La psicologia del giocatore di scacchi
Studio sull’argomento e intervista a Francesco Seresin, vincitore del Torneo Primaverile Scacchi UniTn
Cosa fa degli scacchi uno dei giochi più antichi e popolari della civiltà occidentale? Aggressività, arte e immedesimazione. Nato presumibilmente in India tra il VII e l’VIII secolo d.C., il gioco si diffonde in Europa nel 200 circa con la sua caratteristica fondamentale: la proiezione simbolica di un conflitto. Nessun gioco al pari degli scacchi è in grado, infatti, di sublimare un tale istinto di distruzione nello spazio ristretto di 64 caselle. Come ricorda Reuben Fine negli studi sull’argomento: “Il senso di predominanza provato da uno dei due giocatori trova il suo corrispondente in quello di impotenza totale provato dall’altro”[1].
Ciò, tuttavia, non fa degli scacchi una guerriglia alla cieca: si tratta, piuttosto, di una precisa strategia militare in cui l’obiettivo di catturare i pezzi dell’avversario viene condensato nel fine più sottile di dare “scacco matto” o, come spesso accade, di indurre l’avversario a sottrarsi alla partita prima che questo avvenga per sottrarsi dall’umiliazione.
Tutto questo comporta memoria, visualizzazione, organizzazione e immaginazione: sono caratteristiche che hanno reso gli scacchi una materia obbligatoria in alcune accademie militari, come la West Point di New York. Come afferma ancora Fine: “Gli scacchi sono in se stessi una creazione dell’ingegno: come la musica, l’arte e la letteratura (…) senza alcun rapporto con la vita di ogni giorno. È proprio questo aspetto, di dare cioè all’immaginazione un particolare mezzo di esprimersi, che collega gli scacchi al mondo dell’arte”[2].
In ultima istanza, questa aggressività artistica richiede una buona dose di immedesimazione: durante la partita il giocatore deve essere in grado di dimenticare ogni altra cosa e fare della sua stessa vita un intreccio intimo con la scacchiera. Sembra essere proprio questo a comportare il più grande pericolo del gioco, vale a dire l’eliminazione della distanza. Grandi maestri come Morphy, Staunton e Spassky cercarono di limitare il coinvolgimento del gioco nelle loro vite; altri, come Fischer, fecero convergere contrariamente ogni aspetto della loro vita agli scacchi, con tutte le contraddizioni e le nevrosi che ne derivarono. Sono forse queste debolezze, quindi, a render ragione di come “la loro scienza si chiami umana”[3].
Risulterà per questo interessante scoprire cosa ne pensa chi fa degli scacchi non solo un passatempo, ma una passione. Abbiamo intervistato Francesco Seresin, vincitore del Torneo Regina nel Campionato Primaverile 2021 indetto da Scacchi UniTn:
- È un grande piacere riuscire a parlare con il vincitore del torneo locale. È stato difficile avere la meglio nella competizione?
Non è stato per nulla facile! È stato un torneo impegnativo e tutti i match che ho giocato sono stati molto interessanti, a partire dai gironi di qualificazione fino alle partite a eliminazione diretta. Devo ammettere che non pensavo di trovare un livello così alto in un torneo universitario, ma molti degli avversari contro cui ho giocato mi hanno dato del filo da torcere.
- Parlaci di te. Da cosa deriva la tua passione per gli scacchi?
Gioco a scacchi da ormai 14 anni (da quando ne avevo 8) e come molti ho iniziato alle scuole elementari. Da subito mi ha appassionato: prima giocavo coi compagni di classe, poi ho iniziato a frequentare il circolo di Trento. Anche se da piccolo ero un ragazzino molto vivace, gli scacchi erano (e sono tutt’ora) una delle poche attività che mi permettevano, quando mi sedevo a riflettere, di dimenticare tutto quello che mi accadeva intorno. Quando gioco a scacchi mi sento del tutto immerso nelle varianti che sto calcolando e in quel momento mi interessa solamente trovare la mossa migliore.
- A tuo parere gli scacchi sono un’arte? Secondo te quanto pesa l’aggressività nel significato del gioco?
