La poesia e la sua struttura
Attraverso la Risposta a Sir Guglielmo d’Avenant da parte di Thomas Hobbes, si possono analizzare diversi elementi grazie ai quali una poesia è considerata tale o, per meglio dire, raggiunge una perfezione in ogni suo sviluppo.
Trattare quest’arte, una delle più importanti e presenti sin da Omero, autore di opere come l’Iliade e l’Odissea, è una cosa assai complessa e dispendiosa.
Numerosi autori si sono cimentati nel descrivere e analizzarne la struttura, cioè cosa essa è veramente, ed un esempio è il filosofo e matematico Thomas Hobbes. Egli, nella lettera Risposta a Sir Guglielmo d’Avenant approfondisce o, per meglio dire, sviluppa una critica molto elaborata a tale riguardo. Partendo dal poema scritto dal Sir G. D’Avenant, analizza i punti fondamentali della poesia e i motivi per i quali un poema può essere definito bello. Il filosofo britannico fa capire sin da subito che la filosofia e la poesia sono strettamente collegate: scrive, infatti, che «come i filosofi hanno diviso l’universo in tre regioni: celeste, aerea e terrestre, così i poeti […] si sono collocati nelle tre regioni dell’umanità, la Corte, la città e la campagna». Da questa affermazione si ricava così che esistono tre generi di poesia, eroica, scommatica e pastorale, distinte poi a loro volta secondo il tipo di rappresentazione che può essere narrativa o drammatica.
Anche Aristotele aveva analizzato che cosa fosse la poesia e, in particolare, aveva trattato la differenza tra i modi in cui il poeta può imitare, cioè rappresentare. La prima forma è quella narrativa, in cui può assumere personalità diverse – come fa Omero – o narrare in prima persona, rimanendo sempre lo stesso senza alcuna trasposizione. La seconda, invece, è quella drammatica, nella quale sono gli attori a rappresentare direttamente l’intera azione, come se fossero essi stessi i personaggi viventi e operanti.
Riprendendo Hobbes si ottiene dunque che la poesia in base al genere e al modo di rappresentare si suddivide né più né meno in sei tipi: epico, tragedia, satira, commedia, pastorale (o bucolica) e commedia pastorale. Sorge, però, un problema: con questa classificazione vengono tralasciati sonetti ed epigrammi storici, come quelli di Empedocle e Lucrezio. La risposta di Hobbes è tempestiva: «una poesia parla di azioni umane e non di cause naturali […], e di azioni inventate […] che non sono avvenute fra uomini». Se così non fosse, non ci sarebbe distinzione tra poeti e storici e si cadrebbe nell’errore di considerare poeta qualcheduno solo per l’uso dei versi invece che della la prosa.
L’uso dei versi è, infatti, necessario, ma non indispensabile per affermare che ciò che viene scritto sia una poesia e colui che la scrive sia un poeta. Già i Greci e i Latini usavano il componimento in versi per le loro opere in quanto la grazia di questo stile, rispetto a quella della prosa, era innegabilmente di livello superiore: la prosa si trova in svantaggio competendo con il verso perché “combatterà a piedi contro la forza e le ali di Pegaso”. Inoltre, il linguaggio ritmico, come quello in versi, era preferito dagli antichi, perché le poesie erano fatte per essere cantate e, di conseguenza, erano accompagnate da uno strumento musicale.
Oltre all’uso dei versi c’è bisogno di altro per una struttura adeguata, cioè delle regole che permettano un buon linguaggio ritmico e che non facciano perdere di stile la poesia nel suo insieme. Per gli antichi il metodo fu l’esametro, mentre in epoche più vicine a noi si usa il decasillabo, compensando la negligenza della quantità con la diligenza della rima. Per essere continuamente abili nel comporre una poesia bisogna avere un basamento solido, anche solo per evitare l’uso in momenti inopportuni di elementi che, pur volendo essere di carattere positivo, divengono l’opposto di ciò che si voleva invocare.
Dunque, come riporta Thomas Hobbes, sono il tempo e l’educazione i capisaldi del poema: infatti, questi elementi «producono esperienza, l’esperienza produce memoria, la memoria produce giudizio e fantasia» fino a dire così che «il giudizio produce la forza e la struttura e la fantasia produce gli ornamenti di un poema». Tutto ciò va dunque a criticare coloro che sostengono che la bellezza di un poema consista solamente in una fantasia esorbitante e tralasciano, per questo, tutti gli altri elementi, ad esempio la struttura della poesia. «Infatti, come la verità è il limite della libertà dello storico, così la verosimiglianza è il limite estremo della licenza poetica», continua Hobbes, e non per questo la fantasia va eliminata, ma, anzi, fa da supporto a tutta la poesia nel suo insieme. A questo proposito, possiamo di nuovo chiamare in causa Aristotele, secondo il quale, infatti, la poesia è mimesi, ovvero imitazione. Da questo presupposto potremmo dedurre che la fantasia abbia poco spazio, per non dire nessuno, ma non sarebbe propriamente corretto: in realtà, il suo spazio consiste nel rappresentare personaggi migliori o peggiori di noi per di farci immedesimare in essi e portarci a riflettere. Quindi, per ottenere una buona poesia, non bisogna negare l’uso della fantasia, ma anzi indirizzarla per creare situazioni più verosimilmente possibili, avendo cura di fare in modo che il lettore possa confrontare se stesso con i personaggi presenti nell’opera poetica e con il resto di ciò che legge.
