Il fenomeno “Mare fuori”

Il 10 giugno sono state pubblicate su Netflix le due stagioni di Mare fuori, serie italiana che fino ad ottobre è rimasta ininterrottamente nella top 10 delle più viste in Italia accanto a colossi come Stranger Things e Better Call Saul.
Il tutto appare strano se consideriamo che in realtà le due stagioni erano già state trasmesse su Rai 2 tra il 2020 e il 2021 e le puntate erano poi state rese disponibili gratuitamente su Raiplay. Ancora più strano è il fatto che ad avere questo successo sia una fiction televisiva italiana, genere indirizzato ad un target anziano e spesso legato a prodotti davvero banali e di scarsa qualità.
In realtà Mare fuori ha subito lo stesso processo de La casa di carta, le cui prime due parti inizialmente erano state mandate in onda su una rete spagnola ma avevano riscosso successo solo una volta pubblicate su Netflix. Questo è, almeno in parte, dovuto alla popolarità della piattaforma che ha permesso a prodotti del genere di essere scoperti anche da chi normalmente non segue la TV generalista. Poi, sicuramente, Mare fuori, grazie al suo carattere adolescenziale e alle sue scene romantiche, ha pian piano invaso TikTok e Instagram facendo aumentare ancora di più il passaparola.
Ma in sé cosa contiene di diverso questa serie al punto da giustificare un successo rimasto costante per così tanti mesi?


La risposta sta nei suoi personaggi. La fiction segue le vicende di un gruppo di ragazzi e ragazze reclusi nel carcere minorile di Napoli e lo fa, riprendendo in chiave più morbida, struttura e tematiche vincenti come guerre tra famiglie mafiose, droga, povertà, slang, etc. ormai già viste in Gomorra e prodotti simili. Qui però, più che le azioni a spiccare è la psicologia dei protagonisti con le loro storie, con la loro sincerità ed empatia. Ogni puntata, oltre a seguire i fatti del presente all’interno dell’istituto. si concentra tramite flashback sul passato di uno dei protagonisti mostrandoci il perché delle sue azioni e del suo arresto. Viene presentata allo spettatore un’ampia gamma di situazioni, tutte verosimili: c’è il baby-boss cresciuto nella criminalità e convinto delle sue azioni, il ribelle che ha rifiutato una famiglia onesta, il bravo ragazzo che ha commesso un unico sbaglio, quello che si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato e via di seguito. Di ogni ragazzo la serie traccia un profondo quadro psicologico mostrandone le colpe e, senza giustificarli, anche il lato più umano perché, in fondo, sono tutti dei ragazzini. Questo aspetto è evidente soprattutto negli archi narrativi di Ciro e Carmine. Entrambi provengono da famiglie camorristiche ma ognuno sceglie una strada diversa. Il primo è cresciuto all’insegna della mentalità mafiosa con il mito del padre, boss spietato e temuto. Proprio il padre, Don Salvatore Ricci, gli affida una missione: deve eliminare il suo migliore amico Francesco che ha tradito il clan iniziando a venderne autonomamente la droga. Ciro (interpretato da Giacomo Giorgio), è combattuto, da un lato si sente tradito dall’amico, dall’altro non vorrebbe fargli del male perché legato a lui. Alla fine, per non deludere la figura paterna, tra le lacrime, compie l’esecuzione ma il dolore per quel gesto non lo abbandonerà più. Da quel momento vivrà nell’IPM con la perenne ansia di affermarsi per dimostrare a sé stesso e al padre di essere abbastanza forte per il suo ruolo. Ciro non è altro che un adolescente che come ogni ragazzo della sua età vuole l’approvazione paterna ma a causa del contesto in cui è cresciuto, la cerca in un sistema di valori corrotto. Si trova a dover sostenere una realtà più grande di lui e questo gli provoca dei traumi non indifferenti. Carmine (Massimiliano Caiazzo), invece, vuole scappare dal contesto criminale. Ha trovato lavoro presso un parrucchiere e sogna, in futuro, di aprire un salone tutto suo assieme alla fidanzata Nina. Un giorno però commette l’errore di transitare nella zona di una famiglia rivale, viene seguito e tre affiliati armati di pistola cercano di abusare di Nina. Lui non può far niente, è da solo, non c’è tempo per chiamare aiuto, rifugge dalla violenza ma non riesce a guardare la ragazza che ama venir violentata davanti ai suoi occhi mentre implora aiuto. Accecato dall’ira afferra un paio di forbici e si scaglia contro uno degli aggressori uccidendolo. Per uno scherzo del destino Carmine diventa quello che ha sempre cercato di evitare. In quei cinque secondi tu spettatore sei lì con lui, ti disperi assieme a Carmine e vivi il suo dramma.

Il pregio di Mare fuori è riuscire a proiettarti nelle situazioni dei suoi personaggi e farti chiedere cosa avresti fatto tu al loro posto. A ciò contribuiscono i dialoghi, pieni di interessanti spunti di riflessioni. I vari confronti tra i personaggi, infatti, permettono allo spettatore di avere due diversi punti di vista su una stessa situazione (vedi le divergenze circa l’educazione dei detenuti tra la direttrice Paola e il comandante delle guardie Massimo o ancora i vari dialoghi tra Carmine e Filippo sulle rispettive colpe), lasciandogli lo spazio per crearsi una propria opinione. È un progetto centrato perché riesce a rappresentare con realismo le vere paure e ansie di adolescenti che si interrogano continuamente sul loro futuro, sulle scelte da intraprendere e si chiedono se un’alternativa per loro c’è davvero. Tutto questo è reso possibile dalla bravura degli attori, tutti convincenti nei rispettivi ruoli e dalla scelta di affrontare senza filtri, con crudo realismo, il sangue e la violenza tra le mura del carcere. Certo, i difetti ci sono (ad esempio le storyline di alcuni personaggi secondari forse non concluse a dovere o alcune situazioni troppo romanticizzate come la storia d’amore tra Edoardo e Teresa) ma non stonano mai troppo e le varie puntate risultano sempre intriganti. Mare fuori, nel panorama delle serie italiane, è davvero innovativa nel modo di raccontare una certa realtà sullo schermo e potrebbe essere il punto di partenza per una nuova concezione seriale televisiva.

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