrastare le critiche che erano state rivolte a L’essere e il nulla – la principale opera filosofica di Sartre – da parte di cattolici e comunisti. Si tratta di una conferenza divulgativa, aperta al grande pubblico: pur essendo l’esistenzialismo una filosofia che solo gli “addetti ai lavori” sono in grado di trattare, è semplice da spiegare e, quindi, è comprensibile da tutti. L’esistenzialismo, di norma, era visto come una filosofia che corrispondeva a una vita inattiva e inutile, che si confaceva a un’umanità scadente. Sartre, invece, si preoccupa subito di far capire che l’esistenzialismo è il contrario: un umanismo.[1]
Sartre inizia con un richiamo alla vita, concreta e reale, da cui si risale alla “gettatezza” dell’uomo: l’uomo si ritrova sulla Terra senza sapere perché, né da dove venga, né da chi sia stato posto lì. E, da qui, nasce l’idea fondamentale dell’esistenzialismo di Sartre: l’esistenza precede l’essenza. L’uomo è la sua esistenza, e non esiste nulla che preceda il suo essere in carne e ossa: l’essenza dell’uomo è determinata soltanto dalla sua esistenza. Questo elimina l’idea di un’esistenza basata su un modello: prima dell’uomo non esiste nulla, e, quindi, l’uomo non ha un dover-essere alle spalle.
Se, dunque, non esiste nessuna essenza prima dell’uomo, egli è libertà ancora prima di essere volontà: l’esistenza coincide con la scelta. L’uomo, infatti, è un progetto, il che vuol dire che ogni sua azione è il risultato della sua scelta. Proprio per questo motivo Sartre è scocciato di essere accusato di pessimismo: l’esistenzialismo lascia libero l’uomo, che può quindi rifiutare l’etica costituita – sulla scia di quanto aveva detto Nietzsche – per crearne una tutta sua. Viene rifiutata qualsiasi idea di natura umana precostituita a cui ci si dovrebbe omologare, facendo, così, tabula rasa di ogni possibilità di predeterminazione, ed eliminando il concetto di una natura uguale per tutta la specie umana. È forte, pertanto, la critica all’idea di uomo proposta da Kant.
Come già detto, Sartre vuole difendersi dalle accuse di comunisti e cattolici, e risponde, in particolare, a quattro attacchi: le accuse di quietismo, di pessimismo, di solipsismo (o, come lo chiama Sartre stesso, soggettivismo) e, infine, di lassismo. Il quietismo descrive una condizione di passività che porta l’uomo a una filosofia contemplativa che non prevede l’azione. L’accusa di pessimismo nasce dalla credenza che gli esistenzialisti vadano accomunati ai naturalisti, negli scritti dei quali l’uomo viene ridotto a ciò che di basso, terreno e volgare c’è di lui. Inoltre, nella cultura popolare il termine “esistenzialista” è presente in proverbi e luoghi comuni sulla nefandezza della condizione umana. L’accusa di solipsismo, invece, rinvia all’autoreferenzialità dell’individuo a se stesso e alla sua incapacità di guardare oltre a sé. Infine, l’esistenzialismo era accusato di essere lassista, cioè di essere una filosofia per cui, data l’assenza di valori e principi morali eterni, tutto è lecito: l’uomo, in questo modo, non saprebbe su quali principi regolare la propria condotta né sarebbe in grado di giudicare il comportamento altrui. Sartre dimostrerà che l’esistenzialismo non è affatto questo, ma, al contrario, è un pensiero che valorizza al massimo la condizione umana.
Nel delineare il suo umanismo, Sartre rifiuta di parlare di “natura” umana, differenziandosi, così, dagli umanisti classici: il termine appare troppo compromesso con una visione essenzialista e metafisica dell’uomo. Preferisce, invece, parlare di “condizione” umana, intesa come base ontologica della realtà antropologica dell’essere umano, ovvero l’insieme di limiti a priori che concorrono a formare la posizione dell’uomo nell’universo. La realtà umana non ha natura: i principi su cui si basa la condizione umana non sono astorici o a priori, ma dipendono dal contesto ambientale, culturale, ecc., nel quale l’uomo vive.
L’esistenzialismo è una dottrina che rende possibile la vita umana nella sua complessità e che, d’altra parte, dichiara che ogni verità e ogni azione implicano sia un ambiente, sia una soggettività umana.
