Guerra russo-ucraina – Le origini profonde del dibattito
Dal 24 febbraio a questa parte, con l’inizio dell’invasione dell’Ucraina ad opera della Russia, siamo stati giornalmente esposti attraverso qualsiasi mezzo di comunicazione – dalle televisioni fino ai social media – ad un incessante dibattito relativo alle origini del conflitto, alle responsabilità da attribuire – non solo all’aggressore e all’aggredito, ma anche ad attori esterni come l’Alleanza Atlantica -, alle possibili strategie da mettere in campo per la risoluzione della controversia nonché a giudizi e opinioni circa ciò che si è svolto fino ad oggi. In particolare, se ci soffermiamo sul dibattito che si sta svolgendo in Italia, è impossibile non notare come il nucleo centrale del discorso non si soffermi tanto su ciò che sta effettivamente accadendo sul territorio ucraino, ma piuttosto si è preferito spostare il dibattito sul ruolo che Nato ed Unione Europea stanno interpretando come attore terzo del conflitto in atto.
Di fronte alle questioni come il sostegno o meno al paese aggredito – attraverso l’invio delle armi in Ucraina e un pacchetto di sanzioni rivolte alla Russia – il dibattito si è tendenzialmente diviso intorno a due blocchi che, in una maniera molto approssimativa ma che ci permette di classificare i due schieramenti, chiameremo “blocco interventista” e “blocco pacifista”. Il primo sostiene fortemente la strategia che i governi occidentali, capeggiati dagli Stati Uniti, hanno messo in campo, attraverso un corposo invio di armi – che il presidente Zelensky ha definito “il vaccino contro l’invasione russa” – e un pacchetto di sanzioni rivolte particolarmente agli oligarchi russi, gli unici che possono davvero disincentivare Putin dal continuare questa guerra. Il secondo, invece, critica pesantemente l’azione degli alleati atlantici, e talvolta dello stesso Zelensky; l’idea di fondo è che questo radicale atteggiamento filo-ucraino e anti-russo non faccia altro che alimentare un conflitto che ha già visto fin troppe vittime, nonché danneggiare l’economia di un’ Europa che a fatica si stava risollevando dalla crisi pandemica. L’obiettivo deve essere il dialogo fra le parti e la pace.
Ma quali sono le vere origini di questi due schieramenti? Sono nati in occasione dello scoppio della guerra o portano dietro fratture della società molto più complesse e profonde? Ritengo che sia possibile individuare due lenti di ingrandimento per comprendere l’origine di questa contrapposizione così forte, tale che sembra non trovare punti di incontro. La prima questione contrappone ciò che Max Weber individuava come i valori de “l’etica dei principi” contro quelli de “l’etica della responsabilità”; la seconda questione invece fa riferimento al livello di gradimento che ognuno di noi nutre nei confronti della Nato e in generale dei governi occidentali. Ma andiamo con ordine.
Secondo il sociologo Max Weber la nostra condotta può essere influenzata dalle due etiche, tra di loro antitetiche, dei “principi” e della “responsabilità”. La prima è propria di colui che lotta e agisce sulla sola base di quelli che sono i valori in cui crede, e che è disposto ad accettarne le conseguenze anche qualora queste non siano a suo favore. La seconda invece appartiene a coloro che nelle loro azioni tengono conto in primo luogo delle conseguenze che queste possono avere sulla società, anteponendo dunque la sicurezza collettiva ai propri valori e ideali. Queste due variabili entrano in gioco nel dibattito innescato con lo scoppio della guerra in Ucraina, ed è facile capire il loro posizionamento: gli interventisti ragionano in un’ottica di etica dei principi, mentre i pacifisti in un’ottica di etica della responsabilità.
“La stabilità è il principio ultimo dell’umanità? Vogliamo un’umanità oppressa, schiavizzata, massacrata, ma stabile? E’ questo il sogno dell’umanità? Supponiamo che la Libia sarebbe stata più stabile con Gheddafi, c’erano talmente tali torture e carneficine… francamente la stabilità sarebbe stato un prezzo troppo caro”. Questa è stata la risposta del filosofo e reporter francese Bernard Henri Lévy alla domanda di Bruno Vespa, nel corso di un’intervista a Porta a Porta, che gli chiese se la Libia sarebbe stata più stabile senza l’intervento militare di Stati Uniti e Francia e con Gheddafi al potere. Lévy ci fa comprendere come, dal suo punto di vista, nessuna forma di pace o stabilità vale quanto quei valori universali di libertà e giustizia tanto cari a noi Occidentali. Non a caso, in occasione della guerra appena scoppiata, Lévy si è schierato a spada tratta a favore della Resistenza ucraina, sostenendo sia le sanzioni che l’invio delle armi: “Gli Ucraini preferiscono morire piuttosto che vivere sotto il totalitarismo russo” dice Lévy in un intervento a Mezz’ora in Più.
