Politically Correct – Una questione su cui riflettere
Durante una delle serate del festival di Sanremo, abbiamo assistito all’esibizione dell’ormai celebre attore e comico Checco Zalone, che ha intrattenuto il pubblico a suon di battute e canzoni prettamente provocatorie, riguardanti i più svariati temi di dibattito quotidiano della nostra società. In particolare ha fatto molto discutere la sua favola che vedeva come personaggi principali “calabresi e trans brasiliani” e che, come lo stesso Zalone aveva immaginato, ha creato una valanga di polemiche e contro polemiche all’interno del dibattito pubblico-politico. Tra i maggiori indignati troviamo rappresentanti e sostenitori della comunità LGBT, mentre a prendere le difese del comico è stata quella parte della società che, convinta difenditrice della libertà di pensiero, si rifiuta di piegarsi al diktat del “politicamente corretto”. Ma che cos’è di preciso il “politicamente corretto”? In che modo questo termine è divenuto mainstream nel dibattito pubblico italiano e non solo? E quali sono le ragioni portate avanti dai sostenitori da una parte, e oppositori dall’altra?
Prima di tutto il politicamente corretto è un concetto divenuto celebre e di uso quotidiano intorno agli anni Ottanta, e vuole indicare una serie di opinioni volte a promuovere un linguaggio e un comportamento politico più attenti al rispetto di categorie che, tradizionalmente, si ritrovano in una posizione subalterna e discriminata della società per ragioni legate al sesso, l’etnia, la religione, l’orientamento sessuale, ecc… L’obiettivo non è solo quello di eliminare la “discriminazione diretta”, quindi lo sfregio e l’emarginazione di una persona per caratteristiche proprie che non rispondono ai canoni della maggioranza di una comunità; ma ha come ulteriore scopo estirpare quella che possiamo definire la “discriminazione indiretta”, quindi l’uso di termini e aggettivi che, seppur non rivolti direttamente a una persona con particolarità stigmatizzate dalla cultura civile, vengono usati liberamente come forma di offesa generale. “Ma sei down?” “Mamma mia che ritardato che è quello!”: sono tutti casi in cui le condizioni psico-fisiche di una persona vengono usate per disprezzare persone che in quel momento non ci vanno troppo a genio.
E non c’è voluto troppo tempo perché la questione del politicamente corretto entrasse a pieno titolo nel dibattito politico. Sull’onda del progressismo, le forze tradizionalmente di “sinistra” hanno subito abbracciato questa dottrina di pensiero, trasformando le mere parole in vere e proprie proposte di legge, che a volte hanno avuto successo, altre volte meno. Dall’altra parte, coloro che si riconoscono più conservatori – e quindi tradizionalmente vicini alla “destra” – hanno sempre fatto fatica ad accettare questo processo, che richiede molto spesso una completa rivoluzione dei modi e del linguaggio di un individuo. E se le forze di destra più moderate e liberali ultimamente sembrano essersi conformate a questo atteggiamento politico, viene da chiedersi se non sia stato più per pressione sociale che per effettiva convinzione.
Tuttavia, negli ultimi anni è successo un qualcosa di alquanto curioso: i sostenitori del politicamente corretto, che occupavano una posizione mediatica di estremo vantaggio, all’improvviso si sono trovati in una situazione in cui sembrano essere messi loro stessi sul banco degli imputati. Il politicamente corretto è stato posto pesantemente in discussione all’interno del dibattito per due motivi fondamentali. Primo di tutto, l’accusa che dietro la sua retorica si nasconda una forte ipocrisia che vuole occultare l’incapacità odierna delle forze progressiste di rispondere alle esigenze sociali delle nostre comunità. In secondo luogo, coloro che si sono sempre rifiutati di abbracciare questa posizione politica hanno saputo rimescolare le carte, passando da “accusati” a “paladini della libertà di pensiero”; il “politicamente scorretto” non è più un qualcosa di cui vergognarsi, ma al contrario è diventata la virtù di coloro che non costruiscono le loro opinioni sulla base del mainstream.
Per quanto riguarda il primo assunto, è molto facile capirne le ragioni. Troppo spesso in questi anni i cosiddetti “progressisti” hanno abusato di retoriche politicamente corrette, e nel farlo hanno completamente perso il contatto con tutte quelle realtà subalterne della società – davanti a tutte la classe lavoratrice – che in passato vedevano nella sinistra una vera e propria casa. Il loro moralismo ha finito spesso per diventare tedioso e ipocrita. Sono sempre pronti a scandalizzarsi di fronte a ogni affermazione provocatoria di qualche avversario politico, quasi come se il loro obiettivo fosse trarre vantaggio da ogni gaffe per distogliere il più a lungo possibile l’attenzione dell’opinione pubblica dalla loro incapacità di rispondere a tutte le problematiche che affliggono la nostra generazione.
E per tornare al caso di Checco Zalone, chiunque conosca un minimo il comico barese sa benissimo che da sempre il suo obiettivo professionale è quello di interpretare lo stereotipo dell’italiano medio, tanto nei suoi pregi quanto nei suoi difetti; e che quindi le sue parole non solo non miravano ad essere omofobe e discriminatorie, ma al contrario avrebbero dovuto mettere in imbarazzo tutti coloro che fanno dell’omofobia una virtù. A questo proposito, è interessante notare come la satira odierna, nel suo tentativo di rappresentare gli aspetti più controversi di una società dove odio e discriminazione purtroppo sono ancora presenti, debba necessariamente servirsi di un linguaggio “politicamente scorretto”, ovviamente entro certi limiti.
Per quanto riguarda il secondo assunto della critica al politicamente corretto, la questione si fa più complessa. Se è vero che la libertà di pensiero e di parola sono i pilastri portanti di un regime liberal-democratico, non possiamo accettare che l’essere politicamente scorretto diventi un valore, che linguaggi offensivi e pieni di pregiudizi vengano deliberatamente approvati in nome di una presunta “libertà”. Perché quando diamo del “down” o del “f****o” a una persona senza nessun motivo se non quello di bistrattare, poniamo indirettamente l’accento sul fatto che avere delle caratteristiche che non corrispondono a quelle del cittadino “tradizionale” debba essere motivo di vergogna. E quando sentiamo qualcuno dire frasi come “non sono razzista, semplicemente non mi piego alla dittatura del pensiero unico” molto probabilmente siamo in presenza di una persona che non solo è effettivamente razzista, ma che non ha neppure il coraggio di ammetterlo.
Per concludere, ritengo sia giusto citare l’articolo 10 Cedu parte 2 sull’esercizio della libertà di espressione:
“L’esercizio di queste libertà, comportando doveri e responsabilità, può essere sottoposto a determinate formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni previste dalla legge e costituenti misure necessarie in una società democratica, per la sicurezza nazionale, l’integrità territoriale o l’ordine pubblico, la prevenzione dei disordini e dei reati, la protezione della salute e della morale, la protezione della reputazione o dei diritti altrui, o per impedire la divulgazione di informazioni confidenziali o per garantire l’autorità e la imparzialità del potere giudiziario.”