DIRITTO ALL’ABORTO: ESPRESSIONE DELLA PARITA’ DI GENERE
Il 24 giugno la Corte Suprema degli Stati Uniti ha eliminato il diritto all’aborto a livello federale, con una sentenza che ribalta la storica decisione che dal 1973 garantiva l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza su tutto il territorio nazionale statunitense, conosciuta come sentenza “Roe vs Wade”. Questo significa che, d’ora in avanti, ogni singolo Stato americano potrà decidere di adottare la legislazione che preferisce, senza vincoli a livello federale.
Venuta a conoscenza della notizia, devo ammettere che subito non mi sono parsi chiari alcuni punti, oltre al fatto che stento un po’ a credere che certi argomenti possano colorare il dibattito internazionale del ventunesimo secolo. Come ogni volta, colma di notizie, dati, considerazioni e dopo aver indagato sul come e perché lo Stato federale americano può arrivare a penetrare così incisivamente, arbitrariamente, nelle scelte di una donna, mi sono fermata a riflettere su che piega dare all’articolo. Ammetto che forse sono di parte o forse semplicemente posso portare il punto di vista di chi è il genere destinatario diretto di questa decisione; tuttavia, mossa da un sentimento di solidarietà verso le donne americane, devo confessare che un forte senso di fastidio e rabbia mi pervade ora, così come ogni qualvolta qualcuno prova, e ci riesce, a scavalcare la mia volontà per decidere al posto mio su ciò che mi riguarda, come persona e poi soprattutto come donna, in quanto tale bisognosa di specifici diritti.
L’argomento dell’interruzione della gravidanza è molto complesso e delicato, in quanto tira in ballo i diritti fondamentali della persona e nonostante siano diverse le valutazioni che vengono fatte da una nazione all’altra, gli Stati più progressisti sono unanimi nel riconoscere tale diritto alla donna, con le eccezioni che ne conseguono.
Dunque, volendo andare oltre quanto riportato dai giornali su quali Stati stanno riconoscendo il ricorso a pratiche abortive come un crimine (tutti quelli conservatori) o sulle affermazioni dei giudici che compongono la Corte o ancora, sulle raccomandazioni del presidente d’America ai cittadini, preferisco soffermarmi su due importanti spunti di riflessione.
Il primo è il diritto alla privacy e vediamo subito perché.
La sentenza che è stata annullata riconosceva il diritto alla libertà di scelta su ciò che attiene alla sfera più intima dell’individuo, attraverso un’interpretazione non nuova del XIV Emendamento, quello che fu approvato con lo scopo di garantire i diritti degli ex schiavi e ratificato nel 1868.
Dunque, la decisione Roe vs Wade (quella annullata), da tale interpretazione, ha inteso affermare che il diritto alla privacy personale, ai sensi della Costituzione degli Stati Uniti, fosse in grado di proteggere la capacità di una donna di interrompere la gravidanza.
È evidente per me qui la prima lacuna: un diritto come quello di cui si discute necessita una tutela più solida e centrata.
Tale sentenza infatti, fino a prima del 24 Giugno era addirittura intesa come pietra miliare della giurisprudenza americana in tema di aborto! Per quanto utile sia stata e per quanto abbia potuto rappresentare un grande passo in avanti, non basta. Infatti, in tale decisione, si è preteso di tutelare il diritto all’aborto partendo dal diritto alla privacy (in cui gli interessi coinvolti sono ben diversi) che per di più proviene dall’interpretazione, a maglie larghe, di un vecchio emendamento pensato per la tutela degli ex schiavi.
La tutela effettiva del diritto all’aborto è espressione della seria volontà di uno Stato di impegnarsi concretamente nella lotta per la parità di genere. Affinché una donna possa essere considerata su di un piano di uguaglianza rispetto al genere maschile, necessita pure di una tutela ulteriore che le permetta di poter decidere autonomamente la strada più giusta per sé stessa e per il proprio futuro, considerando una serie di fattori.
Dunque, era inevitabile e c’era da aspettarselo che una corte suprema a maggioranza conservatrice un giorno avrebbe ribaltato tale “diritto”. Per garantire la loro longevità, i diritti riproduttivi delle donne dovevano essere codificati dai legislatori americani sulla base della discriminazione sessuale.
Il secondo punto si ricollega al primo.
Si denotano infatti, elevati livelli di inerzia negli altri due rami del governo, la presidenza e il Congresso, i quali hanno conferito potere ad una minoranza religiosa evangelica quando i Democratici avrebbero dovuto impiegare maggiori energie per proteggere la posizione di maggioranza, che c’è, sull’aborto.
Sia l’amministrazione Clinton che quella Obama non si sono concretamente impegnati nel farne una priorità, nonostante i piani e le promesse di Obama dicevano tutt’altro prima della sua elezione. I diritti delle donne sono stati così bloccati, e appesi a un filo giudiziario che prima o poi si sarebbe spezzato. E i democratici sono stati molto meno strategici delle controparti di destra che hanno saputo usare la costituzione, vecchia e difficilmente emendabile, a proprio vantaggio; il risultato è una corte suprema che può imporre le sue opinioni politiche di minoranza ad un paese e ancora per molto.
Volendo tirare le fila del discorso, ciò che mi ha fatto riflettere è, da un alto, il fatto che in America per realizzare il cambiamento sociale bisogna fare affidamento all’attivismo giudiziario, piuttosto che al consenso democratico attorno ad esso. Dall’altro, il fatto che i sistemi riproduttivi, nella grande maggioranza, sono espressione di una forte ingerenza patriarcale e che l’uguaglianza non potrà essere raggiunta senza riconoscere prima che le donne sono una classe sessuale bisognosa di diritti specifici, all’aborto per esempio, del tutto al di fuori di quelli riconosciuti agli uomini.