In questa frase, con “ambiente” Sartre intende il contesto storico, le origini e tutti i restanti ambiti che influenzano l’uomo dall’esterno; con “soggettività”, invece, sottolinea l’urgenza e la concretezza delle problematiche individuali. La visione dell’esistenza che qui si dischiude apre l’uomo alle sue possibilità: l’esistenzialismo è una filosofia dell’apertura e della scelta. Già qui, Sartre mette in luce alcune contraddizioni dei suoi accusatori. Infatti, l’accanirsi nel considerare l’esistenzialismo come pessimista è forse figlio della paura che questo pensiero suscita: dando spazio alla scelta, si dà spazio al progettarsi continuo dell’uomo nel suo futuro.
Come si è detto, il punto chiave dell’esistenzialismo è che l’esistenza precede l’essenza, e essere consapevoli di questo significa affermare l’importanza della soggettività. Bisogna fare i conti con l’esistenza concreta del singolo, al di fuori della quale non c’è nulla. Per spiegare meglio questo punto, Sartre si serve del paragone tra uomo e tagliacarte. Il tagliacarte, in quanto prodotto, ha dietro di sé una tecnica, ed è generato sulla base di un’idea generale di tagliacarte: in questo caso, l’esistenza del tagliacarte è modellata sulla sua essenza, e l’intelletto precede la volontà, dato che prima c’è l’idea generale del tagliacarte e solo in seguito c’è la volontà di creare. L’uomo, invece, non è modellato né creato da nessuno e in base a nulla.
Per Pico della Mirandola, esponente dell’Umanesimo italiano, l’uomo era, invece, creato da Dio, che era visto come un artigiano supremo. L’idea che propone Sartre avrebbe potuto nascere, quindi, già nel ‘700 con il prendere piede dell’ateismo, ma questo non avvenne: decadde l’idea di Dio, ma non l’idea dell’uomo come prefabbricato. Al posto di Dio si mise l’idea di umanità universale – come fecero, ad esempio, Voltaire e Kant –, un archetipo che precedeva l’uomo particolare e sul quale egli doveva modellarsi. Sartre, quindi, che è ateo, accusa gli altri atei di incoerenza: se decade l’idea di Dio, rimane almeno un essere in cui l’esistenza precede l’essenza, e questo è l’uomo. L’uomo è ciò che fa. Prima esiste, si trova in un mondo, e solo dopo può essere definito, perché all’inizio non è niente. In seguito, sarà quale si sarà fatto: l’uomo è un progetto in vista dell’avvenire, sarà quello che ha progettato di essere, e, per questo, ha una dignità maggiore rispetto agli altri enti.
Esiste un doppio condizionamento tra l’uomo e il mondo: da un lato, l’individuo, con la sua libera azione, contribuisce a formare un certo tipo di società; dall’altro, la società creata dagli individui retroagisce sugli individui stessi. Si nota, quindi, rispetto a L’essere e il nulla, una maggiore attenzione all’intersoggettività. L’uomo è scelta, libertà, progetto, impegno, e questo genera responsabilità. Infatti, siamo responsabili perché nessuno ha provveduto a noi, nessuno ha stabilito per noi delle regole, né ha predisposto le cose per il nostro futuro: siamo in una condizione di totale solitudine. Sartre si inserisce, qui, nella prospettiva della “morte di Dio” introdotta da Nietzsche. Il primo passo dell’esistenzialismo è, dunque, consegnare l’uomo a se stesso. Si tratta, tuttavia, di un’arma a doppio taglio: è un bene perché mette il destino dell’uomo nelle sue mani, ma è, al contempo, un peso.
Il tema della responsabilità consente di allargare la prospettiva al di fuori del soggetto. L’uomo non è responsabile soltanto nei propri confronti, ma anche nei confronti degli altri: non scegliamo mai solo per noi stessi, ma lo facciamo per tutti gli uomini. Scegliendo, l’uomo non contribuisce solamente a formare la propria esistenza, ma anche a determinare l’idea generale di umanità: è la base per la creazione di nuovi valori. Ma, allora, come si fa a non considerare questa nuova immagine di umanità, creata di volta in volta dalle scelte dei singoli, come una nuova essenza dell’uomo? In realtà, l’esistenzialismo non dice che l’essenza non esiste, bensì che essa segue l’esistenza: si vuole abbandonare l’idea tradizionale di essenza, ma questa idea di umanità ha di certo una componente essenzialistica, sebbene più dinamica rispetto al tradizionale concetto dell’homo in mente dei. La scelta che il singolo compie, dunque, non può che essere fatta in vista del bene, o, almeno, di ciò che egli ritiene sia il bene. La responsabilità è, pertanto, il minimo comune denominatore della condizione umana – pur non essendo, ovviamente, una caratteristica che definisce l’uomo a priori –.
