Guida all’ascolto
Quante volte ci è capitato di aprirci con qualcuno e non sentirci capiti? Parlarne ti farà stare meglio, ci dicono, e poi una volta che l’abbiamo fatto ci sentiamo ancora peggio. In questo In punta di piedi, allora, proveremo prima a dare tre fondamentali linee guida per essere ascoltatori migliori, poi cercheremo di capire come mai, a volte, il dialogo non funziona come vorremmo.
- Evitare interruzioni superflue
Iniziamo la nostra lista con un primo punto fondamentale: lasciar parlare. Del resto, la maggior parte delle volte in cui dobbiamo fare da ascoltatori non è per trovare una formula magica risolutiva, quanto per dare considerazione e supporto.
Un’interruzione può andare da un nostro commento ad una notifica sul cellulare e, per questo, è importante creare un ambiente che metta a proprio agio e faccia sentire al sicuro e importanti. Se abbiamo tanti impegni quel giorno, siamo nervosi o la nostra mente è focalizzata su tutt’altro, meglio rimandare e garantire disponibilità per un altro momento. Non basta esserci fisicamente – a meno che non sia solo per un abbraccio, che talvolta può essere sufficiente – se non siamo in grado di mettere in pausa qualsiasi cosa succeda nella nostra vita e sintonizzarci su quella del nostro interlocutore.
- Non tirare ad indovinare
Può capitare che ci venga sottoposto qualcosa di cui non sappiamo assolutamente niente: una malattia mentale o fisica, ad esempio, di cui non conosciamo le dinamiche né le effettive possibili soluzioni. In questo caso, l’unica e sola risposta è l’onestà: riconoscere di non avere nessuna esperienza in materia e, magari, informarsi in un secondo momento. Come abbiamo già detto, infatti, chi si rivolge a noi non cerca una consulenza psichiatrica o medica, ma ascolto ed empatia. Ricollegandoci al primo punto, quindi, la chiave è lasciare che la persona si prenda il suo tempo: se non trova le parole per esprimersi, ad esempio, concederle il tempo di trovarle invece che provare alla cieca a riempire il silenzio può essere un ottimo primo passo. Inoltre, questo atteggiamento può favorire la costruzione di uno spazio sicuro in cui c’è quel tempo per parlare e riflettere con calma che a volte tanto ci manca.
- Non sminuire
Il terzo punto riguarda il nostro momento nella conversazione: cosa dobbiamo dire quando l’altro ha finito di sfogarsi? Ebbene, anche qui non ci sono regole prestabilite e il tutto dipende dal livello di confidenza, l’argomento e le circostanze, ma c’è una cosa che in ogni caso dobbiamo assolutamente evitare: sminuire i problemi degli altri. Dire, ad esempio, ad un’anoressica che c’è gente che muore di fame o a qualcuno che soffre di binge eating che anche noi non riuscivamo a smettere di mangiare l’uovo di Pasqua, quindi un po’ li capiamo può essere estremamente dannoso. Il nostro interlocutore nella migliore delle ipotesi si sentirà offeso e incompreso e non si lascerà più andare con noi; nella peggiore, invece, si convincerà di non avere chissà quale grande problema e di non meritare l’aiuto che gli serve.
Insomma, non sempre, a fine discorso, ci viene in mente una brillante frase che cambia la prospettiva su tutto e va bene così. Se l’argomento ci è del tutto nuovo, può essere più che sufficiente riconoscere l’esistenza di quel malessere e confermare la nostra disponibilità a dare ascolto le prossime volte. Un vero buon amico o partner non sempre ti capisce, ma in ogni occasione ti rispetta e ti vuole bene genuinamente standoti accanto con gli strumenti che ha.
Quando invece siamo noi a sfogarci con qualcuno e, a fine conversazione, non siamo travolti dal benessere che speravamo, dove dovremmo rivolgere il nostro biasimo? Una direzione molto comune ha a che fare con l’interlocutore che abbiamo scelto: quanto è sensibile? Quanto bene ci conosce? Se si tratta di qualcuno che non ha la delicatezza emotiva di cui abbiamo bisogno può forse essere che ci siamo rivolti alla persona sbagliata; per non parlare del fatto che, quando soffriamo, può a volte emergere una tendenza all’autosabotaggio che ci spinge a lasciarci andare con qualcuno che sappiamo già non sarà in grado di darci quello di cui abbiamo bisogno.
Un’altra delle caratteristiche principali di un buon ascoltatore è infatti la profondità. Le persone migliori a cui rivolgersi sono quelle che, una volta finito il tuo racconto, non parlano di sé e non sviliscono – con malizia o meno purtroppo la differenza non è così tanta – le tue emozioni, ma ti aiutano ad approfondirle: innanzitutto ti concedono uno spazio sicuro e privo di giudizio in cui aprirti e, poi, ti stimolano a parlare in modo semplice ed empatico. Chiedere Come ti ha fatto sentire? Perché questo ti fa stare così secondo te? A cosa hai pensato? sono tutte domande appropriate, perché la loro genericità permette a chi deve rispondere di approfondire fin quanto se la sentono e a noi di avere più “materiale” su cui elaborare un suggerimento adeguato.
In generale e per tutelarsi, infine, quello che è importante tenere a mente è che se sentiamo la necessità di condividere un nostro peso con qualcuno, questo è reale. Mettere le proprie fragilità nelle mani degli altri è sempre un’arma a doppio taglio: se, una volta lasciate andare, non vengono trattate bene, ogni sminuimento a loro può influenzare anche la nostra percezione sulla situazione. É quindi bene non dimenticare che il nostro problema merita attenzione a prescindere dal modo in cui gli altri lo recepiscono. Se non troviamo comprensione da qualcuno possiamo sempre ritentare, magari con un altro collega o un professionista del settore.
La capacità di ascoltare è la chiave di quel legame emotivo profondo di cui tutti in fondo sentiamo, umanamente, il bisogno e coltivarla, dopotutto, non è tanto difficile: imparare a stare in silenzio e a mettersi da parte per un momento, concedendo all’altro pieno spazio può dare davvero sollievo all’altra persona e può regalare a noi quel senso di completezza e adeguatezza nel mondo proprio delle interazioni più profonde.