Kusama x Louis Vuitton: “Après Abloh, le déluge”

Yayoi Kusama ha sempre vissuto nei suoi pois. Li ha usati per esorcizzare i demoni suoi, della sua schizofrenia e quelli di una società intera. Ora che quei pois hanno riempito il mondo, i problemi sono degli altri. Per esempio di chi deve gestire una sua gigantografia meccanica che possa dipingerli, di chi dovrà curare la manutenzione delle sue immersive experience, esperimento degno successore delle già perfettamente congegnate infinity room e così via. Ma quando di Yayoi Kusama non c’è più traccia, cosa rimane della sua arte, targata Louis Vuitton? È innegabile che la firma Louis Vuitton, già di per sé famosa e un’eccellenza nel campo, non sia nuova a collaborazioni con grandi artisti: la Kusama stessa era già stata protagonista nel 2006 con una singola borsa e nel 2012 con una capsule. Si sa, arte e moda vanno a braccetto, di questi tempi come non mai. Volendo ripercorrere la storia di arte e moda si cade in un discorso già sentito, che si conosce per osmosi: c’è stato prima Dali, poi Mondrian, Wharol e sai quanti altri? Tanti, ecco quanti.

La novità, con questa collaborazione, è la scala su cui è stata realizzata. Trascendiamo per un momento dal discorso climatico: l’idea di quanto la moda di per sé sia dannosa è chiara. Lo stesso, però, potremmo dire del seguire in trasferta la propria squadra o semplicemente avere un intero esercito di persone connesso in simultanea per giocare a uno stesso MOBA; non c’è un “hobby” che possa dirsi nella posizione di scagliare la prima pietra. La moda, così come la conosciamo, nasce in un contesto molto ristretto, per cui l’alta borghesia – o nobiltà, se vogliamo risalire agli albori – era l’unica porzione della società coinvolta nella scelta di certi tipi di tagli, personalizzazioni, capi su misura e via discorrendo; poi c’è stato il prêt-à-porter e la situazione è stata travolta. “Inventato dagli americani, implementato piuttosto malamente dai francesi e reso popolare dagli italiani” scrive Andrea Batilla, ma è chiaro che – come per qualsiasi prodotto frutto della creatività – l’animo umano tende all’abuso e ad una conseguente degenerazione. Il prêt-à-porter genera il desiderio immateriale per cui oggi solo una piccola fetta della popolazione mondiale può vantare di avere indosso interi stipendi, perché è dall’avvicinare al mondo la già di per sé irraggiungibile alta moda che nascono i brand e lo smanioso desiderio di avere capi quasi costruiti addosso. La moda diventa veloce, i capi vengono bruciati piuttosto che venduti al ribasso, l’estro artistico finisce chiuso, in maniera umiliante, piuttosto che avvicinarsi alle strade. Virgil c’era andato così vicino. Virgil Abloh è una figura esplicativa: è riuscito ad arrivare così in alto da catturare le stelle e farne dono non semplicemente alla moda, ma alla cultura globale, fortemente influenzata dal suo essere un artista a 360°. Diceva che “lo streetwear sarebbe morto”, ma non è stato solo profetico nel suo dichiarare che lo streetwear sarebbe arrivato in passerella: aveva offerto una creatività nuova, un modo di lavorare più sostenibile, tutto dal suo iPhone. Niente più Andy Sachs. Ma cosa resta quando nemmeno Virgil Abloh c’è più? Après Virgil, le déluge.

La Louis Vuitton, del gruppo LHVM, di cui era stato direttore creativo della sezione “uomo”, sembra essersi persa nel periodo successivo alla sua prematura scomparsa. Ora c’è Pharrell Williams, uno di quelli sulla scia di Kanye: è un producer, uno stilista, un designer, un attore, un regista, una figura sicuramente polivalente che davvero pochi possono raggiungere per completezza. Pharrell sembrava il più adatto per portare avanti la lotta social avviata da Abloh, in piena linea con quanto dichiarato da Bernard Arnault all’inizio dello scorso anno. L’impegno sarebbe stato sia ambientale che sociale: “non è solo moda, è cultura, con un’audience globale”. Eppure il caso Kusama ha sollevato più di qualche dubbio riguardo all’impatto ambientale, così come la prima passerella di Pharrell sembra mancare di un messaggio, di un sottotesto, anche lontano.

Il rebranding sui polka-dot di Yayoi non è stato un rebranding incisivo: risulta quasi vuoto utilizzare un elemento artistico in giro dal ’58 per proseguire sulla cresta dell’onda causata dal genio di Virgil Abloh. C’è poi da domandarsi, qual è il grado di coinvolgimento dell’ultranovantenne giapponese? Le idee sembrano scarseggiare e non è un problema esclusivo della Louis Vuitton. Crollano i grandi nomi, come Alessandro Michele, la cui proiezione dal punto di vista del fatturato non era sicuramente adeguata alle aspettative del gruppo Kering, che si era in ogni caso distinto dall’LVHM per la linea creativa capace di far (ri)innamorare numerosissimi appassionati a un marchio immenso come Gucci: l’imperativo è fatturare. Ma se la moda sta andando a picco – per un miliardo di fattori, per la prospettiva della sostenibilità, ai costi elevatissimi – potremmo vedere l’arte sprofondare allo stesso modo? Una firma della Kusama, capace di essere partecipe – senza mai aderire formalmente – alla rivoluzione culturale andata in scena alla fine degli anni ’60 con le sue feste che finivano persino per trasformarsi in orge, può davvero finire per essere commercializzata in questo modo? Un puntualissimo articolo di Artribune a riguardo cita la McDonaldizzazione del processo, la famosa teoria del sociologo Ritzer, e lo scenario in cui sembriamo essere finiti risulta proprio essere sviluppato su questo stampo. La società diventa così un fast-food, con l’arte ridotta all’essere un pasto veloce, prodotto e consumato secondo i criteri di una catena di ristoranti: l’efficienza è massima, tutto è standardizzato, il controllo genera quantità a discapito della qualità. La nuova linea Louis Vuitton non si distacca da questo ideale, aderisce pienamente a un modello che probabilmente Wharol stesso, mentore della Kusama nella sua età d’oro, avrebbe ripudiato.

Adesso che c’è un robot di un’anziana signora giapponese, vicinissima ai cento anni, in quasi ogni store della LV, che dipinge pois di fronte a “camere di immersione” – più sensate se limitate ai singoli centri di arte contemporanea, anche in collezioni private, proprio come per il Guggenheim – possiamo dire che l’esperienza generata è sempre più lontana dall’arte e della moda stesse.

La perdita è totale, après Virgil, le déluge.

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