Poche parole per un po’ di chiarezza su Alfredo Cospito
Sui muri della città in questi mesi sono apparse, scomparse e ricomparse alcune scritte nere, di quelle un po’ sbilenche, proprio bruttine, che paiono urlare di disperazione: “no al 41 bis“, “Alfredo libero“. E ogni tanto, seduti alla scrivania di casa, abbiamo sentito le stesse parole provenire da alcune voci arrabbiate, che ronzavano per le strade della città. E come se non bastasse, accendendo la tv – per chi l’accende ancora – o aprendo la pagina del Corriere su Instagram abbiamo letto e riletto questo nome: Alfredo, e accanto: 41 bis.
Chi è Alfredo? Cos’è il 41 bis?
Partiamo allora, com’è bene fare trattando di diritto, dal riferimento normativo.
L’articolo 41 bis della legge sull’ordinamento penitenziario entra in vigore con un decreto legge del giugno 1992: la norma prevede un trattamento carcerario particolarmente limitativo dei diritti del detenuto, che punta sull’isolamento per scongiurare ogni collegamento con l’associazione a delinquere esterna al carcere. L’obiettivo della misura è quello di contrastare la criminalità mafiosa, all’indomani della strage di Capaci, e purtroppo verrà pagata a caro prezzo. Un mese dopo, infatti, il 19 luglio 1992, esplode la tristemente nota bomba in cui perde la vita l’onorevole Borsellino; di riflesso, nella notte tra il 19 e il 20 luglio viene trasferito al carcere di Pianosa un importante numero di mafiosi. Comincia qui la storia del carcere duro. Qui comincia la storia di Alfredo Cospito.
Alfredo Cospito è un uomo di mezza età di Pescara, un anarchico appartenente alla Fai-Fri (Federazione anarchica informale – Fronte rivoluzionario internazionale), un’organizzazione che, a parte il nome da marchio di patatine anni Novanta, è stata additata come colpevole di alcuni eventi terroristici ed eversivi, perciò non scherziamoci troppo.
La sua fedina penale si macchia per la prima volta nel 2013, quando viene condannato a dieci anni di detenzione per aver ferito alle gambe un dirigente dell’Ansaldo Nucleare, un’azienda italiana che opera (ovviamente) nel settore nucleare. Uscirà dal carcere nel 2020 per uno sconto di pena in appello.
Proprio lo scorso anno Cospito si trova nuovamente a fare i conti con la giustizia, quando viene condannato dalla Corte di Cassazione per “strage politica” – il nome strage è tanto scenico quanto ridondante: non ci furono né morti né feriti – per aver posizionato, nel lontano 2006, due bombe davanti alla scuola di allievi dei carabinieri nel cuneese. A dir la verità, in primo e secondo grado di giudizio Cospito era stato condannato a 20 anni di reclusione; è stata poi la Cassazione a mettere sul tavolo la carta del 41 bis, a seguito dell’applicazione dell’articolo 285 del Codice penale, il quale punisce, tra l’altro, il reato di strage politica.
Infine, ad applicare il carcere duro è stata la ex Ministra della Giustizia Marta Cartabia, sulla base di segnalazioni della Digos, che additavano la pericolosità dei contatti che l’uomo deteneva con l’organizzazione anarchica. Sembra infatti che Cospito abbia inviato alcuni messaggi di incitamento a compiere azioni terroristiche, che avrebbero posto “in pericolo la vita degli uomini e delle donne del potere”.
La storia, purtroppo, non ha un lieto fine, né che si parteggi per Cospito, né che si parteggi per lo Stato: semplicemente non ha una fine, e comunque non si prospetta una lieta conclusione. È una pagina piuttosto triste del diritto italiano, che si inserisce a mo’ di capitolo in un pesante volume, di cui i giuristi, e più in generale tutti i cittadini italiani, non possono certo vantarsi.