Le “figurine” del G20
Il recentissimo incontro del G20, tenutosi a Roma tra il 30 e il 31 ottobre, è divenuto rapidamente l’oggetto principale del dibattito politico mondiale. Mai come quest’anno gli argomenti trattati (e tuttora in discussione a Glasgow nell’ambito della Cop26) riguardano aspetti vicini alla nostra quotidianità e particolarmente delicati per il futuro del pianeta. Infatti, oltre ai macro-temi legati alla gestione della pandemia e al futuro dell’economia mondiale (Biden intende approvare al più presto la sua “Minimum Global Tax”), i leader dei grandi Paesi presenti all’evento hanno focalizzato la loro attenzione sulla lotta ai cambiamenti climatici, possibile soltanto attraverso forme di sviluppo sostenibile e riducendo sensibilmente l’uso di combustibili fossili nella produzione di energia. In particolare, l’obiettivo più ambizioso è quello di limitare il riscaldamento globale a 1.5 gradi Celsius entro il 2050. Tale soglia “critica” era già stata individuata nel 2015, quando i 196 Stati della Cop21 sottoscrissero l’Accordo di Parigi con la concreta aspirazione di diminuire le emissioni di gas serra nell’atmosfera. Tuttavia, numerosi firmatari non sono riusciti a rispettare i patti, causando un aumento delle temperature apparentemente inarrestabile.
A sei anni dall’Accordo i leader dei maggiori Paesi industrializzati sembrano essersi accorti, con colpevole ritardo, della gravità della situazione. O almeno, questo è ciò che sembra emergere dai loro interventi al forum del G20. Il Presidente del Consiglio italiano Mario Draghi, in quest’occasione padrone di casa, ha invitato i capi di governo a collaborare attivamente per raggiungere l’obiettivo comune, ribadendo l’importanza del multilateralismo. Posizione condivisa, ovviamente, dalla grande maggioranza degli invitati.
Particolarmente critico è stato il premier britannico Boris Johnson, che ha sottolineato la necessità di interventi immediati per contrastare il cambiamento climatico: “L’orologio dell’Apocalisse segna un minuto a mezzanotte” – ha dichiarato. Anche il principe Carlo è intervenuto in rappresentanza del Regno Unito, paragonando la lotta contro il riscaldamento globale alla “guerra” attualmente in corso contro la pandemia.
Gli altri leader presenti (tra cui Ursula von der Leyen, Emmanuel Macron, Angela Merkel e Joe Biden) si sono limitati a esprimere la propria preoccupazione sul tema e a promettere interventi efficaci in tempi relativamente brevi.
Tutto sembrerebbe condurre, quindi, a una facile risoluzione del problema climatico. Questa convinzione, tuttavia, comincia a vacillare quando ci si accorge che il presidente cinese Xi Jinping ha partecipato a distanza all’evento, parlando solo superficialmente del tema di interesse. Si ricordi, però, che da sola la Cina produce quasi un terzo delle emissioni annue globali di anidride carbonica: il primo, grande passo verso una riduzione dell’uso di combustibili fossili dovrebbe partire proprio da Pechino. Un altro assente di spessore è stato Vladimir Putin, presidente di una Russia con altissime percentuali di emissioni nocive, che ha dichiarato di poter conquistare la neutralità climatica nel 2060. Come se non bastasse, anche l’India sembra titubante a riguardo: promette di raggiungere l’indipendenza energetica, ma entro il 2070, ben vent’anni dopo l’obiettivo comune.
Una riflessione a parte meritano tutte quelle tematiche politiche e di relazioni internazionali che non sono state minimamente prese in considerazione nel corso del forum. Riferiamoci, in particolare, alle crescenti tensioni nell’area del Pacifico: Taiwan, strategicamente fondamentale per il mondo occidentale in quanto fornitrice di microchip e altri device tecnologici, è costantemente provocata dalle esercitazioni militari promosse dal governo cinese sul loro territorio. Non è un mistero, infatti, che lo stesso Xi Jinping prema per la definitiva annessione dell’isola al “Paese del Dragone”, mossa che porterebbe la Cina ad avere il controllo su un settore chiave per il mercato occidentale. Minacciato da tale rischio, Biden si è dichiarato pronto a intervenire in soccorso di Taiwan in caso di attacco cinese. Dunque, l’assenza fisica di Xi Jinping al G20 può essere letta come tentativo di evitare situazioni di imbarazzo o tensione tra i leader, nascondendo i radicati contrasti dietro la completa omissione della “questione taiwanese” dall’agenda.
Anche il tema della complicatissima situazione umanitaria in Afghanistan non è stato oggetto di discussione. Nonostante le numerose dichiarazioni di vicinanza e sostegno al popolo afghano dei mesi scorsi, i capi del governo presenti al forum sembrano essersi improvvisamente dimenticati dei crimini commessi dai talebani e della grave offesa perpetuata nei confronti dei civili, deprivati dei loro diritti fondamentali.
Che senso può avere, allora, presentarsi davanti agli occhi di tutto il mondo come rappresentanti di un sistema politico internazionale coeso e collaborativo, se poi questioni come quella taiwanese o afghana vengono completamente dimenticate (o meglio, volontariamente escluse) dal dibattito?
Dietro alla stessa organizzazione dell’evento sembra celarsi un forte alone di artificiosità. Provo a spiegarmi meglio: le foto di gruppo (prima disposti su tre file come per l’annuario scolastico, poi davanti alla Fontana di Trevi con l’immancabile lancio della monetina), la cerimonia di benvenuto ai leader politici (più simile a una sfilata che a un incontro diplomatico) e le stesse idee proposte durante il forum (vaghe e generali) contribuiscono a creare una situazione di apparente “agio” e sicurezza, che però rivela diverse forzature se analizzata più attentamente. È come se, una volta entrati nella “bolla” del G20, le varie personalità politiche cominciassero a recitare lo stesso copione, forse lasciando trasparire qualche lato della propria personalità individuale, ma proponendo comunque lo stesso testo. Come figurine, quindi, mostrano la loro immagine solo superficialmente, mentre lo “spessore” e la profondità restano intangibili. A parziale conferma di ciò (e tornando alla questione del clima), come non menzionare l’arrivo di Biden al G20 scortato da ottanta super-inquinanti auto blindate? E il ritorno a Londra di Johnson da Glasgow (per la Cop26) a bordo di un jet privato? Sono comportamenti che non ci aspetteremmo da qualcuno che sta per parlare di cambiamento climatico o che ha appena finito di farlo; tuttavia, entrambi i leader si trovavano già fuori dalla rispettiva “bolla” di riferimento.
D’altra parte sarebbe falso affermare che la delicata tematica del riscaldamento globale non interessi alla classe politica o non sia trattata con l’importanza che merita. Anzi, le proposte avanzate al G20, per quanto ancora troppo vaghe, devono servire da spunto per trovare soluzioni meno astratte durante la XXVI Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che si sta svolgendo in questi giorni in Scozia. Proprio alla Cop26 circa quaranta paesi hanno deciso di non utilizzare più il carbone per la produzione di energia elettrica entro i prossimi vent’anni; tra questi, però, mancano Cina, India e Stati Uniti, grandi produttori e consumatori di carbone. Nel frattempo, Greta Thunberg si è già mobilitata per chiedere un deciso cambio nelle politiche ambientali globali.
Non resta che aspettare il termine della Conferenza, fissata per il 12 novembre, per avere una visione d’insieme più chiara sul futuro che ci attende. Con la consapevolezza che non c’è più tempo da perdere.