Lo spirito di un giornale: intervista a Michele Gambino
Voce! – mi dicevano spesso i professori quando in classe alzavo timidamente la mano per fare una domanda o un’osservazione pronunciata con lo sguardo al pavimento, le labbra che tremavano, come se esporsi fosse un atto di coraggio paragonabile a quello di chi va in guerra.
Allora non ero l’unica a cui mancava la voce. Esporsi, parlare, esprimere la propria opinione sono azioni che non risultano facili a tutti.
Non lo erano per noi alunni che in classe correvamo l’unico rischio di sembrare un po’ stupidi o distratti, e tantomeno lo sono per chi corre dei rischi molto più grandi, raccontando le storie che il potere non vorrebbe sentir raccontare.
È ed è stato tale il ruolo di molti giornalisti che hanno svolto una funzione fondamentale nel portare alla luce vicende che hanno segnato per sempre la storia del nostro paese.
Quindi scrivere di questi uomini, e del mestiere di giornalista in sé, attraverso un’intervista a uno di loro, Michele Gambino, mi sembra un modo interessante di parlare di “voce”.
La vita di Michele Gambino si lega indissolubilmente a quella di Giuseppe Fava, giornalista, scrittore e drammaturgo catanese, fondatore della cooperativa editoriale “Radar” e della rivista “I Siciliani”, nata nel 1983 e chiusa poi nel 1986, due anni dopo il suo assassinio avvenuto il 5 gennaio del 1984.
Fava venne ucciso nella sua macchina a Catania, in via dello Stadio intorno alle 21:30, colpito alla nuca da 5 proiettili di calibro 7,65. Il suo omicidio fu inizialmente presentato come un delitto dettato da questioni private, un assassinio con il quale la mafia non aveva nulla a che fare, perché d’altronde, come molti amavano sostenere, la mafia a Catania al tempo non esisteva.
Eppure Giuseppe Fava la raccontava, con la sua rivista “I Siciliani”, assieme ai suoi collaboratori, tra cui appunto Michele Gambino. Parlava delle collusioni con pezzi dello Stato. Raccontava che le due famiglie mafiose più potenti al tempo a Catania, i Ferlito e i Santapaola, intrattenevano buoni rapporti con il sindaco di Catania, il capo della procura, gli uomini delle forze dell’ordine, gli imprenditori più influenti al tempo, chiamati da Fava, nel primo editoriale-inchiesta de “I Siciliani”, “I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”: Gaetano Graci, Francesco Finocchiaro, Carmelo Costanzo e Mario Rendo.
Fu solo molti anni dopo che si scoprì la verità sull’omicidio Fava. Nitto Santapaola fu incriminato come mandante dell’assassinio, Aldo Ercolano come esecutore e Marcello d’Agata e Francesco Giammusso come organizzatori.
L’epilogo della storia di Giuseppe Fava è raccontato nel libro “Prima che la notte”, scritto dal figlio Claudio Fava e da Michele Gambino a distanza di trent’anni, non tanto per parlare della sua morte, quanto per raccontare il suo sguardo sulla realtà e allo stesso tempo per narrare di “…alcune vite che quella morte ha dissodato e concimato”.
“Prima che la notte” è un libro che racconta “l’impronta di un uomo”, del suo modo di fare giornalismo, di uno scrittore che è andato incontro alla sua morte “senza rimpianti e senza presentimenti”, che amava il suo lavoro perché amava raccontare, immedesimarsi nei personaggi che descriveva, parlando dei loro peggiori crimini, “comprendendoli, senza per questo accettarli”.
Questo è ciò che scrive riguardo a Giuseppe Fava Michele Gambino, in chiusura del libro. Dopo “I Siciliani” Gambino ,oltre ad occuparsi di mafia, è stato l’inviato di punta del settimanale “Avvenimenti”, ha raccontato numerose guerre nel mondo e ha collaborato con tanti programmi Rai, ha vinto premi per i suoi reportage, si è occupato dei poteri occulti, delle stragi di stato e ha subito numerose querele, mentre dava “voce” a verità scomode.
