L’Odissea e il ‘dolore del ritorno’: di nostalgia si muore, di nostalgia si vive
di Luca Valle Salazar
All’inizio della sua storia, la parola ‘nostalgia’ indicava una malattia della psiche. Sebbene sia composto da due parole greche, nostos (νόστος) e algos (ἄλγος), il ‘ritorno’ e il ‘dolore’, il termine era sconosciuto ai Greci nell’antichità. Fu coniato infatti nel Seicento da uno studente di medicina, Johannes Hofer, per descrivere il male che colpiva i mercenari svizzeri in servizio in Francia e in Italia, lontani dalle loro case e dai loro pascoli.[i] Dopo aver trascorso un po’ di tempo nelle vesti di una patologia, la parola entrò nel linguaggio letterario sentimentale, e così perse quell’accezione prettamente tecnica, medica, con cui era nato, e si mescolò con le varie sfumature della malinconia.
Si può provare nostalgia per i luoghi, e in particolare per la propria casa o la propria patria. Molte lingue germaniche hanno un termine specifico per questo tipo di nostalgia: homesickness in inglese, Heimweh in tedesco, heimwee in olandese; «ma è una riduzione spaziale di questa grande nozione», come osserva Milan Kundera ne L’ignoranza, un romanzo breve dedicato alla nostalgia.[ii] Se si chiede a un migrante costretto a viaggiare per necessità che cosa gli manchi di più della patria, probabilmente la prima risposta che gli verrà in mente sarà: «La famiglia». I luoghi spesso fanno da contenitori di una sostanza più pregnante nell’immaginario malinconico, cioè i momenti vissuti, le azioni, le parole che costituiscono i ricordi. Desiderio di ritornare non a un luogo per il luogo in sé, ma dalle persone che vi abitano. Desiderio di colmare la loro assenza.
Nella letteratura e nel cinema moderni si conoscono molte forme di nostalgia, spesso per oggetti astratti. Un esempio è la famosa ‘nostalgia di tempi mai vissuti’ (o ‘sindrome dell’età dell’oro’), che troviamo nel film Midnight in Paris di Woody Allen (2011). Agli albori della letteratura occidentale, però, i sentimenti erano sempre legati a una concretezza determinata. Si poteva sentire la mancanza di cose e parole dette, di case e persone amate. E nell’Odissea, il poema del ritorno, il lettore moderno può trovare la nostalgia sparsa un po’ dappertutto. Omero ovviamente non conosce la parola ‘nostalgia’, ma questo sentimento, che percorre estensivamente l’opera, si trova espresso in altri termini, come pothos (πόθος), il desiderio di qualcosa (o qualcuno) che è assente o che si è perso.
Ma come si presenta concretamente questo sentimento? Quali effetti ha sulle persone? Dato che quello omerico è un mondo che si esprime attraverso la concretezza dell’esperienza umana, è interessante osservare gli effetti che il sentimento può avere sui comportamenti dei personaggi. Diciamo che nell’Odissea si hanno almeno tre modi molto diversi di reagire alla nostalgia: l’abbandono, la negazione e lo stimolo all’azione. Vediamoli meglio.
Innanzitutto – per riprendere la metafora medica – la nostalgia può avere degli effetti nocivi su coloro che ne sono affetti, portandoli alla malinconia, alla depressione e, in casi estremi, alla morte. Chi la prova può non avere le difese immunitarie pronte, e non riuscire quindi a contrastarla, finendo per esservi consumato. Questo è il caso di certi personaggi che si abbandonano al dolore nostalgico, come Laerte, il padre di Odisseo. Nel lungo viaggio di ritorno a Itaca da Troia, infatti, Odisseo si spinge fino all’Oltretomba allo scopo di interrogare il fantasma dell’indovino Tiresia sul proprio futuro e sul ritorno. Lì incontra anche lo spirito della madre, Anticlea, a cui chiede come sia morta e come sia la situazione a casa. Anticlea risponde in ordine inverso alle sue domande, strutturando il suo discorso in modo che il pathos cresca progressivamente fino a un culmine emotivo che farà scoppiare in lacrime Odisseo. Prima, cioè, gli parla di Itaca: Penelope resiste, ma non se la passa bene. Il figlio, Telemaco, è cresciuto ormai e partecipa alla vita sociale di Itaca. Il padre Laerte, invece, vive in condizioni pietose: «Tuo padre», dice Anticlea, «se ne sta in campagna e non scende in città, né ha letti, coperte e splendide lenzuola, ma d’inverno dorme nella casa, là dove stanno gli schiavi, nella cenere vicino al fuoco, e indossa vesti scadenti di pelle. E quando poi arrivano l’estate e la stagione dei raccolti, dappertutto son sparse per lui come letti le foglie cadute sul suolo, in ogni pendio del suo vigneto. Là si corica quello, afflitto, e una grande tristezza gli pervade la mente, mentre piange la tua sorte; un’aspra vecchiaia avanza per lui» (Odissea 11, 187-196).[iii] Laerte, preso dalla nostalgia, ha perso il contatto con se stesso e con la sua vita. La tristezza lo porta a non curarsi delle sue condizioni materiali e psicologiche. Uno psicologo oggi parlerebbe forse di depressione. Laerte si è arreso alla nostalgia, che lo consuma pian piano e lo avvicina alla morte.
