Il solito vecchio attivismo nell’era digitale
Con l’avvento dell’era digitale il nostro stile di vita è cambiato molto. Credo che il filo conduttore che lega tutti questi ribaltamenti sia l’enorme comodità con cui abbiamo accesso a una moltitudine di beni e servizi. Non andiamo più a fare una passeggiata per andare a prendere la pizza: abbiamo un’applicazione con cui ordinarla e un rider che ce la porta a casa. Abbiamo robot che ci puliscono casa, che ci impastano la torta, e sistemi di domotica con cui è possibile fare qualsiasi cosa. Le informazioni viaggiano a una velocità che ormai fa concorrenza alla luce, intere biblioteche sono ora contenute in schede grandi qualche centimetro, un aggeggio che ciascuno di noi ha in tasca consente videocollegamenti da un continente all’altro. La stima del valore di tutte queste infinite possibilità dell’era digitale, didascalicamente soprannominata «l’era del tutto e subito», è duale e controversa. La prima, al ribasso, deriva dal fatto che la nostra generazione è figlia di questi tempi e tende a vedere tutto questo come scontato; la seconda, al rialzo, è dettata dal fatto che la tecnica sta rendendo l’uomo schiavo facendogli credere di essere onnipotente. E dal momento che, citando il Vecchio Testamento, «alla radice di ogni male sta la volontà dell’uomo di diventare come Dio», quest’ultima stima dà adito a una serie di distopie che, da Orwell in avanti, gettano ombra sull’entusiastica accettazione dell’innovazione tecnologica nel suo insieme. Oltre che sul valore, credo che sia dovuta anche una riflessione sull’efficacia e la fruttuosità di tali dinamiche. Tantissime cose non possono prescindere da quell’elettrizzante scambio di impulsi chimici che è l’interazione con l’essere umano nostro simile. Troppi ambiti del sociale escono martoriati dalle novità che la tecnologia e i social media hanno portato nelle nostre vite.
Uno di questi è senz’altro l’attivismo sociale e politico, che difficilmente può essere confinato nella piattezza letterale e metaforica di uno schermo a cristalli liquidi. Le piazze gremite, i megafoni, gli striscioni. I corpi e le volontà che si fondono per dare vita alla mitologica creatura della folla, agitano bandiere e sentimenti, lottano coesi. Non si può tralasciare il ruolo evidente che le piattaforme digitali giocano in questo ambito, sia a livello istituzionale, che nelle multiformi organizzazioni della società civile, siano esse più o meno spontanee. Con questi strumenti è possibile raccontare mille diverse versioni della stessa storia, dare risalto ad alcuni avvenimenti oscurandone degli altri, creando dinamiche di framing della realtà che inducono a una sempre più evidente polarizzazione delle opinioni, su tutti i frangenti. Ricordo che fu virale qualche tempo fa la notizia di un migrante che arrostiva un gatto sul ciglio della strada. La destra, sbigottita, evidenziava la sporcizia, il degrado umano e culturale, mentre la sinistra, sconcertata, ribatteva sottolineando quanto misere dovessero essere le condizioni di un uomo che si spinge a fare una cosa del genere. Io credo che in un paese civile quel fatto non sarebbe semplicemente stato una notizia. Il dibattito riguardo alle modalità che la comunicazione politica sta adottando, così diverse da quelle tradizionali, meriterebbe di essere approfondito.
Il rapporto tra mondo digitale e attivismo – mi proporrò di sostenere – deve essere e sarà sempre strumentale, mai sostitutivo. I social svolgono un ruolo attivo e funzionale quando vengono sfruttati per dare coerenza e struttura a manifestazioni e proteste nate spontaneamente. Il movimento dei Fridays for Future sarebbe stato molto meno impattante con una minore esposizione mediatica, e le schiere di giovani molto meno compatte. Partecipare a quelle manifestazioni è considerato cool: la lotta al cambiamento climatico, sintonizzata su frequenze mainstream, non starebbe procedendo nello stesso modo in assenza di paladini mediaticamente potentissimi. L’attività di molti influencer che si interessano all’ambito politico aiuta senz’altro a svegliare alcune coscienze, ma d’altro canto si corre il rischio di svilire il dibattito su certe questioni, potenzialmente ridotte a meme, titoli in grassetto o frasi ad effetto.