La sua vita sembra però essere stata per sempre segnata dalla prima esperienza come giornalista, sotto la direzione di Fava. Mi chiedo dunque se il suo modo di guardare al giornalismo sia simile a quello del “Direttore”, come continua a chiamarlo ancora oggi, che in uno dei suoi tanti editoriali intitolato “Lo spirito di un giornale” scriveva: “Io ho un concetto etico del giornalismo. […] Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza, la criminalità […]. Se un giornale non è capace di questo, si fa carico anche di vite umane”.
Cosa gli sarà rimasto di questa visione? Questa è la prima domanda che gli rivolgo.
Gambino ha un’aria serena. Il viso ovale, rilassato. Ciò nonostante, un po’ mi intimorisce, perché quando parlo mi guarda fisso negli occhi. Pensa un po’ e poi risponde:
“Io dico sempre che la libertà è il contrario della paura. Questa idea si lega a quello che Fava scriveva in quell’editoriale, ma anche al motto del nostro giornale “Che senso ha vivere se non si ha il coraggio di lottare?”. Giuseppe Fava era un grandissimo giornalista, sapeva raccontare qualsiasi cosa. Una volta calato dentro alla realtà siciliana, raccontava ciò che c’era di interessante. In questo caso decise di raccontare il potere. Catania era una città governata dalla mafia, tutti i personaggi più influenti erano corrotti. La città era dentro una cappa e il direttore si divertì a rompere questa cappa e trasmise a noi il gusto di farlo. Per un anno abbiamo avuto la possibilità di essere liberi e di raccontare quello che nessuno aveva mai raccontato. La libertà che c’insegnò ci liberò dalla paura che ci avrebbe frenato. Questa è la sua grande lezione che mi è rimasta dentro per sempre, nel lavoro e nella vita.
Il nostro era un giornalismo militante, che alla fine ha ottenuto i suoi risultati. Quasi tutti gli esponenti di quel potere marcio sono finiti in galera o hanno dovuto lasciare la città, anche grazie alle cose che abbiamo raccontato. Quindi si può dire che la nostra è stata una battaglia vinta, in un certo modo”.
Però nella parte finale di “Prima che la notte” lei si chiede se Fava sia morto invano, e dal tono che usa sembra trasparire la consapevolezza di essere stati sconfitti e una certa sfiducia nella possibilità di sradicare il fenomeno mafioso dall’Italia. Come risponderebbe ora alla domanda che si pone nel libro?”
“Direi che chiaramente noi abbiamo vinto solo una battaglia contro la mafia, non l’intera guerra. Ci sono battaglie che si fanno non solo per vincerle, ma per il gusto stesso di farle. Perché ci rendono persone migliori e ci accompagnano per tutta la vita. E in effetti questa è la ragione per cui dopo tanti anni sono ancora qui a parlare de “I Siciliani”. Il sistema che abbiamo contribuito a distruggere chiaramente si è ricreato, e la mafia è ancora forte in Italia, anche se ha smesso di ammazzare come una volta. Il fenomeno mafioso negli anni è cambiato, anche grazie all’opposizione e alla lotta portata avanti da magistrati, poliziotti e giornalisti che capirono che lo Stato non poteva continuare a soggiacere alla mafia.
Oggi lo Stato si è dotato di anticorpi contro la criminalità organizzata, e sarà così per gli anni a venire. Merito di moltissime persone che hanno avuto il coraggio di battersi, e a volte hanno pagato con la vita”.
Se lo Stato è cambiato, è cambiata anche la mafia?
