Delitto e Castigo: le due facce della morale

Delitto e Castigo è un romanzo dello scrittore russo Fëdor Dostoevskij pubblicato nel 1866, ed è considerato uno dei testi più influenti della letteratura russa e mondiale, condizionò in profondità il pensiero occidentale e i princìpi del fare narrativa. È un testo forte e rispetta in pieno la definizione di Franz Kafka di “libro degno di essere letto”:

Bisognerebbe leggere, credo, soltanto libri che mordono e pungono. Se il libro che stiamo leggendo non ci sveglia come un pugno che ci martella sul cranio, perché dunque lo leggiamo? […] Un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi.

Franz Kafka

In Delitto e Castigo, la storia di un omicidio dal punto di vista di una mente criminale disegna una parabola dal valore universale: con lo stile crudo, vivido e diretto di un realismo russo “all’apice del suo masochismo” – per citare Tarantino –, dà un volto umano a una grande contraddizione, a due modi opposti di vedere il mondo.
Il proposito di quest’articolo è introdurre alle idee del romanzo evitando di raccontare troppo e presentare una breve riflessione su due tipi di morale: quella filosofica e dottrinale a confronto con una più comune, più “umana”. Per trattare l’argomento si accennerà, nella parte conclusiva dell’articolo, al finale dell’opera, o meglio alle condizioni che conducono all’epilogo. Per cui, se il lettore non conosce queste pagine dostoevskiane e le vuole affrontare senza sapere nulla, può fermarsi qui. Altrimenti, buona lettura.

Le vicende sono ambientate in una bollente estate a San Pietroburgo, le strade traboccano di chiassosa gente del popolo, fra bettole piene di ubriachi e accattoni. Il protagonista è Raskòl’nikov, un giovane universitario che vive in una stamberga di un quartiere popolare della periferia cittadina. Il suo aspetto, i suoi abiti strappati, la sua costituzione ossuta, lo fanno sembrare un mendicante: da mesi ormai vive in uno stato di abbandono fisico e mentale, in una routine di ozio e solitudine. La sua salute cagionevole oscilla fra la lucidità e uno stato pseudo-paranoico, spesso provocato da debilitanti febbri cerebrali, nome generico che nel romanzo è usato per descrivere i sintomi di una febbre tanto forte da far perdere la ragione.

Il problema più concreto di Raskòl’nikov, comunque, è la sua povertà, anche se spesso sembra non curarsene. Le occasioni per guadagnarsi da vivere non mancherebbero, ma Raskòl’nikov le trascura, o meglio sceglie di vivere in una prolungata condizione di alienazione dalla realtà della propria indigenza.
In realtà, il protagonista sa che la sua condizione gli impedirà di proseguire gli studi, e per risanare le sue finanze valuta una soluzione drastica: ha in mente di assassinare una vecchia usuraia e d’impossessarsi del suo denaro. Il ragazzo propone a sé stesso di commettere il gesto immorale come unica eccezione in una vita all’insegna della rettezza, per la nobile causa di terminare gli studi in legge: una volta commesso il crimine, si ripromette di trascorrere il resto dei suoi giorni come un tutore della giustizia.

Il progetto criminale, nella mente spostata del ragazzo, prende forza da un’astratta teoria morale, spiegata da Raskòl’nikov stesso in un articolo di giornale: il mondo si muoverebbe in due direzioni opposte e mutualmente necessarie, che corrispondono a due diverse categorie umane.
Una è quella degli uomini conservatori, materiali, “ordinari”: sono la stragrande maggioranza e hanno il compito di moltiplicarsi e rimpinguare la massa umana del mondo. Gli uomini ordinari proteggono la legge antica, cioè tutti i dogmi e i princìpi che appartengono a un determinato periodo storico, e che vigono nel presente di quella data epoca.
La seconda categoria comprende un’esigua minoranza dell’umanità: sono gli uomini “straordinari”, una razza spuria fra il superuomo nietzschiano e Napoleone, fra un Aristotele e un Maometto, fra un profeta e un tiranno. I rappresentanti di questa minoranza hanno il compito e la stringente necessità di trascinare in avanti il progresso umano, di dire qualcosa in più rispetto a ciò che è già stato detto e che è già considerato legge. Per loro natura i “napoleoni” tendono a infrangere la legge corrente – legge in senso ampio: le norme morali, come capita a Raskòl’nikov, i princìpi scientifici, le convenzioni sociali, ecc. – per annientare il senso comune, annichilirlo perché rinasca in una nuova forma.

Il calcolo morale in cui s’incatena il pensiero del protagonista è una conseguenza di questa teoria. Se uno di questi “napoleoni” si trova a dover “passar sopra” a un uomo ordinario che per qualche ragione costituisce un ostacolo al raggiungimento del fine superiore, egli è legittimato, nel suo intimo, a farlo, per la buona causa del perseguimento del progresso. Il lettore avrà inteso che per “passar sopra”, il giovane filosofo intende pure macchiarsi del sangue dei propri simili.

Una teoria resta tale se non viene testata, e Raskòl’nikov, fra ripensamenti e crisi nervose, decide di metterla in pratica: se veramente è un Napoleone, vivrà l’omicidio dell’usuraia come un male necessario per un degno ideale, cioè la perfezione morale di un futuro uomo di legge, e la sua coscienza si dimostrerà impermeabile alle macchie di sangue. Dopotutto chi meglio di lui riuscirebbe a verificare la propria appartenenza alla categoria dei Napoleoni? Lui stesso ha il merito di aver concepito una teoria perfetta e di averla messa nero su bianco, come un Charles Darwin della scienza antropologica.

Con l’incrinarsi della già precaria stabilità mentale di Raskòl’nikov, il lettore si accorge che il romanzo non è un trattato filosofico adattato a racconto, ma è una vera e propria opera letteraria, in cui personaggi sono veri, hanno profondità e soffrono per gli atti ingiusti. Una volta eliminata l’usuraia, le impalcature ideali della teoria del Napoleone vanno giù come cartapesta. I nervi del protagonista cedono del tutto quando si rende conto di non potersi sobbarcare il peso di un omicidio, anche se è stato schiacciato solo “un insetto insignificante”, come viene definita l’usuraia.
La morale umana ha la meglio sul rigido calcolo astratto, la natura innata del pentimento prevale sull’ideologia del superuomo a cui tutto è concesso, a cui è perdonata ogni prevaricazione. Il fardello del crimine commesso annienta la presunzione di verità, l’autoproclamata superiorità rispetto ai propri simili. La morale diventa una livella, che, un po’ come quella di Totò, mette sullo stesso piano gli esseri umani e li stringe l’uno all’altro come fratelli.

Anche l’assassino più abietto, davanti al tribunale del proprio senso morale, non può far a meno di chiedere giustizia, riconosce di dover lavare la sua coscienza scontando una pena. Il castigo peggiore è il suo senso di colpa, mentre la condanna di una giuria di suoi simili ricuce le lacerazioni del delitto e restituisce, finalmente, la pace dello spirito.

È chiaro, questa è un’interpretazione come tante di un testo immenso, e potrebbe essere del tutto scorretta. Raskòl’nikov potrebbe essere un uomo di coscienza, di fede, o solo un debole, e la sua teoria resterebbe corretta, e anzi la caduta di un falso Napoleone confermerebbe l’accuratezza dell’immorale disegno. Non è un trattato filosofico, è un’opera letteraria, la decisione spetta al lettore.

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. Maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi