«La fine dell’amore»: la libertà di parlare d’altro
Ricordo molto vividamente una scena della mia adolescenza. A una cena di famiglia, un parente di secondo o terzo grado che vedevo raramente mi rivolse uno sguardo e commentò divertito i miei grossi occhiali, poi accennò con un sorrisetto all’apparecchio per i denti e disse: “questo quando lo togliamo? Così i ragazzetti non ti guardano”. Sono sicura che a quattordici anni fossi già pienamente consapevole del fatto che lo sguardo maschile poteva costituire per me un elemento di grande validazione (o del suo contrario). Per questo motivo quelle parole mi ferirono enormemente, tanto più perché pronunciate da un uomo adulto, che evidentemente ne sapeva più di me su tutto, e ci aveva messo pochi minuti a capire una terribile verità: i ragazzi non mi guardavano. Ero una ragazzina brillante, riuscivo bene senza sforzo a scuola e in tante altre cose, avevo un carattere piacevole, eppure quelle parole, la consapevolezza che i ragazzi non mi avrebbero mai guardata perché non ero bella, per me bastavano a sancire la mia nullità.
Recentemente ho letto La fine dell’amore. Amare e scopare nel XXI secolo, di Tamara Tenenbaum. L’autrice, filosofa, insegnante e giornalista, sceglie di parlare dell’imperativo dell’amore romantico, come di qualcosa che grava sulla vita di tutti nella società occidentale, ma in particolare sulle donne. Si tratta di una verità lampante che, tuttavia, non avevo mai realizzato in maniera così approfondita prima.
Tenenbaum scrive: «La religione delle ragazze laiche che conobbi al liceo era l’amore», e in effetti è sempre stato così, probabilmente anche per me, seppure io tendessi a vivere le piccole quotidiane sofferenze di questa condizione in solitudine, nella certezza che nessuna le avrebbe capite, perché il problema senz’altro ero io. Come afferma l’autrice, «uno degli aspetti più sofisticati e perversi dell’oppressione delle donne è che violenza e piacere sono costantemente intrecciati nella nostra educazione, nella nostra socializzazione e nella nostra esperienza sessuale, per cui separarli diventa il lavoro di una vita». Di fatto, seppure essere costantemente sottoposte allo sguardo giudicante dei maschi costituisse una realtà opprimente, non potevamo fare a meno di auspicare di essere oggetto di quello stesso sguardo, cosa che ci rendeva incapaci di capire quando la libertà maschile sui nostri corpi diventava violenza. Soprattutto, ci rendeva progressivamente incapaci di attribuire valore a tutto ciò che facevamo o avremmo potuto fare al di fuori dell’impegno (che Tenenbaum definisce un vero e proprio lavoro, spesso estenuante) nel ricercare un partner, che avrebbe dato colore e validità a tutta la nostra esistenza, di per sé.
È dunque così che la ricerca di attenzione maschile diventa un obiettivo da perseguire con ogni sforzo, e l’eventuale insuccesso si trasforma in una colpa. La noncuranza risulta forse ancora più inammissibile: le ragazze che non si curano dell’opinione maschile, che non fanno nulla per rendersi attraenti sono fastidiose, antipatiche. E per quanto possiamo sviluppare la nostra consapevolezza di certi meccanismi, questi non smettono di perseguitarci in modo stringente. Inoltre, diventano tanto più invadenti e determinanti nell’era capitalistica, in quella che è di fatto una società di immagine, che impone l’esibizione di una vita ideale, per cui siamo esposte costantemente alla sfilata di vite apparentemente perfette, che fanno sembrare la nostra sbiadita e difettosa. Soprattutto, il presupposto che muove questa società risiede nell’idea che il nostro successo dipenda da noi, dai nostri sforzi e dalle nostre decisioni. Di conseguenza, una donna che non ha una relazione monogama è probabilmente manchevole, sarà giudicata in nome della sua (apparente) solitudine, e molto probabilmente incolperà sé stessa per la mancanza di un partner. Una donna che dà consigli di vita sentimentale non avendo una relazione è infatti considerata inaffidabile, come se la soltería costituisse la prova di un’inadeguatezza fondamentale, e non una scelta consapevole e ponderata, una condizione in cui vivere in pace. Come afferma Tenenbaum, se è vero che siamo meno sottoposte che in passato all’imperativo del sacrificio femminile per la famiglia, siamo senz’altro schiacciate da quello dello sforzo, del lavoro e soprattutto del merito, dinamiche che si fanno ancora più opprimenti nelle relazioni interpersonali. L’autrice si sofferma in particolare sul ruolo fondamentale della coppia nella definizione di una vita degna, e di come inseguirla diventi un lavoro enorme di cui non viene mai messa in discussione la necessità e soprattutto il modo in cui il suo carico si ripartisce in termini di genere.
La critica di Tenenbaum è semplice ma nient’affatto banale, e si riassume nel domandarsi perché, nell’esibizione delle nostre vite apparentemente ideali, realtà meravigliose come quella dell’amicizia o del tempo libero contino così poco nella definizione di una vita completa. Perché siamo anzi incoraggiate a trascurare le altre forme relazionali, nella spasmodica ricerca di un partner con cui legarci nella coppia monogama? Di fatto, citando Emily Witt, non ci sono nemmeno termini per definire le relazioni che abbiamo quando non abbiamo una relazione.
Tenenbaum si sofferma in particolare su un’analisi di come i nostri desideri e le nostre aspirazioni siano di fatto condizionati da fattori esterni, cosa di cui non siamo consapevoli fino in fondo («[…] eravamo convintissime, le mie amiche ed io, che se sceglievamo la monogamia e non altro era perché ci piaceva e non perché eravamo state educate così, o perché il mondo era organizzato in modo da rendere alcune opzioni materialmente più semplici e socialmente più apprezzate di altre»). Allo stesso modo in cui, quando curiamo ossessivamente il nostro aspetto e regoliamo i nostri comportamenti, non crediamo davvero di farlo cercando di aderire a delle aspettative sociali, che ricalcano il gusto e le preferenze maschili.
«Oggi poter spingersi a sognare qualcosa di più di essere magra e desiderata è un privilegio, un privilegio delle donne che accedono alle risorse politiche, economiche e sociali necessarie per credere che altri sogni siano davvero possibili, e non proibiti […]. Di questo bisogna riempire il mondo: di storie di donne che non amano né odiano i loro corpi, e che li accettano come sono in qualsiasi formato; di donne che abbiano la libertà, la vera libertà, di parlare d’altro».
Tenenbaum esorta quindi a seguire un “nuovo paradigma”, ovvero a scommettere su altri tipi di relazioni, scommettere sull’amicizia, su legami affettivi consensuali e seri che abbiano però una certa flessibilità, «in cui ci sia responsabilità ma anche comprensione».
Costruire comunità di amore e amicizia che siano protettive, solide, pur accettando la condizione precaria dell’esistenza e dei vincoli. […] Perché, cosa più importante, in fondo salvare la coppia non mi importa: con molto amore, molta amicizia, molta comunità e molta fortuna, forse ci salveremo tutte noi.