“Il fenomeno del pentitismo ha costretto la mafia a riorganizzarsi. Fu Bernardo Provenzano, il successore di Totò Riina, a prendere nel 1996 la storica decisione di sciogliere la “commissione”, l’organismo in cui i boss prendevano collegialmente le decisioni. In questo modo riuscì a limitare l’impatto negativo dei pentiti. Meno persone conoscevano i segreti della mafia, meno danno potevano fare le eventuali rivelazioni di una di esse.
L’altro grande cambiamento consiste nell’aver abbandonato la strategia di Riina dell’attacco frontale allo Stato. Dopo le bombe del ’93 i boss hanno scelto un profilo basso”.
Prima de “I Siciliani” a Catania erano già esistiti altri giornali di denuncia?
“No. All’epoca non esistevano internet e giornali online. “I Siciliani” ruppe il monopolio del quotidiano “La Sicilia”, il cui proprietario oggi è indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. Quel giornale con i suoi silenzi era la cerniera d’impunità del sistema di potere politico mafioso.
Paradossalmente penso che fu proprio il fatto di rompere un monopolio che ci permise di emergere più facilmente e di vendere una grande quantità di copie. Eravamo un piccolo battello contro una corazzata, ma ci rendeva forti il fatto di sentirci dalla parte giusta, quasi una squadra del Bene contrapposta alla squadra del Male. Non c’era una via di mezzo.
Per qualche tempo, questa situazione ci rese unici. Parlavamo di una realtà che tutti conoscevano ma nessuno voleva vedere. Tutti vedevano il re nudo, noi fummo quelli che lo indicarono”.
“I Siciliani” nasce però in risposta al fallimento di un’altra rivista dove lavoravate con Fava: “Il Giornale del Sud”. Questo giornale era finanziato da imprenditori che, come veniste a scoprire dopo, erano legati ad alcuni clan mafiosi. Per questo motivo, quando iniziaste a scrivere articoli di denuncia, per prima cosa vi minacciarono, e poi licenziarono lei, i suoi colleghi e il direttore. Secondo lei perché inizialmente il posto di direttore fu offerto da questi piccoli imprenditori proprio a Giuseppe Fava?
“Il direttore scriveva benissimo ed era molto conosciuto a Catania. Gli editori volevano godere del prestigio della sua firma sul giornale, pensando di poterlo controllare. Invece Fava, quando firmò il contratto da direttore del Giornale del Sud, vi fece inserire una clausola che ci avrebbe garantito massima libertà di espressione. Gli editori ci misero poco a capire che avevano commesso un errore assegnandogli l’incarico. Noi scrivevamo tutto il contrario di quello che ci veniva richiesto. Ricordo un episodio tra tanti: si parlava di edificare un mercato ittico nel paesino di Acicastello, e gli editori spingevano perché ne scrivessimo sul giornale. Il direttore mi mandò a coprire la notizia e io feci due scoperte: che l’editore stesso era interessato all’appalto e che i pescatori del paesino quel mercato non lo volevano. Mi schierai contro l’editore e a favore dei pescatori. Fava subì delle pressioni, ma mi lasciò libero di scrivere quel che volevo.
Così iniziarono le minacce: l’editore fece addirittura piazzare una bomba al cancello della redazione, abbastanza grande da spaventarci ma troppo piccola per distruggere l’edificio.
Ma non riuscirono ad intimorirci. Dopo poco tempo licenziarono Fava e noi decidemmo di occupare la redazione. Alla fine licenziarono tutti quelli di noi che erano schierati col direttore. “I Siciliani” nacque così. Per finanziarci utilizzammo i soldi della liquidazione che il direttore incassò dopo il licenziamento e i nostri pochi risparmi”.
Anche in “Prima che la notte”, più volte, lei e i suoi colleghi siete costretti a confrontarvi con individui che negano l’esistenza della mafia a Catania. Come si poteva negare l’esistenza di un fenomeno così evidente? Agli occhi di un cittadino comune la mafia era visibile?
