Il pescatore di foglie
È autunno anche a Trento. Lo percepiamo dalle nuove e fresche piogge, dalle nuvole basse, dalle coperte pesanti che cominciano a comparire sui nostri letti. Possiamo dire di essere dentro alla routine ormai a pieno regime, l’Adige scorre gonfio e tranquillo, fuori dalla finestra si fa scuro presto e il traffico si intensifica sempre di più. Gli alberi si tingono, cambiano vestito fino a spogliarsi, chi passa per il parco Gocciadoro lo può capire. Anche la passeggiata lungo l’Adige non è mica male: chi si spinge appena fuori città, lungo le sponde dei laghi, può starsene sereno a guardare le foglie che cadono sui prati o nei boschi fitti.
I colori dell’autunno e le sue foglie volanti mi rimandano a un personaggio romanzesco in particolare. È una figura che passa senza farsi troppo vedere all’interno di un libro molto più ampio e variegato, ma che lascia un segno nella memoria del lettore. È l’immagine di un uomo di circa sessant’anni seduto sui gradini di una casa abbandonata fuori Londra, quasi in rovina e coperta di muschio ed erbacce. Tiene al suo fianco una canna da pesca ben piantata a terra e guarda immobile davanti a sé. Si chiama Malmecca, e quando ride gli si disegna sul volto una cornice di rughe, come dei piccoli arabeschi che rimangono fissi, ma solo per un momento. È un personaggio misterioso e di poche parole che farà amicizia con il protagonista della storia, Fil, che si siederà vicino a lui e piano piano apprenderà la sua arte.
Fil è un ragazzo irrequieto, frequenta il secondo anno di Economia a Londra e da qualche tempo la domenica non riesce più a concentrarsi sullo studio e con la sua nuova moto si dirige nei boschi, lontano, per cercare qualcosa. Non lo sa bene neanche lui cosa, forse un po’ di serenità per combattere la confusione che lo circonda. Un giorno gli capita di incontrare Malmecca e di praticare insieme a lui questo strano sport: seduti vicini, aspettano, con le canne da pesca in mano. La particolarità di questo strumento è che la lenza possiede al posto dell’amo un gancio che sembra una specie di piccolo arpione con cui si acchiappa la foglia che cade, forandola. Inizialmente sembra una pazzia. Fil non capisce, gli sembra infantile, un gioco, ma Malmecca è così serio che non può fare altro se non provare. È chiaro che quell’uomo lo intriga, intrigherebbe chiunque si fermasse a guardarlo anche solo un secondo di più, e la suggestione del luogo incantato in cui si trovano contribuisce a creare un clima di intensa spiritualità.
Perché c’è qualcosa di assai elevato nel gesto che compiono, ed è qualcosa che si percepisce subito, dall’incipit del capitolo, che recita:
“C’è una persona, a un certo punto. C’è sempre una persona che a un certo punto, magari senza volerlo, dirige la nostra vita, le fa prendere una piega piuttosto che un’altra. Soprattutto quando siamo giovani. Può essere qualcuno di molto vicino, o anche un estraneo. Qualcuno che ci vive sempre accanto o che vediamo una volta sola ma in un modo così intenso che ci lascia il segno. Non si può dire. In ogni caso è una persona che noi chiameremo maestro, anche se di fatto non ci avrà insegnato niente.”
La prima foglia che Fil pesca scatena dentro di lui una gioia indescrivibile, è una foglia larga e gialla, con venature fitte parallele, di quelle che vediamo continuamente per le strade senza farci troppo caso. Ecco, è proprio questo il fulcro dell’attività, spiegata in maniera limpida dal pescatore di foglie, il fatto di essere una questione di attenzione: attorno a noi un mondo si trasforma, fa la muta come un serpente che abbandona la vecchia pelle perché avverte il bisogno naturale di rigenerarsi, così in autunno la morte ci circonda ma non ce ne accorgiamo perché si presenta sottoforma di colori accesi e spettacolari.