Veniamo ora, invece, all’accusa di soggettivismo. Sartre richiama la tradizione cartesiana: vuole mantenere una concezione forte del soggetto, rifiutando, però, il solipsismo in favore dell’intersoggettività. Ne viene fuori, così, una concezione di soggetto determinata dalla sintesi della prospettiva cartesiana e di quella kantiana, arricchita dal concetto di apertura. La prima verità, dunque, è il cogito cartesiano, al di fuori del quale tutto il resto è soltanto probabile. Si nota come il richiamo alla soggettività passi, tradizionalmente, dall’introspezione: la verità assoluta consiste nel cogliere se stessi in un atto intuitivo senza intermediazione. Tuttavia, questa soggettività non è strettamente individuale. Infatti, contrariamente a quanto affermato da Cartesio e Kant, per Sartre nel cogito si scoprono anche gli altri, che sono certi per noi tanto quanto noi lo siamo per noi stessi. L’uomo, infatti, si rende conto che non è niente (buono, geloso, simpatico, ecc.) se gli altri non lo riconoscono come tale.
Quindi, mentre in L’essere e il nulla la questione sembrava cadere nel solipsismo, in L’esistenzialismo è un umanismo c’è una correzione volta a una maggiore apertura all’altro da parte del soggetto. La soggettività, qui, si pone anche e anzitutto come intersoggettività. L’altro è indispensabile tanto alla mia esistenza quanto alla mia conoscenza. Il concetto di altro, inoltre, implica una negazione: l’altro è ciò che non è me, ciò che mi nega, e sono con lui in un rapporto che è al contempo di esclusione e inclusione. Sartre dice che “soggettivismo” può avere due significati: da un lato può essere la scelta dell’uomo per se stesso, dall’altro indica l’impossibilità dell’uomo di oltrepassare la soggettività umana. Dei due significati, il primo è da scartare, mentre quello valido è il secondo: si tratta di riconoscere il fatto che la soggettività sia un aspetto ineludibile dell’uomo, il quale deve, perciò, fare i conti con se stesso ma senza richiudersi in se stesso.
Tra le caratteristiche dell’uomo che presenta Sartre, ce ne sono tre che erano state particolarmente criticate dai suoi accusatori: l’angoscia, l’abbandono e la disperazione. L’angoscia è il sentimento di timore e tremore generato dalla responsabilità e dalla libertà avvertite come una condanna. L’uomo prova angoscia perché sente come se tutta l’umanità avesse gli occhi sulle sue azioni e si regolasse di conseguenza. Questo sentimento, tuttavia, non solo non impedisce l’azione ma, anzi, è il principio della scelta: non è un’angoscia che porta al quietismo, ma è un’angoscia che si supera e che è l’anticamera della scelta (anche l’indecisione, in quanto scelta di non scegliere, è comunque una scelta). Questo è al contempo il dramma e la grandezza dell’uomo.
L’abbandono, invece, è la conseguenza della morte di Dio e dell’ateismo. Secondo Sartre, non bisogna fare come alcuni professori francesi che nel 1880 tentarono di costruire una morale laica, cioè un sistema di valori esistenti a priori posti alla base del buon vivere civile – come, ad esempio, “non mentire” o “non uccidere” –, anche se prescindenti da Dio. Questo approccio, infatti, non ricava nessun cambiamento dall’inesistenza di Dio, e conserva le norme cristiane mascherandole da qualcosa che deriva dall’uomo. Invece, la cosa fondamentale è capire quanto sia scomodo che Dio non esista: con la morte di Dio svanisce ogni possibilità di trovare valori dati a priori.[2]
Infine, la disperazione rappresenta l’agire senza speranza e senza illusione, data l’assenza di garanzie sia passate che future. È necessario, infatti, fare affidamento soltanto su ciò che dipende dalla nostra volontà o dall’insieme delle probabilità che rendono possibile la nostra azione.[3] Non deve importarci ciò che non dipende da noi, perché non ci sono né un Dio né un destino che facciano esistere nel mondo esterno ciò che io desidero. E anche sperare è inutile: non si può neppure fare affidamento sulla speranza della bontà umana, perché non esiste una natura umana a cui affidarsi. Così, bisogna privarsi delle illusioni e fare tutto quello che si può affinché si raggiunga un determinato obiettivo: solo la realtà ha valore, mentre sogni e speranze sono soltanto mancanze inutili. L’esistenzialismo, quindi, è l’opposto del quietismo (principio secondo cui “gli altri possono fare ciò che non posso fare io”), perché afferma che non c’è realtà senza azione.