“Sì, il fenomeno era visibile. In primo luogo nei quartieri popolari e più umili, dove si potevano vedere i mafiosi nei bar in cerca di killer da reclutare. Inoltre quasi tutti i proprietari di attività commerciali erano costretti a pagare il pizzo.
Noi però non ci limitavamo a raccontare i boss, i killer o quelli che andavano a chiedere il pizzo ai negozianti. Noi svelavamo i rapporti tra la mafia che spara e i potenti di Catania. Nella sua ultima intervista, rilasciata a Enzo Biagi pochi giorni prima di essere ucciso, Fava dice proprio questo. La mafia aveva reti di potere, all’interno dello stato e delle istituzioni, che passavano attraverso logge massoniche dove uomini come il sindaco e il capo della procura di Catania incontravano boss mafiosi come Nitto Santapaola. Chiunque avesse voluto avere un minimo di potere in città avrebbe dovuto fare i conti con questo sistema.
Il fenomeno era così radicato che quando cominciammo a scrivere venimmo accusati di voler gettare fango su una città che era immune dal cancro mafioso, come disse il sindaco nel giorno del funerale del Direttore.
Invece a Catania c’era un morto al giorno, ma non c’era la mappa dei clan come a Palermo, dove già il giornale l’Ora documentava i crimini di mafia, quindi era più facile far finta di non vedere. Per la prima volta noi raccontammo che ciò che succedeva a Catania non poteva essere ridotto ad una serie di delitti isolati, omicidi per la spartizione del bottino di una rapina, come recitavano i comunicati stampa della Questura. Vedevamo il quadro d’insieme di una criminalità organizzata speculare a quella di Palermo”.
Dato che la mafia era così radicata anche all’interno delle istituzioni, non potevate contare su alcun tipo di protezione. Anzi, dopo la morte di Giuseppe Fava le autorità tentarono di accusare lei del delitto. Non vi spaventava esporvi così tanto? Le minacce e i pericoli non le hanno mai fatto pensare di lasciare il giornale?
“Direi di no. Anzi, le minacce avevano l’effetto contrario. Un giorno, venne la fumettista ElleKappa in redazione perché desiderava disegnare una vignetta su di noi. Al tempo avevamo problemi economici perché, nonostante le ottime vendite, non avevamo una pagina di pubblicità. ElleKappa si chiedeva cosa ci spingesse a lavorare ancora con così tanta grinta. Ci mise poco a capire che erano proprio le difficoltà dell’ambiente intorno a noi che ci stimolavano ad andare avanti. Alla fine disegnò una vignetta che raffigurava me, intento ad attaccare la cornetta del telefono e a pensare “Abbiamo problemi economici, non abbiamo uno stipendio. Certo, se non ci fosse qualche telefonata di minacce ogni tanto sarebbe proprio il caso di chiudere”.
Dopo la morte di Giuseppe Fava il quotidiano “La Sicilia” tentò di screditarlo. Scrissero che Fava non poteva essere stato ucciso dalla mafia e che era “Un Pecorelli siciliano”, con riferimento ad un giornalista romano che viveva di ricatti.
Più in generale, con il clima di insabbiamento che regnava a Catania, voi avete dovuto aspettare molto prima che il crimine fosse attribuito a Santapaola anche grazie alle testimonianze dei pentiti. Intanto però l’immagine di Fava fu rovinata. Secondo lei per quale motivo?
“Dopo la morte di Fava giravano molte voci su di lui. A metterle in circolazione erano giornalisti che avevano rapporti con la mafia. Le calunnie facevano presa su una città che non voleva aprire gli occhi. Far finta di credere che Giuseppe Fava fosse stato ucciso per una storia di donne era consolatorio: serviva ad auto-assolversi del fatto di aver lasciato solo un giornalista e i suoi ragazzi a battersi contro il mostro.
