Caso Abramovich – L’Occidente alle prese con i suoi scheletri nell’armadio

È una vera e propria bufera quella che sta travolgendo il Chelsea Football Club, società di calcio londinese, campione d’Europa e del mondo in carica. Da diciannove anni sotto proprietà del miliardario oligarca russo Roman Arkadievich Abramovich, è riuscita a raggiungere negli ultimi due decenni risultati senza precedenti per la storia del club, conquistando cinque titoli nazionali inglesi e due Champions League. Ma il sogno dei Blues sembra essere arrivato al capolinea: con lo scoppio della guerra russo-ucraina, il governo inglese, sulla linea delle sanzioni condivisa da tutte le forze atlantiche, ha deciso di prendere di mira l’oligarca russo, congelando tutte le sue proprietà e le azioni nel territorio inglese, Chelsea davanti a tutti

I risultati non si sono fatti attendere: causa le sanzioni, la società di Abramovich è stata a tutti gli effetti bloccata: non può fare mosse di calciomercato, rinnovare contratti e vendere biglietti. L’obiettivo delle sanzioni ovviamente è quello di mettere alle strette l’élite russa di cui Abramovich fa parte, nella speranza che gli oligarchi facciano pressione a Putin perché cessi il conflitto. Si potrebbe aprire un dibattito infinito sul tema delle sanzioni, sulla loro legittimità ma soprattutto sulla loro funzionalità, e a questo proposito invito tutti ad andare a leggere l’articolo del nostro collega, nonché tesoriere de l’Universitario, Aldo Carano. Quello su cui vorrei piuttosto provare a riflettere è l’enorme livello di ipocrisia dimostrato, in questo caso, dal governo inglese, che rischia di penalizzare più il personale tecnico e i tifosi del Chelsea che Roman Abramovich stesso.

Scusate è importato a qualcuno quando Abramovich ha acquistato il Chelsea? E con il Newcastle? I tifosi si sono preoccupati? Sapevamo da dove venissero quei soldi ma lo abbiamo accettato. Solo che ora non ci va bene e copriamo tutto con le sanzioni. L’errore è nostro, non del Chelsea. Ora dovremmo pensare di più“. Queste sono state le parole di Jürgen Klopp, allenatore tedesco del Liverpool Football Club, che pur condividendo al 100% le decisioni prese dal governo, evidenzia come la responsabilità sia prima di tutto di chi ha permesso diciannove anni fa ad un oligarca russo di mettere le mani su una squadra di calcio europea. E lo stesso ragionamento, ci ricorda Klopp, potrebbe essere applicato sul Newcastle, altra società inglese, posseduta da Mohammad Bin Salman, principe saudita accusato dall’ONU di essere il mandante dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, nonché capo di un paese che non pochi giorni fa ha raggiunto il record di ottantuno condanne a morte in un solo giorno.   

Ciò che emerge da questa analisi è di un sistema, quello occidentale, che predica in continuazione valori di libertà, uguaglianza e giustizia, ma che di fronte al dio denaro, è pronto ad aprire le proprie porte, per usare un gergo informale, a “cani e porci”. D’altronde chi segue e frequenta il mondo dello sport conosce molto bene il livello di falsità a cui le federazioni sportive possono arrivare: partite del cuore, fasce da capitano con la scritta “no racism”, appelli contro la guerra, tutti slogan che arrivati a questo punto viene da pensare che servano, più che altro, per coprire la triste realtà di un sistema non solo sportivo, ma anche politico e sociale, che sembra non credere più in ciò che dice. 

Ebbene è servita l’invasione dell’Ucraina per ricordarci chi è Vladimir Putin, e per ricordarci che i soldi di Abramovich vengono da un paese che da anni sopprime qualsiasi diritto civile. Ma soprattutto, è servita l’invasione dell’Ucraina per farci realizzare quanto la guerra possa essere terrificante. L’altro giorno il presidente americano Joe Biden ha definito Putin “criminale di guerra”, definizione verso la quale non mi sento certamente di dissentire, visto il curriculum del leader del Cremlino. Quello che però è intollerabile è sentire un’affermazione del genere dal presidente di un paese che con le guerre in Afghanistan e Iraq – quest’ultima votata nel 2003 dallo stesso Biden, allora senatore del Delaware – ha portato alla morte di migliaia di civili; ma probabilmente i paesi del medio oriente sono troppo lontani, sia geograficamente che politicamente, per avere un’effettiva percezione di quello che accade al loro interno.

È uno degli scherzi della Grande Storia: le sue sorprese a volte calpestano i nostri principi morali, offendono il nostro senso della giustizia. A voler raccontare la storia come uno scontro fra il Bene e il Male, con una morale esemplare, un finale edificante, si scivola nella caricatura e non si capisce nulla della realtà umana.” Questa citazione di Federico Rampini, tratta dal suo libro Fermare Pechino, rappresenta una perfetta analogia su come dovrebbe essere improntato il nostro approccio di giudizio di fronte alla storia delle relazioni internazionali, troppo spesso plasmata da verità scomode che si è preferito dimenticare, ma con le quali prima o poi arriva sempre il momento di fare i conti. 

Certamente sarebbe sbagliato giudicare la politica sulla base dei soli valori, perché – come ci ricorda del resto un gigante come Niccolò Machiavelli – le regole della politica sono differenti da quell’etica, e spesso sono richieste azioni che, ai nostri occhi, possono apparire controverse, ma che purtroppo si rivelano necessarie per il bene e la sicurezza dei nostri paesi; e con il senno del poi è sempre facile dire “Si sarebbe dovuto fare così!”. Possiamo anche accettare, quindi, che a volte vengano prese delle scelte, entro certi limiti, non troppo etiche – la pandemia più di tutte ce lo ha insegnato – ma solo se l’obiettivo finale è quello di costruire gradualmente una società che possa davvero incarnare quei valori di cui, fino ad ora, gran parte della classe politica si è solo riempita la bocca. 

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