Il padre di Odisseo non è l’unico ad essersi arreso, consumato dal sentimento. Anche Anticlea ha vissuto la stessa esperienza, ma ancora più accentuata. E infatti, subito dopo, la madre defunta dice al figlio: «Così anch’io sono morta, andando incontro al mio destino. Non mi uccise in casa la dea dalle infallibili saette, colpendomi coi suoi dolci dardi, né mi prese una malattia, di quelle che sciupano la forza delle membra di un’odiosa consunzione; ma la nostalgia di te, splendido Odisseo, dei tuoi consigli e della tua gentilezza mi portò via la dolce vita» (Odissea 11, 197-203). Sos pothos, ‘il desiderio di te’ o ‘la tua mancanza’, letteralmente, è il male che toglie la vita ad Anticlea. Non la serena morte della vecchiaia (simboleggiata dalle frecce di Artemide, la ‘dea dalle infallibili saette’), non una malattia violenta, ma la nostalgia è la causa del decesso. Laerte e Anticlea, i genitori di Odisseo, si abbandonano, si arrendono, non riescono a superare il dolore della mancanza del figlio.
Ad Itaca, però, altri personaggi affrontano la mancanza in modo diverso. Qualcuno non vi soccombe, ma decide di reprimere il dolore negando a parole la possibilità del ritorno. Non si tratta della vera perdita della speranza, ma di un rimedio che lenisce il male provocato dalla mancanza. La nostalgia non scompare, e il desiderio di rivedere ciò che è assente rimane, ma si preferisce non esprimerlo a parole. Sembra meglio cercare di convincersi che il ritorno sia impossibile, che Odisseo sia morto, e quindi farsi coraggio e andare avanti, ‘voltare pagina’. E così Telemaco, quando va a Sparta a chiedere notizie del padre a Menelao, reagisce in questo modo di fronte ai racconti malinconici del compagno d’armi di Odisseo. Menelao racconta alcuni momenti salienti della guerra sotto le mura di Troia, quando combattevano insieme e condividevano le difficoltà, e quanto il padre fosse valoroso e abile. Ma Telemaco, preso dalla tristezza al ricordo di Odisseo, reagisce rispondendo in modo secco e inaspettato al racconto: «Menelao… che tristezza. Tutto questo non servì a risparmiarlo da una miserevole morte, neanche se il suo cuore era di ferro» (Odissea 4, 291-293). Telemaco non lascia spazio alla possibilità che suo padre sia ancora vivo, la nega giudiziosamente. Ma Telemaco è andato fino a Sparta proprio per avere notizie del padre; perciò, evidentemente, ancora crede e spera nel suo ritorno.
Simile è la reazione di un altro personaggio vicino a Odisseo, il suo fedele porcaro. Eumeo è cresciuto insieme al padrone, e lo ricorda non solo con la devozione di un sottoposto, ma anche con un affetto quasi fraterno. Quando Odisseo finalmente torna a Itaca travestito, per prudenza, da girovago straccione e si presenta a Eumeo, i due intavolano una conversazione. Il finto mendicante più volte metterà alla prova la lealtà del porcaro, e cercherà di convincerlo che il padrone è ormai vicino e ritornerà. Ma Eumeo, proprio come Telemaco, più volte lo negherà, parlando di Odisseo come di un uomo ormai morto. Quando il mendicante racconta la sua finta storia, su come è arrivato lì e, nel viaggio, ha saputo che Odisseo è vicino, Eumeo gli risponde: «Ah! Disgraziato… mi hai commosso il cuore coi tuoi racconti. Quanto hai sofferto e vagato! Ma non l’hai raccontata bene, mi pare, e non mi hai convinto quando hai parlato di Odisseo. Che bisogno ha di mentire uno come te?» (Odissea 14, 361-365). Eumeo ha creduto a tutta la storia (falsa) di Odisseo, tranne a quella piccola parte che riguardava il ritorno del padrone (l’unica vera). Anche in questo caso, la negazione fa da barriera protettiva.
La vicenda prosegue, e a un certo punto Eumeo e il mendicante arrivano davanti alla casa del padrone. Davanti alla porta sta Argo, il cane ormai vecchio e trascurato di Odisseo. Argo lo riconosce appena lo vede, si mette a scodinzolare e piega le orecchie per lui, ma non ha più la forza di alzarsi e avvicinarsi. A Odisseo scende una lacrima, che lui si cura bene di nascondere per chiedere a Eumeo di chi sia il cane, così bello ma così debole. Il porcaro risponde subito: «Questo è il cane di un uomo morto lontano…» (Odissea 17, 312). Cane e padrone si scambiano un ultimo sguardo e poi, ci racconta il narratore, «il nero destino della morte raggiunse Argo, solo dopo che ebbe visto Odisseo dopo vent’anni» (Odissea 17, 326-327). Questa scena famosissima suggerisce due cose: Eumeo continua a negare ogni speranza, ma il cane Argo no. Dopo la partenza del padrone, il cane si era ridotto in uno stato pietoso, un po’ come il padre Laerte, ed era stato trascurato da tutti. E tuttavia aveva aspettato il momento del ritorno di Odisseo, e lasciò la vita solo alla vista di lui.