Qualcuno pensava che gli articoli di giornale in cui Fava denunciava Santapaola, i Ferlito e i cavalieri edili non fossero un movente abbastanza convincente. Poi alcuni pentiti confessarono e le prove vennero fuori. Si scoprì che uno dei cavalieri del lavoro, Gaetano Graci, era legato a quei piccoli imprenditori che avevano fondato “Il Giornale del Sud”. Un pentito raccontò una conversazione tra Graci e Santapaola, in cui il primo diceva al secondo “A chistu c’avissiro a scippare i corna”. Si trovarono poi le foto del sindaco insieme a Santapaola. Il capo delle procura fu indagato per insabbiamento e si iniziò ad indagare su Graci, anche se non fecero in tempo a processarlo perché morì prima”.
Nella parte finale di “Prima che la notte” lei racconta di come il suo modo di approcciarsi al giornalismo sia cambiato nel tempo. All’interno di questa riflessione parla della capacità di Giuseppe Fava di immedesimarsi nei personaggi che raccontava, di comprenderli mantenendo comunque la capacità di indignarsi. Lei hai mai cercato di immedesimarsi in uomini come Nitto Santapaola? Pensa che il fenomeno mafioso presenti anche aspetti affascinanti?
“I mafiosi sono sicuramente persone che hanno una straordinaria energia e carica vitale. Il mafioso è in primo luogo un uomo che si ribella al proprio destino: spesso nasce in un ambiente destinato alla miseria, caratterizzato dalla violenza. L’ingresso nella mafia rappresenta una sorta di riscatto attraverso il quale si possono cambiare le proprie prospettive di vita e quelle dei propri figli.
Una volta entrato, ubbidisce ad un’unica legge, che è quella della famiglia: il bene di essa travalica qualsiasi senso etico e qualsiasi senso della giustizia collettiva. Il mafioso è un mostro, ma non si sente colpevole, anzi crede di lottare per una causa giusta, perché a sorreggere le sue azioni c’è una base ideologica molto forte che è appunto la legge della famiglia. Dunque sì, ci sono degli aspetti affascinanti della vita del mafioso, ma prettamente a livello letterario; questo fascino letterario nasce però da una mostruosità che è reale.
Tra l’altro, queste sono osservazioni che posso fare adesso, ma quando ero giovane non mi concedevo il lusso di ragionare sulla natura del mafioso come faccio oggi.
Però non sono mai riuscito ad odiarli: come racconto nel libro, ebbi un incontro ravvicinato con Nitto Santapaola, quando era già in prigione. Oltre a lui, mi capitò altre quattro, cinque volte di trovarmi faccia a faccia con un mafioso. Di Santapaola mi colpì il fatto che cercò di convincermi di essere innocente, come se il mio giudizio fosse rilevante. Voleva che io pensassi che lui era una persona per bene. Fece lo stesso con Claudio qualche anno dopo, tentando di persuaderlo di essere stato vittima di un complotto”.
Se avesse la possibilità di incontrare di nuovo Giuseppe Fava, c’è qualcosa che vorrebbe chiedergli?
“Gli chiederei di fare un bagno con me”.
Mentre converso con Michele Gambino penso che se dovessi porgli tutte le domande che mi vengono in mente quando parla, dovremmo stare seduti nel suo ufficio per giorni. La sua storia è troppo lunga e intensa per poterla raccontare con una sola intervista. Meglio leggere il suo libro, dove non ci si deve porre il problema di fornire risposte univoche a una manciata di domande. Lì la realtà che ha vissuto, e il suo direttore, sono descritti nelle numerose sfaccettature di ogni storia vera. La vicenda è messa in scena tramite la descrizione del vissuto di chi stava vicino a Giuseppe Fava e non vi è né enfasi retorica né invettive contro le istituzioni. L’attenzione è tutta volta ai piccoli dettagli, all’umanità dei protagonisti, ad alcune conversazioni di cui Michele Gambino ha fatto tesoro per tutta la vita.
In effetti, come disse Fava, “cercare di provocare indignazione per le vittime senza metterle in scena, è come provare a preparare il pane senza la farina”.