Più in generale, l’esistenzialismo mette in atto un rifiuto del determinismo in tutte le sue forme: rifiuta sia il materialismo storico marxista, sia il provvidenzialismo cristiano, sia il determinismo biografico-pulsionale della psicoanalisi. Infatti, il determinismo è l’atteggiamento tipico di chi nasconde le proprie responsabilità dietro alle contingenze; invece, se siamo come siamo è colpa nostra, ed è nostra responsabilità riscattarci. Anche se non siamo gli unici abitanti del mondo e, dunque, c’è sempre una sfera di imprevedibilità fuori dalla nostra azione, siamo comunque responsabili di come scegliamo di reagire di fronte alle circostanze date. Si afferma, così, la libertà dell’uomo da vincoli, valori e scuse.
Si parla, addirittura, di libertà come condanna inflitta all’uomo, che è sempre condannato a reinventarsi: non si è creato libero per sua scelta, ma, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto quello che fa. La libertà, infatti, coincide con il nulla presente nell’uomo, ed è imprigionata in una dimensione di negatività. Si può dire, quindi, che più che un naturalismo, l’esistenzialismo è un realismo, in quanto rifiuto di ogni sogno, di ogni illusione e di ogni attesa inutile: non si possono più trovare scuse e giustificazioni, non si può più dire “sono così perché sono nato in questo contesto, e non posso cambiare”. Così come un eroe può decadere se smette di comportarsi come tale, allo stesso modo l’uomo vile è responsabile della propria viltà. In ogni caso, la condanna dell’uomo alla libertà è anche un’investitura e, in questo senso, l’esistenzialismo è portatore di un rigore ottimista, perché rimette il destino nelle mani dell’uomo.
Cosa fare, dunque, dinnanzi a una scelta? Come abbiamo visto, non si può fare affidamento su valori a priori. Non si può nemmeno fare affidamento su una nostra inclinazione personale o su un nostro sentimento, perché si può determinare il valore di un sentimento solo una volta compiuto un atto che lo convalidi. Non si può, inoltre, chiedere consiglio ad altri, perché scegliendo il tipo di consigliere a cui affidarsi si sa già implicitamente cosa potrebbe consigliare. Infine, non si può fare affidamento su segni o sul destino, perché, se anche è vero che l’uomo coglie dei segni, è lui che decide il valore che essi hanno e, quindi, è lui che sceglie come interpretarli. Insomma, ogni decisione resta sempre soggettiva e arbitraria.
La prospettiva assunta da Sartre può essere considerata una reazione ai sistemi filosofici del secolo precedente, considerati troppo astratti. Ora, si vuole esaminare la vita nella sua concretezza. Si può parlare sì di trascendenza, in quanto l’uomo è progetto ed è, quindi, sempre proiettato avanti a sé, ma è una trascendenza non di tipo religioso: l’uomo è trascendente in quanto ha da farsi, non è uno stato fisso ma è una realtà in divenire. Il progetto, inoltre, è proprio quello che ci dà il senso dell’intersoggettività e del legame con gli altri: ogni progetto è irripetibile, unico e soggettivo, ma il dato comune è che tutti siamo progetto. Ogni progettarsi, infatti, per quanto individuale, ha valore universale in quanto comprensibile da ogni uomo. Scegliendosi e facendosi nella propria esistenza, l’uomo può costruire l’universale.
Il tema della trascendenza, comunque, si innesta sulla problematica umanistica. La vita degli uomini, infatti, è caratterizzata da una condizione costitutiva – ontologica, potremmo dire – di limitatezza: l’uomo è costantemente alle prese con i suoi limiti. Bisogna, quindi, riuscire ad accettare il fallimento che segue spesso alle nostre azioni: per farlo, da un lato bisogna essere consapevoli dei propri limiti, dall’altro non ci si deve soffermare troppo sui risultati pratici di un’azione, perché ciò che davvero conta è il senso che quell’azione ha assunto per la propria esistenza.
Una delle maggiori critiche rivolte all’esistenzialismo, come abbiamo visto, consiste nel dire che l’esistenzialista sceglie da sé i propri valori. Tuttavia, per Sartre, dire che i valori sono frutto di un’invenzione significa semplicemente ammettere che la vita non ha senso a priori, e che, quindi, sta all’uomo darle un senso attraverso le scelte, che permettono di creare i valori stessi. Non si devono giudicare le scelte altrui dal punto di vista morale, ma se ne può giudicare la verità o la falsità: si può giudicare, cioè, quando qualcuno agisce in malafede. La malafede è una menzogna verso se stessi, che deriva dall’angoscia, con cui le persone si auto-convincono di essere prive della responsabilità data dal nostro essere stati gettati nel mondo. Quindi, si può dare un giudizio morale solo riguardo alla libertà, che è il fondamento di tutti i valori. Ogni uomo, nello scegliere, deve avere a cuore la libertà e se non lo fa, solo allora compie una scelta sbagliata. Insomma, la morale non può essere astratta (come era in Kant) ma deve avere sempre un contenuto concreto, perché deriva dall’invenzione del soggetto di fronte all’imprevisto di una determinata situazione.