Ricordo con simpatia il fantomatico esercito delle 6000 sardine scese in piazza a Bologna sostenendo il candidato del centro-sinistra alle regionali che si sarebbero tenute di lì a pochi giorni. Alcuni illustri ma poco lungimiranti colonnisti abboccarono subito e dipinsero il movimento come il nuovo fronte della lotta al populismo. La risonanza degli eventi che accaddero in quella piazza ebbe portata nazionale, il manifesto venne pubblicato, i fondatori invitati nei talk show. All’ultimo evento prima delle elezioni parteciparono cantanti e personalità importanti, il numero dei presenti venne moltiplicato per sette. Il movimento si è poi eclissato con la stessa velocità con cui era emerso, a ulteriore conferma che attivismo e politica sono interdipendenti ma separati. Ci sono poi i flash mob, realizzati dandosi appuntamento in un certo luogo e a una certa ora per svolgere attività o coreografie che durano di solito pochi minuti, e spesso hanno valore simbolico. Anche in altri esempi tra i più recenti, dal #MeToo al Black Lives Matter, l’attivismo digitale è transitorio e subordinato a quello tradizionale. I social hanno agevolato la denuncia di molestie e violenze, trasformando la peer pressure in coesione e spirito di fratellanza, capaci di vincere paura ed omertà. Dopo questo tassello sono però stati necessari gli striscioni, la sincronia di voci ed intenti, il sudore nelle piazze, per provare a determinare qualche cambiamento pratico a tutela della vita e della dignità delle donne. Di certo il sistema giudiziario non cambia adeguandosi a un hashtag di tendenza in modo automatico. In maniera simile, l’omicidio di George Floyd diventa il virale pretesto per scatenare un malcontento nascosto e malcelato da tantissimo tempo. L’esposizione mediatica mondiale della storia diventa in questo caso la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso; un vaso di Pandora che era già incrinato da decenni di abusi di potere e secoli di segregazione razziale.
Il 10 marzo 2023, dopo lunghe giornate e notti di proteste, il Parlamento georgiano ha revocato la legge sui «foreign agents» che avrebbe minato l’indipendenza di media e Ong – sulla falsa riga di quanto accade in Russia e Bielorussia con normative analoghe. Giorgi Khachidze, uno studente di scienze politiche di Tbilisi che ho conosciuto durante una mia esperienza all’estero, mi ha raccontato alcuni retroscena delle proteste che lo hanno visto protagonista. Per arrivare a quante più persone possibili non servono campagne social o articoli di giornale, ma fatti concreti. Una donna resiste agli idranti della polizia – prima da sola, poi aiutata da alcuni uomini – continuando imperterrita a sventolare la bandiera dell’Ue. In un secondo momento il video rimbalza su Twitter fino ad arrivare in Occidente, altrimenti non sarei qui a parlarne. I social, come ho già detto, sono una rappresentazione della realtà che non può prescindere da essa. E la realtà, in questo caso, è che una signora ha sfidato un potente getto d’acqua, stremata, agitando il vessillo di una chimera, un sogno lontano e vicino allo stesso tempo. La realtà è che Giorgi e i suoi amici si sono rimboccati le maniche, hanno organizzato marce solidali, si sono dati il cambio giorno e notte per animare le piazze con cori e cartelloni.
Per concludere e provare a rispondere alla domanda cardine che è stata posta, i cortei e le piazze ci sono ancora, i social media hanno ampliato il pubblico raggiunto dalle cause e le proteste. Il mondo dell’attivismo politico e sociale è anche cambiato sostanzialmente nei modi e nelle ragioni di fondo: si lotta per idee e non più per ideali, e nelle democrazie occidentali e civilizzate è difficile incontrare al giorno d’oggi gesti estremi come quelli che avvennero durante la seconda guerra mondiale e la primavera di Praga. Gesti simbolici estremi, forse eroici, ancora sicuramente riscontrabili in certe zone remote del mondo. Agire in fretta non significa agire con efficacia. Una schiera di follower virtuale non farà mai rumore come una folla strepitante. Ci sono tante battaglie da combattere e farlo con i social media non basterà.