Il passo successivo dopo la pesca della foglia è riporla al proprio fianco, insieme alle altre. Alla fine della giornata vengono raccolte e prese a cesto tra le braccia per poi essere lanciate in aria finché non ricadono a terra. Arrivati a questo punto il disappunto di Fil trasuda da tutte le pieghe delle pagine. Malmecca è un uomo veramente strano, nella sua vita era neurochirurgo nel più grande ospedale di Londra da cui un giorno si è allontanato senza far avere più sue notizie, era padre di famiglia ma sua moglie se ne è andata insieme ai figli, viveva in quella vecchia casa vittoriana che però ha dovuto lasciare per prendere una camera in affitto in città. Le risposte alle domande che Fil gli pone sono poco chiare, sembrano sconnesse dal contesto, ma ciò che fa è lampante: cura le foglie che cadono, le osserva, le tratta con amore, le saluta nel momento finale della loro esistenza e le lascia volare via, senza fare altro se non prestarci attenzione.
“è un saluto. Saluta le foglie che muoiono. Le accompagna. Alle foglie non cambia niente, ma a loro due sì. C’è bisogno di spiegarla una cosa simile? No, non c’è bisogno.”
Questa vicenda si colloca in un momento della narrazione dove il tempo sembra fermarsi e scorrere in maniera diversa dal resto degli avvenimenti precedenti e successivi. Capita spesso che lo spunto per una qualche profonda riflessione morale avvenga in simili situazioni e per bocca di simili personaggi. La figura del vecchio saggio che con la sua lunga vita possiede una consapevolezza maggiore di tutti gli altri è topica e l’autore se ne serve per far succedere eventi misteriosi, a volte magici, per esprimere pensieri e considerazioni che figure più immature, con un numero minore di anni, successi e fallimenti nel curriculum non potrebbero dire.
È così nei romanzi come anche nei film. Basti pensare al maestro Yoda di Guerre stellari, a Oogway in Kung Fu Panda, o allo zio Pom di Laputa – Castello nel cielo, film di Myazaki del 1986. Concentrandosi su quest’ultima storia notiamo che tra le varie avventure che i due protagonisti devono affrontare, a un certo punto appare zio Pom, un vecchio minatore che vive sottoterra e grazie al quale vengono immersi in un tempo non più conoscibile, dove regna solo la pietra delle pareti di roccia che sembra sussurrare, parlare, a volte urlare. Zio Pom spacca una pietra per fare vedere il potere trattenuto al suo interno, generando un flusso di energia che lentamente si spegne, illuminando per un secondo lo spazio attorno a loro. Non gli vengono affidati discorsi filosofici né moraleggianti, anzi, potremmo dire che appare come un tipo piuttosto silenzioso, ma l’atmosfera in cui si colloca è carica di tensione e di spiritualità, di mistero e di enigma. Anche lui, come Malmecca, sembra avere il potere di comunicare con una parte più profonda della Natura, imprendibile dall’uomo immerso in un mondo in cui l’urbanità non lascia spazio a un linguaggio maggiormente spirituale e mistico.
Entrambi i personaggi citati accompagnano i protagonisti solo per un piccolo tratto della narrazione, senza seguirli, perché non c’è bisogno che stiano accanto a loro. Sono presenti in un solo quadro, e la loro immagine è esaurita al suo interno, mentre il messaggio di cui sono portavoce pervade tutta la storia. Le espressioni di Malmecca sono serene e tranquille, quelle di zio Pom meste e serie, ma tutti e due appaiono lontani, in una dimensione diversa da quella presente, rivolti verso un universo parallelo, non sconnesso dalla storia principale, ma che riesce a completarlo.
Vi rimando allora a questi due vecchi autunnali: Malmecca lo trovate in qualche pagina di “Non so niente di te” di Paola Mastrocola, pubblicato da Einaudi nel 2013 e zio Pom in pochi minuti di “Laputa – Castello nel cielo” di Hayao Miyazaki, uscito in Italia nel 2012. Buon autunno e buona ventata di aria fresca 🙂
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