Il processo del carcere di S.Maria Capua Vetere: la prima volta della tortura in Italia
Il giorno 15 dicembre 2021 si è tenuta l’udienza preliminare con cui si è aperto il processo volto a chiarificare quanto accaduto lo scorso aprile nel carcere F. Uccella di Santa Maria Capua Vetere (provincia di Caserta).
Sono ben 108 gli imputati, i quali vengono accusati di reati gravi: dall’abuso di potere alle lesioni, fino ad arrivare all’accusa di cooperazione nell’omicidio colposo del detenuto Lakimi Hamine. Si tratta di un processo storico, per il nostro ordinamento, in quanto, per la prima volta in assoluto, 50 dei 108 imputati sono accusati del reato di tortura. Il reato in questione è stato introdotto nel 2017, con l’articolo 613-bis del codice penale, in cui si prevede la reclusione da 4 a 10 anni per chi, agendo con violenze, minacce o crudeltà, cagioni gravi sofferenze fisiche o traumi psicologici nei confronti di persone private della libertà personale o affidate alla sua custodia; le quali rappresentino un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.
I fatti presi in considerazione sono avvenuti appunto il 6 aprile del 2020, quando, a seguito di una protesta da parte dei detenuti che chiedevano venissero prese idonee misure per la protezione personale dal Covid-19 (mascherine, igienizzante, limite alle visite, maggior igiene della struttura), 300 agenti, sia interni che esterni al carcere, diedero il via ad una “perquisizione straordinaria generale”.
Dietro a questo titolo si celava però un orrendo pestaggio messo in atto nei confronti dei detenuti, disarmati, costretti ad uscire dalle celle e resi vittime di percosse, lesioni gravi, calci, pugni, colpi di manganello. L’unico “errore” che hanno commesso gli agenti è stato quello di dimenticarsi di disattivare le videocamere di sorveglianza poste all’interno del carcere, grazie alle quali è stato possibile identificare i sospettati. Solo 108, purtroppo, a fronte dei 300 che hanno partecipato, ma che sono risultati spesso irriconoscibili a causa del volto coperto. Stando a intercettazioni che sono state trovate dai magistrati nell’istruttoria, alcuni agenti si sono scambiati battute del tipo “li abbattiamo come vitelli”, “domate il bestiame”, riferendosi appunto ai detenuti, la cui colpa è stata quella di domandare garanzie al proprio diritto alla salute per contrastare la situazione sanitaria emergenziale appena iniziata.
Una macello, un’”orribile mattanza” l’ha definita Sergio Enea, giudice per le indagini preliminari del caso. Una storia tanto conosciuta quanto terribile, questa, un processo appena iniziato ma che finirà tra molto tempo. La dice lunga sul sistema penitenziario italiano e su come ci si dimentichi dei diritti fondamentali e teoricamente inviolabili di dignità umana nei confronti di chi si trova recluso, di come molto, troppo spesso, chi si trova in una situazione di potere tenda ad approfittarne, com’è accaduto appunto nel carcere “Francesco Uccella”. Si tratta senza dubbio di un processo storico, sia per la mole degli imputati che per la gravità dei reati, tra cui quello di tortura invocato per la prima volta in Italia.
Alcune domande, credo, sorgono spontanee: cosa sarebbe accaduto se le videocamere fossero state disattivate? Come si sarebbe riusciti in quel caso, a fare giustizia? E soprattutto, chi può garantire che avvenimenti simili non siano accaduti o accadano anche in momenti e luoghi diversi, e che passino del tutto impuniti, lontano dalla copertura mediatica e l’indignazione pubblica? Un pensiero spaventoso, certo, ma che ci invita ad una profonda riflessione sulle condizioni del nostro sistema penitenziario e su cosa si potrebbe fare per migliorarlo, per far sì che questo sia un caso isolato e non un pericoloso precedente.