Il limbo dei non malati abbastanza

Le feste sono finite da poco e non deve essere stato facile, per chi affronta o non ha risolto del tutto problemi alimentari, stare seduti a tavola, siano questi disagi mai diventati effettivi disturbi o rimasti comportamenti intermittenti. Questo episodio di In punta di piedi è allora dedicato a tutti coloro che si trovano nel limbo dei “non malati abbastanza per un’etichetta”, alla loro lotta silenziosa e al modo in cui possono essere aiutati.

Abbiamo già parlato dei DCA (Disturbi del Comportamento Alimentare) più diffusi e accennato all’esistenza di altri come, ad esempio, il picacismo (l’ingerimento di cose non commestibili) o la sindrome di ruminazione, che riguarda masticazione e rigurgito di ogni boccone. Non ci siamo ancora soffermati, però, su chi convive con sintomatologie evidenti di alcuni di questi, in un modo che forse non è sufficiente per una diagnosi semplice e preconfezionata, ma che lo è per paralizzare intere sfere della vita come quella sessuale, relazionale o professionale. Vediamo allora due delle più significative. 

Partiamo con una delle più classiche: l’odio verso la propria forma fisica. Per quanto possa tentare l’idea che detestare il corpo che ci ospita (o che solo ci rappresenta, a seconda di come interpretiamo la vita) sia ottimo per perseverare con dieta e palestra, ci sono anche altre conseguenze da considerare. Disprezzarlo può forse “aiutarci” a farlo rimpicciolire, ma ci farà stare bene a lungo termine? Oppure vincolerà solo autostima e benessere al numero sulla bilancia? Al diametro di cosce e braccia? 

Insomma, di nuovo: voler dimagrire va bene, così come controllare ciò che mangiamo. Quello che spesso sfugge, però, è che questi (anche solo per avere un successo esteso nel tempo) dovrebbero essere atti d’amore verso se stessi, non torture alimentate dal disprezzo per come siamo ora, nel presente, che in fin dei conti è tutto ciò che abbiamo davvero. Questo svilimento significa anche, spesso, non concedersi momenti felici, uscite in spiaggia o rapporti sessuali, ad esempio, inibiti dall’idea di non essere attraenti, di non poter essere ritenuti belli. Il tutto può poi anche manifestarsi come bassa autostima che, demoralizzandoci e facendoci accettare situazioni ingiuste, è problematica tanto all’università quanto con amici e familiari.

Un secondo sintomo abbastanza generico è il senso di colpa, legato spesso all’ingerimento di qualcosa visto come un guilty pleasure che “fa ingrassare” o, eventualmente, anche solo alla sensazione di pienezza in generale. Qualunque cibo abbiamo buttato giù, percepirlo nel nostro corpo ci fa sentire sbagliati; odiamo il gonfiore addominale, anche se non è doloroso, perché ci rende molto meno attraenti; pensiamo al malessere dell’estate passata e ci arrabbiamo perché, a quanto pare, neanche il ricordo di quel disagio paralizzante riesce a farci mangiare meno; escogitiamo nuovi piani alimentari per arginare i danni fatti e ci forziamo anche a digiunare la mattina successiva, nonostante poi – naturalmente! – mangeremo il doppio a pranzo e ci troveremo ancora in questo loop.

Se si ha a che fare con queste sensazioni, vediamo brevemente due possibili fonti d’aiuto

  1. Parlarne, ma non con tutti

Come è risaputo, fuori dalla nostra mente tutto assume un’altra dimensione, di solito più approcciabile: alla luce di questo, allora, vien da sé dedurre che condividere il nostro disagio possa aiutarci ad affrontarlo, ma è davvero così?

La risposta è sì, ma con delle accortezze. Mettendo da parte l’oversharing, di cui abbiamo già discusso e che è un caso più estremo, parlare con qualcuno è utile solo quando chi ascolta è sensibile ed empatico abbastanza da essere un porto sicuro. I genitori, così come un gruppo di amici, non sempre hanno gli strumenti per essere un vero supporto e, infatti, possono commentare o reagire sminuendo il nostro dolore e facendoci chiudere a riccio o talvolta vergognare. Addirittura a volte, di tutta risposta, ci arriva anche la storia della cugina x quasi morta di fame o della cena che anche loro saltano di tanto in tanto e che, quindi, gli permette di capirci perfettamente. Insomma, è bene cercare qualcuno che sappia ascoltare più che commentare e, se proprio aprirci ci disturba o pensiamo di non avere nessuno con cui farlo, vale la pena tenere un diario, che è una utilissima valvola di sfogo. 

  1. Vedere uno psicologo

In questa rubrica abbiamo parlato in varie occasioni sia dei benefici della terapia, sia di come approcciarvisi. Oggi, quindi, ci soffermiamo solo a ricordare che è uno dei posti più sicuri in cui lasciarsi andare, perché le mani che ci accolgono sono allenate ed istruite proprio per ricevere le nostre difficoltà e permetterci di superarle. 

Insomma, il concetto chiave di questo articolo è tirare fuori la sofferenza, non perché farlo la rimpicciolirà – e quindi ci renderemo conto che ecco, vedi, io non ho davvero un problema –, ma perché ci permetterà di conoscerla per com’è veramente: tanto complessa e vera quanto affrontabile. Vale la pena sottolineare, infine, che sentire bisogno d’aiuto è un motivo sufficiente per cercarlo e che lo meritiamo anche se il nostro dolore non è associato al nome ridondante di un male terribile. Forse non rientriamo nell’etichetta binge eating o anoressia, per dire, ma siamo sempre e comunque sotto quella di chi merita supporto se ne sente la necessità, qualunque sia il suo problema.

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