Storia di chi fugge e di chi resta. Una riflessione su rappresentazione e patriarcato.

Domenica 27 febbraio sono andate in onda su Rai1 le ultime due puntate della terza stagione de L’Amica geniale, serie tv che mette in scena l’omonima tetralogia di Elena Ferrante.

Il terzo romanzo, Storia di chi fugge e di chi resta, rappresentato in otto episodi, è quello in cui il ritmo della vita sembra rallentare. Dopo L’Amica geniale e Storia del nuovo cognome, che coprono rispettivamente infanzia e adolescenza delle due protagoniste, e di conseguenza presentano una certa velocità e densità di eventi, la narrazione rallenta nel terzo capitolo, in cui le vicende storiche emergono dallo sfondo con maggiore evidenza, in particolare i moti rivoluzionari della fine degli anni Sessanta e lo sviluppo dei movimenti femministi degli anni Settanta. La terza stagione mette in scena in maniera piuttosto efficace il clima degli anni di piombo, caratterizzati dalle lotte operaie e studentesche e dal terrorismo.

All’inizio della stagione, dopo il successo del suo primo romanzo, Elena sposa Pietro Airota e si ritrova a vivere a Firenze, costretta a casa prima dalla gravidanza, poi dalla cura delle figlie. Dalla sua gabbia fatta di faccende domestiche, solitudine e isolamento, Elena assiste da spettatrice esterna a ciò che accade al rione, che le viene riportato tramite lunghe telefonate dall’amica Lila. Quest’ultima, dopo un breve periodo di lavoro in fabbrica che la induce a partecipare alle rivendicazioni operaie e alla lotta di classe, torna infatti a vivere al rione insieme al figlio e a Enzo. Lì troverà lavoro come programmatrice e si riscatterà, riallacciando anche i rapporti con la sua famiglia.

In generale ho apprezzato moltissimo la riproduzione dell’estetica e del contesto sociale degli anni tra Sessanta e Settanta (nonché la performance attoriale di gran parte del cast). È stato bello vedere riprodotte le proteste femministe, vedere inquadrati gli scritti di Carla Lonzi, ascoltare i discorsi sull’autodeterminazione della donna.

Molto efficace è anche la descrizione del rapporto tra Lila ed Enzo: così come nel romanzo, anche nella serie tv è evidenziato come i due costituiscano la sola coppia equilibrata della tetralogia. Emerge tutta la loro ammirazione reciproca, la sensibilità con cui si accolgono non pretendendo niente l’uno dall’altra, fornendo l’unico esempio reale di rapporto vagamente paritario. È stato interessante anche vedere le due amiche confrontarsi telefonicamente, quando Elena scopre che Lila, a differenza sua, prende la pillola perché dorme con Enzo. Proprio Lila, che è tornata a vivere nel rione, e ora gode paradossalmente di più libertà di lei, lei che ha studiato e si è laureata per poi ritrovarsi costretta in casa, schiacciata dal suo ruolo di moglie e madre, senza alcun supporto dal marito, stesso giovane progressista che aveva rifiutato il matrimonio cattolico per poi impedirle di ricorrere alla contraccezione.

È proprio la rappresentazione della coppia Elena-Pietro, dal mio punto di vista, a costituire l’aspetto più problematico della serie tv. Dal primo episodio di questa stagione sembra che la regia abbia fatto di tutto per rendere piacevole e relatable il personaggio di Airota. Nel complesso appare evidente come si sia cercato di smussare il suo lato implicitamente autoritario e fortemente patriarcale. Se è vero, infatti, che Pietro Airota non è Stefano Carracci né Michele Solara, è infatti un uomo mite e incapace di imporsi tramite la violenza fisica, è altrettanto vero che l’impostazione del suo rapporto con Elena è regolata dalle stesse dinamiche di violenza che caratterizzano il rione e, più in generale, il mondo. Si tratta di una violenza non fisica ma psicologica, che nel caso di Pietro – e più in generale della classe alto borghese in cui Elena si inserisce tramite il suo matrimonio – si serve di mezzi ancora più sofisticati di prevaricazione. Ferrante ha fatto in modo che il parallelismo fosse molto evidente nella narrazione, e questa evidenza si è persa a mio avviso quasi completamente nella serie tv, che tradisce un punto di vista fortemente patriarcale sulla coppia, per cui l’abbandono di Elena finisce per apparire assurdo e immotivato: Elena lascia Pietro, uomo per bene e padre affettuoso, per Nino, personaggio inaffidabile, e perché non si accontenta della vita tranquilla e della stabilità fornite dal matrimonio con Pietro. Peccato che questa vita tranquilla sia di fatto una prigione in cui Elena non può scegliere per sé (basti pensare alla discussione vana in cui tenta di ottenere da Pietro il permesso per prendere la pillola contraccettiva) e non può più dedicarsi alla sua professione di scrittrice. Elena esce invece da questa rappresentazione come un personaggio tiepido e sgradevole, anziché come una vittima con cui il pubblico (soprattutto femminile) dovrebbe empatizzare. Se nel romanzo Pietro si divide tra atteggiamenti paternalistici e umilianti che conducono sua moglie a perdere completamente la stima di sé o la fiducia nelle proprie capacità, la serie tv finisce invece per vittimizzare lui, che appare come marito fondamentalmente buono, vittima di una moglie ingrata e traditrice incapace di sacrificio femminile.

Inoltre, come ha sottolineato Isabella Pinto (che ha dedicato all’opera di Ferrante una monografia dal titolo Elena Ferrante. Poetiche e politiche della soggettività), la rappresentazione fuorviante dei personaggi stride completamente con una fedeltà quasi letterale al romanzo nella riproduzione delle singole battute, dietro cui si nasconde probabilmente il controllo dell’autrice stessa, che co-firma la sceneggiatura della serie. Le ragioni di Elena appaiono tuttavia depotenziate, il suo stesso personaggio è appiattito, e questo risulta problematico in quanto offre carta bianca agli spettatori della serie tv che non conoscono bene l’opera di Ferrante o non l’hanno proprio letta, nello scagliarsi contro Elena senza alcun approfondimento (cosa che appare evidente nei commenti sul web). A riprova di come, sottolinea Pinto, lo sguardo patriarcale non è solo degli uomini, ma è anche nostro, di tutte e tutti, e ci rende incapaci di empatizzare con Lenù, col suo essere un po’ persa, in balia del senso di inadeguatezza e del bisogno di approvazione, l’unica cosa che le è stata insegnata nel suo passaggio dall’ambiente rionale alla classe intellettuale borghese.

Sebbene la serie tv costituisca un prodotto sicuramente valido nel complesso, è fondamentale sottolineare anche questo aspetto perché ci ricorda la necessità di una rappresentazione femminile adeguata, in cui non vengano più normalizzate realtà come quella del “sacrificio” e la rinuncia alla propria identità in nome della famiglia e del suo preservamento.

Sara Nichiri

Sono una studentessa di Letterature, traduzione e critica letteraria presso l'Università di Trento. Mi piace leggere e condividere riflessioni, amo la musica e mi interesso anche di attualità, femminismo e sostenibilità.

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