Decisamente si! Personalmente sono molto d’accordo con una frase detta da Anatoly Karpov (dodicesimo campione del mondo), che dichiarò: “Il gioco degli scacchi è tutto: arte, scienza e sport”. Gli scacchi, infatti, sono un’arte per quanto riguarda la bellezza e la geometria delle combinazioni, uno sport per l’impegno e la dedizione che richiedono e una scienza, in quanto è richiesto l’uso di un approccio sistematico (il metodo scientifico, per l’appunto).
L’aggressività è sicuramente un tratto caratteriale importante per un giocatore di scacchi, anche se può essere un’arma a doppio taglio. Infatti, l’aggressività deve essere incanalata e non deve mai essere eccessiva, altrimenti rischia di offuscare la vista e il pensiero del giocatore, rendendolo meno razionale e incapace di valutare la posizione nel modo più obiettivo possibile.
- Parlaci della tua modalità di gioco. Qual è per te il momento decisivo? Preferisci schemi fissi o privilegi l’improvvisazione? Cosa significa per te una vittoria o una sconfitta?
Io sono un fermo sostenitore dei finali: se un giocatore vuole veramente migliorare il suo livello di gioco deve esercitarsi molto su questi, fino ad arrivare a conoscerli senza esitazioni. A poco serve studiare le mosse di teoria delle aperture o capire i concetti di medio gioco se alla fine non si riescono a concretizzare i finali più vantaggiosi.
Rispetto alla seconda domanda prediligo sicuramente gli schemi fissi, ma penso che questo sia comune a tutti gli scacchisti. I giocatori con più esperienza, volenti o nolenti, ragionano sempre per schemi. Gli scacchi hanno un numero finito (ma molto elevato) di possibili tattiche (i cosiddetti pattern) che si presentano nelle posizioni e nelle maniere più diverse, ma alla fine si possono sempre indentificare. Il giocatore esperto, quindi, riesce ad applicare le soluzioni di questi pattern (che ha già visto in altre partite) al match che sta affrontando, riapplicando la stessa soluzione a posizioni riconosciute come simili. Ovviamente, essendo il gioco molto complesso, ci sono casi in cui per minimi particolari non si possono applicare i pattern già noti: sono proprio queste le situazioni in cui entra in gioco l’abilità e l’immaginazione di un giocatore.
Infine, nel momento immediatamente successivo a una partita, aver vinto o perso cambia completamente il modo di vedere le cose: dopo una vittoria tutto sembra bello e ci si sente imbattibili, mentre dopo una sconfitta (purtroppo) si vede tutto nero e sembra che tutto andrà male. Ovviamente con l’esperienza si impara a gestire queste emozioni e si acquisisce consapevolezza su come riuscire a utilizzarle per poter dare il meglio nei match successivi.
- Riesci a costruire una distanza tra la tua vita e il gioco? Di cosa hai paura in partita e fuori dalla partita?
Il proprio carattere entra inevitabilmente in gioco durante una partita. Penso che gli scacchi abbiano influenzato molto la mia vita (e tutt’ora lo fanno), rendendomi più razionale e aiutandomi ad adottare un approccio più logico e rigoroso nell’affrontare i problemi di tutti i giorni.
Sicuramente una delle paure più comuni per un giocatore di scacchi è quella di non essere in grado di prevedere quello che succederà dopo, sia sulla scacchiera che nella vita reale. Direi che una delle mie più grandi paure è quella di trovarmi ad affrontare delle situazioni che non avevo preventivato o preso in considerazione prima. Ovviamente, però, se gli scacchi “creano” questo problema, allo stesso modo offrono anche una soluzione: come ho detto prima, infatti, aiutano il giocatore a “costruire” un metodo per approcciarsi ai problemi (anche quelli non previsti) nella maniera più logica e razionale possibile.
[1] Fine, Reuben, La psicologia del giocatore di scacchi, trad. it. di F. Bovoli, Adelphi, Milano, 1976, p.19
[2] Ivi, p.42
[3] Pontiggia, Giuseppe, in Fine, Reuben, La psicologia del giocatore di scacchi, op.cit., p. 15