Per concludere, Sartre spiega che la parola “umanismo” può avere due significati. Come prima cosa, può indicare una dottrina – l’umanismo classico – che considera l’uomo come dotato di un fine superiore. Ma, per Sartre, questa definizione è assurda: si presuppone, infatti, basandosi sulle gesta di pochi individui, che l’uomo abbia un fine statico; quando, in realtà, l’uomo deve farsi e costruirsi costantemente. D’altro canto, se con “umanismo” si indica che l’uomo esiste solo progettandosi e perseguendo fini che lo trascendono, allora si può certo dire che l’esistenzialismo è un umanismo. Così, l’umanismo esistenzialista si presenta come una sintesi tra la trascendenza e la soggettività: l’uomo non è chiuso in se stesso, ma oltrepassa se stesso e si prolunga al di fuori di sé verso un universo umano intersoggettivo.
Con L’esistenzialismo è un umanismo, Sartre non solo si difende dalle accuse rivolte a L’essere e il nulla, ma, più in generale, presenta al grande pubblico la filosofia esistenzialista, rendendola più concreta e accessibile. Si può dire che l’esistenzialismo, così presentato, inviti le persone ad assumersi tutte le proprie responsabilità. Soprattutto ai giorni nostri, infatti, il tema della responsabilità è quanto mai urgente da affrontare. Viviamo in un periodo di grandi cambiamenti e di grandi problematiche, e spesso può sembrare che per noi, nel nostro piccolo e nella nostra singolarità, ci sia poco spazio per fare la differenza. Basti pensare all’ambiente: quanto è comune non fare le piccole cose, come riciclare una bottiglia di plastica invece che buttarla nell’indifferenziato, perché “tanto quello che fa una singola persona non cambia nulla”? Oppure sul web: quanti, nascosti dall’anonimato, insultano gli altri utenti e sono incapaci di assumersi la responsabilità delle proprie parole, perché “tanto cosa vuoi che importi a quella persona se uno sconosciuto la insulta sui social”?
Questi sono solo esempi, e ancora proposti su larga scala. Pensate, infatti, più in piccolo, alla vostra vita: quante volte vi è capitato di dire bugie, di inventarvi scuse, di omettere dettagli o, addirittura, di dare la colpa a qualcuno, solo perché non avete avuto il coraggio di farvi carico delle vostre azioni? Chi di noi, del resto, non ha mai detto “lo tengo per un amico” quando mamma ha scoperto un pacchetto di sigarette nella tasca della giacca? La verità è che l’esistenzialismo ci mette faccia a faccia con noi stessi: noi siamo al contempo giudice e imputato; e, purtroppo, la maggior parte di noi, me compreso, sarebbe da condannare. L’esistenzialismo è una filosofia coraggiosa, orgogliosa, consapevole. Bisogna accettare se stessi, capire quello che si è fatto e perché lo si è fatto; non per accontentarsi, bensì per cambiare. L’analisi introspettiva deve per forza portarci a un miglioramento. Tutti abbiamo alcuni aspetti su cui sappiamo di poter lavorare, e Sartre ci vuole dire che non solo possiamo lavorarci su, ma addirittura dobbiamo farlo.
L’uomo è un continuo progetto. Scegliamo noi cosa vogliamo essere e cosa diventeremo: è una cosa meravigliosa e al contempo orribile. E, in un mondo in cui ci si lascia sempre più cullare da chi ci promette guadagni senza fatica e poteri senza responsabilità, l’esistenzialismo è una secchiata d’acqua ghiacciata che ci risveglia per farci tornare a essere i protagonisti della nostra vita.
Sono il padrone del mio destino: io sono il capitano della mia anima.
William Ernest Henley
[1] Nell’italiano esiste sia il termine “umanismo” sia il termine “umanesimo”. In teoria sono sinonimi, ma in pratica con “umanismo” ci si riferisce, in generale, un’istanza filosofica che enfatizza le potenzialità dell’agire umano; con “umanesimo”, invece, si fa riferimento a una particolare corrente esistita in Italia nel XIV secolo.
[2] Come dice Dostoevskij ne I fratelli Karamazov: “Se Dio non esiste, tutto è permesso”.
[3] Ricorda un po’ il “vincere piuttosto se stessi che il mondo” di Cartesio.