Sull’onda dell’etica della responsabilità, invece, si è apertamente schierato l’ormai noto professore di sociologia del terrorismo della LUISS Alessandro Orsini, che dallo scoppio della guerra è diventato il punto di riferimento del blocco pacifista per le sue pesanti critiche nei confronti dei governi occidentali e della Nato. Hanno fatto molto discutere le sue dichiarazioni a Cartabianca “Io non ragiono in un’ottica politica, ma umanitaria, quindi io preferisco che i bambini vivano in una dittatura piuttosto che muoiono sotto le bombe in nome della democrazia… per me la vita umana è più importante anche della democrazia e della libertà”. Nel suo ultimo libro “Ucraina, critica della politica internazionale” Orsini si rivolge al lettore cercando soprattutto di rispondere a tutte le critiche di “filo-putinismo” che gli sono state mosse in questi mesi, e che gli sono costate attacchi personali e censure. Egli spiega che il suo obiettivo, in quanto professore e studioso, sia quello della ricerca della pace, valore a lui più caro, e che gli attacchi a lui rivolti non sono altro che il risultato di una manipolazione dell’informazione e di una scarsissima cultura della sicurezza internazionale in Italia.
Principi contro responsabilità; libertà contro stabilità; resistenza contro pace; nello scegliere da quale parte schierarsi ci troviamo inevitabilmente di fronte a questi dilemmi che, al momento, sembrano completamente antitetici, senza possibilità d’incontro.
L’altro nocciolo del dibattito, che ha trovato ampio spazio in questi mesi, è la questione relativa al gradimento politico nei confronti dell’Alleanza Atlantica, nonché al rapporto tra atlantismo ed europeismo. Da anni a questa parte sono nati, in Europa e negli Stati Uniti, nuovi sistemi di pensiero che tendono a rivalutare e mettere in discussione la nostra intera storia occidentale, spesso macchiata da verità scomode che si è preferito nascondere.
Ne parla molto bene Federico Rampini nel suo ultimo libro “Suicidio Occidentale”: “Se un attacco nel cuore dell’Europa ci ha colto impreparati, è perché eravamo impegnati nella nostra autodistruzione. Il disarmo strategico dell’Occidente era stato preceduto da anni da un disarmo culturale. L’ideologia dominante, diffusa dalle élite, ci impone di demolire ogni autostima, colpevolizzarci, flagellarci. Questo è il suicidio occidentale. L’aggressione di Putin è anche la conseguenza di questo: gli autocrati delle nuove potenze imperiali sanno che ci sabotiamo da soli”.
In Italia il principale esponente di questa corrente anti-atlantista è l’ex parlamentare del Movimento 5 Stelle Alessandro Di Battista, che da anni si dice oppositore politico delle politiche occidentali, e ha sostenuto a più riprese che atlantismo ed europeismo non sono sinonimi, che gli interessi nostri in quanto europei non sono gli stessi di Washington. Di Battista si scaglia continuamente contro i crimini di guerra commessi dall’Occidente, come l’invasione americana dell’Iraq del 2003, definita dalla gran parte dell’opinione pubblica come un atto criminale, per nulla diverso dall’invasione dell’Ucraina attuata da Vladimir Putin.
Ne consegue dunque che Di Battista, assieme a molti altri oppositori delle politiche occidentali della storia recente, vedono di cattivo occhio la risposta che i governi atlantici hanno dato all’invasione di Putin. Una delle accuse principali, condivisa e sostenuta anche da Alessandro Orsini, è che soprattutto il governo Draghi abbia abbassato fin troppo la testa di fronte alle richieste dell’amministrazione Biden, la quale, secondo molti pacifisti, ha tutto l’interesse a che la guerra continui. La strategia americana sarebbe, prima di tutto, quella di dare una stangata alle relazioni economico-commerciali tra l’Europa e la Russia, e in secondo luogo, quella di sfruttare la guerra in atto per delegittimare il governo di Putin in Russia.
Di fronte a queste accuse e al revisionismo storico nei confronti dell’Occidente – in particolar modo degli Stati Uniti – non è mancato chi ne ha preso le difese. Lo stesso Federico Rampini nel suo libro parla con biasimo delle nuove ideologie anti occidentali che si sono venute a formare, colpevoli più che altro di guardare alla storia della nostra civiltà con una lente puntata solo sugli aspetti più controversi, ignorando i secoli di conquiste civili e sociali che in Occidente hanno visto la loro massima fioritura. L’errore sarebbe quindi quello di vedere le vergogne dell’Occidente non come degli aspetti patologici, ma fisiologici. Nella pagina finale del suo libro, Rampini cita la storia di Roya Hakakian, ragazza iraniana che, una volta emigrata negli Stati Uniti, racconta dell’entusiasmo di trovarsi in una civiltà dove, contrariamente all’Iran, le donne hanno conquistato tanti diritti: “Nel costume, nella vita di tutti i giorni, respira a pieni polmoni ciò di cui non ci rendiamo conto. La libertà.” E conclude: “Vorrei che (noi occidentali) sentissimo un centesimo di quel che provano i popoli a cui i nostri valori sono proibiti”.
E in merito alla guerra in corso, sempre Federico Rampini, schierato a favore della Resistenza ucraina, ha ingaggiato un durissimo scontro a l’Aria che tira con Marco Tarquinio, direttore dell’Avvenire, che, secondo Rampini, ha messo sullo stesso piano le sanzioni economiche con i bombardamenti: “Ma stiamo scherzando? Questa è un’offesa vergognosa alle madri dei bambini uccisi… lo dica alle popolazioni civili massacrate… questo è il suicidio dell’Occidente, che siamo pieni di gente che non vuole aprire gli occhi davanti al vero pericolo”. Un Rampini dunque che, a discapito di quello che è stato il suo passato comunista come editore del Manifesto, anche nel corso della guerra in Ucraina continua a denunciare questa ossessiva e perversa demonizzazione di quella culla, quella civiltà, che fino a ieri chiamavamo orgogliosamente “casa”.