Ulisse riconosciuto dal suo cane, Pierre-Amédée Durand, 1810
Arriviamo così alla terza reazione di fronte alla nostalgia: non abbandono né negazione, ma accettazione e stimolo. Così come la mancanza di qualcuno può portare alla morte, nell’Odissea può anche spronare all’azione, e quindi alla vita. Odisseo, infatti, fa di tutto per ritornare, mosso proprio dal desiderio di casa (che in greco si dice oikos [οἶκος], termine che indica sia l’edificio sia chi lo abita, ossia la famiglia). Prima di arrivare ad Itaca, l’eroe ha vagato per tre anni incontrando e affrontando le più disparate difficoltà (è persino sceso nell’Ade e tornato tra i vivi!), per poi finire naufrago e solo su un’isoletta molto lontana, dove vive una divinità, la bellissima ninfa Calipso, la quale si è innamorata di lui. Là, Odisseo trascorrerà ben sette anni con la dea nella serenità, nell’agio e tra i piaceri più vari. Con lei, tuttavia, si sentirà prigioniero. Non ha modo di andarsene, e la bella vita non fa per lui. Quando finalmente gli dèi dell’Olimpo mandano a Calipso l’ordine di lasciar andare Odisseo, lei è restia, ma ubbidisce. Va da Odisseo per dirgli che è libero di andare, ma non si trattiene dal tentare di convincerlo a restare: «Ingegnoso Odisseo, così ora desideri tornare subito a casa, nella tua terra? Possa tu essere felice, in ogni caso. Ma se solo sapessi quanti dolori ti tocca sopportare prima di arrivare in patria, resteresti qui, con me, a custodire la nostra casa; e saresti immortale, seppur desideroso di rivedere tua moglie, di cui senti tanto la mancanza ogni giorno. Di sicuro posso vantarmi di non valere meno di lei per indole e bellezza, perché le donne mortali non possono paragonarsi alle immortali» (Odissea 5, 203-213).
Odisseo deve scegliere tra diventare immortale vivendo per l’eternità tra i piaceri con Calipso, e affrontare ancora un durissimo viaggio della speranza per mare, per tornare a Itaca. Lui, che ha combattuto in guerra, che ha perso tutti i suoi compagni e ha visto ogni cosa, alla fine risponde: «Venerabile dea, non ti arrabbiare con me per quello che ti sto per dire: lo so bene anch’io che la saggia Penelope di aspetto è meno bella e meno magnifica di te. Infatti lei è mortale, tu immortale ed eternamente giovane. Ma anche così voglio e ogni giorno desidero andare a casa e vedere il ritorno. E se qualche dio mi fa naufragare nello scuro mare, sopporterò con animo paziente nel petto. Ho subito e sofferto troppo ormai, tra le onde e in guerra: si aggiunga anche questo» (Odissea 5, 215-224). La nostalgia, nel caso dell’eroe, non lo sovrasta, né lui nega la speranza. Il senso della mancanza è pesante per lui, come per i suoi genitori, o per suo figlio, ma lui ne ricava la motivazione necessaria perché il suo desiderio sia appagato.
Così, in una delle opere fondanti della letteratura occidentale, la nostalgia agisce con un ruolo-chiave nel racconto. I personaggi sono tutti colpiti dal ‘dolore del ritorno’, il ritorno di Odisseo, ma questo ha un effetto diverso su ognuno. Qualcuno vi soccombe, come Laerte e Anticlea, qualcun altro invece lo nega per non farsi sovrastare, come Telemaco ed Eumeo. Ma l’eroe lo accetta e reagisce. La sua è la nostalgia più grande, perché è solo e separato da tutto e da tutti, ma è proprio questo che lo spinge instancabilmente verso il ritorno, verso il suo oikos. Come scrive Kundera: «L’Odissea, l’epopea fondatrice della nostra nostalgia, è nata agli albori dell’antica cultura greca. Va sottolineato: Ulisse, il più grande avventuriero di tutti i tempi, era anche il più grande nostalgico».[iv]
[i] Su ‘nostalgia’ e altre parole di origine greca nella nostra lingua, si può vedere il recente libro di Ieranò, G. (2020). Le parole della nostra storia. Perché il greco ci riguarda. Venezia, Marsilio.
[ii] Kundera, M. (2001). L’ignoranza. Milano, Adelphi, p. 11.
[iii] Le traduzioni dall’Odissea sono tutte di chi scrive.
[iv] Kundera (2001) 13.