Anche Dante Alighieri lascia uno spazio particolare alla fantasia, prendendo come esempio Virgilio (che stimava molto), Lucano e Orazio. Ne La vita nova egli si sofferma sull’aspetto che «li poete hanno parlato a le cose inanimate, sì come se avessero senso e ragione, e fattele parlare insieme», aggiungendo poi che i poeti hanno detto, oltre alle cose vere, anche cose non vere e «detto che molti accidenti parlano, sì come se fossero sustanzie ed uomini». Anche il poeta fiorentino, però, afferma che prima di questa fantasia deve esserci una qualche ragione per usarla: deve, cioè, servire a ornamento della poesia, ovvero alla sua struttura stessa.
Per avvicinarci ai giorni nostri possiamo appoggiarci a ciò che il filosofo tedesco F. Schlegel scrive nel suo Dialogo sulla poesia, in cui analizza anche la poesia nel suo percorso storico. Egli afferma che «per noi moderni, per l’Europa, questa sorgente [della poesia] è nell’Ellade» trovandola immancabilmente «in Omero e nell’antica scuola degli Omeridi». Da qui in poi, pur essendoci stati un susseguirsi di cambiamenti e di trasformazioni, la struttura di base richiama sempre principalmente alla poesia omerica dell’Iliade e dell’Odissea, ovvero l’epica antica, e ad altri generi come i giambi, l’elegia, i carmi e i drammi che sono altrettanto importanti. Dunque si può dire che tutto quello che vien dopo, fino ai giorni nostri, è un’eco e ritorno di quel supremo “Olimpo” della poesia. L’elemento che, anche in questi generi, viene sottolineato è l’imitazione, la cosiddetta mimesi, la quale permane in ogni opera poetica degna di essere chiamata tale, rimanendo all’interno della struttura poetica.
Un altro aspetto fondamentale e determinante per la struttura delle opere consiste nelle interferenze reciproche di poesia e filosofia.
Quest’ultima, tuttavia, non sempre viene accostata alla prima e questo è valido anche per il passato. Con il periodo di Goethe e, quindi, con l’universalità di questo significante poeta, la filosofia é trattata insieme alla poesia, affermando che doveva scoprire la fonte prima della fantasia e l’ideale della bellezza e, così, riconoscere chiaramente la poesia. Queste due discipline agiscono, dunque, l’una sull’altra ed in particolare la filosofia è partecipe della struttura della poesia e aiuta l’arte poetica ad esprimersi al meglio.
Andando avanti col tempo, la poesia – e altrettanto anche l’arte in generale – inizia ad essere osservata da punti di vista differenti. Circa cinquanta anni fa, l’antropologo Gregory Bateson pubblicò una tra le sue opere più rinomate ed influenti dal titolo Verso un’ecologia della mente, in cui prende una posizione teorica soffermandosi su come interagiscono le idee. Nel capitolo Doppio vincolo, 1969, tratta l’omonima teoria che afferma che «una componente dovuta all’esperienza è presente nella determinazione […] dei sintomi sia della schizofrenia sia di modelli comportamentali, come il comico, l’artistico, il poetico, ecc.». A livello teorico dunque è impossibile prevedere se un individuo «diventerà un pagliaccio, un poeta, uno schizofrenico o una combinazione di tutto ciò». Questo ci fa capire come gli elementi che circondano una persona e gli eventi che accadono, dove complessivamente prendono il nome di esperienza, agiscono sull’individuo e dunque su come un poeta possa strutturare la sua arte poetica. Anche qui viene richiamato l’ideale greco già preso in esame nelle righe precedenti con Aristotele: la cosiddetta mimesi. Nella poesia, la natura o, meglio, la realtà, determina notevolmente la struttura stessa: possiamo dire, anzi, che ne è una componente fondamentale.
In ogni autore che indaga sulla poesia, dunque, il richiamo alla realtà, che prende anche il nome di natura, è sempre presente. L’imitazione è alla base della poesia e, inoltre, congegna le fondamenta della struttura che un poeta degno di essere chiamato tale prende in considerazione per i suoi componimenti. In più, non bisogna dimenticare come la filosofia sia connessa all’arte poetica da un’interferenza reciproca che ne modifica significativamente le strutture.
In conclusione, possiamo dire che la poesia è innanzitutto basata su una struttura ben definita che richiama la mimesi ed supportata dalla filosofia; in più, menzioniamo la fantasia, la quale non ha il ruolo fondamentale, ma alla quale, comunque, spetta una parte determinante per ottenere un lavoro adeguato. La struttura e gli elementi, quindi, hanno un’importanza maggiore di quello che pensiamo e la poesia, come scrive F. Schlegel in Dialogo sulla poesia, «fu prima una leggenda eroica, poi un giuoco di cavalieri e infine un’opera d’artigiani borghesi, sarà e resterà […] una scienza profonda di veri dotti e una valida arte d’inventivi poeti».