Giovani nel buio

È ormai passato più di un anno dall’inizio di questa pandemia e nel giro di pochi mesi siamo stati teletrasportati in un’altra realtà: mascherine, distanziamento, smart-working, didattica online, zone rosse, arancioni, gialle… Il 2020 ci ha mostrato non solo quanto fragili possiamo essere di fronte a un minuscolo virus, invisibile all’occhio umano, ma anche quanto le nostre azioni e comportamenti possano influire sulla vita di chi ci circonda. Siamo stati tutti chiamati a un senso di responsabilità e solidarietà nei confronti di quelle categorie fragili, come anziani o soggetti con patologie, per le quali il coronavirus non è stato di certo una “semplice influenza”. 

Tuttavia, con il tempo questa crisi ha cessato di essere solo sanitaria e nella sua evoluzione ha toccato altre due fondamentali sfere: quella economica, con una delle peggiori recessioni degli ultimi anni, che ha incrementato povertà e disuguaglianze, ma soprattutto quella sociale. La paura di essere contagiati e di contagiare i nostri cari ci ha portato a rivedere il rapporto con gli altri, ma anche quello con noi stessi. E ad aver pagato il prezzo più alto in termini sociali e psicologici è stata la categoria dei giovani, la quale è stata esclusa dai pensieri di chi ha governato questa situazione.

Ragazzi da tutto il mondo si sono visti negare da un giorno all’altro il diritto allo studio, rimpiazzato da una didattica online che a lungo andare ha mostrato la sua incompatibilità con l’esperienza scolastica e universitaria, che non si soddisfa solo con il mero passaggio di informazioni, ma anche (forse soprattutto) attraverso dialogo, confronto e una serie di relazioni certamente non attuabili dietro lo schermo di un computer.

Ciò che emerge dalle dichiarazioni di Renato Borgatti, direttore di Neuropsichiatria della Fondazione Mondino IRCCS di Pavia, è che tutte queste restrizioni si stanno rivelando un intervento lesivo, soprattutto nei confronti degli adolescenti: la categoria che più di tutte ha bisogno di uscire dall’esperienza familiare e rapportarsi con il mondo al di fuori delle mura di casa. Da inizio pandemia, i ricoveri per problemi legati alla salute mentale sono drasticamente aumentati fra i ragazzi, con un 29% che presenta sintomi di disagio acuto e un 51% cronico. Le patologie più comuni si traducono in disturbi alimentari, stati confusionali, allucinazioni, chiusura e, nei casi più estremi, disturbi di autolesione.

Pochi sono stati i paesi che si sono mossi a fronte di questa situazione: in Francia il Presidente Macron ha annunciato che finanzierà un piano di sostegno psicologico che offre un pacchetto di dieci sedute terapeutiche gratuite per bambini e ragazzi dai 3 ai 17 anni che hanno riportato danni psicologici a seguito di questa crisi. Un importantissimo messaggio quello del presidente francese, che purtroppo in Italia non è arrivato: nel legittimo tentativo di mettere in sicurezza le categorie più fragili, sia i governi che le opposizioni hanno mostrato poco (se non nullo) interesse verso un dramma che, visti i dati, meriterebbe discussioni serie sia dentro le istituzioni politiche che fuori. 

Un atteggiamento che non dovrebbe sorprendere più di tanto, ma che al contrario mostra una certa linearità con le politiche giovanili degli ultimi anni, dove purtroppo i risultati sono pietosi: numerosi tagli su scuola, università e ricerca hanno spinto sempre più ragazzi italiani a cercare fortuna all’estero, portando il nostro paese ad essere uno dei più vecchi d’Europa come età media. E se neanche il cosiddetto “governo dei migliori” è riuscito a mostrare segni di discontinuità su questi temi, c’è veramente da chiedersi se questo atteggiamento non derivi soltanto da una semplice mancanza di empatia, ma più in generale da una completa incapacità del sistema politico italiano di tutelare e valorizzare quella che si appresta a diventare la futura classe trainante di questo paese

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