Di sogni e poesia
Quando chiudiamo gli occhi ed entriamo nella dimensione onirica stiamo entrando in un’altra realtà, parallela e complementare a quella della vita di tutti i giorni. È affascinante, se ci si pensa, l’idea che nel momento in cui stiamo sognando tutto appare come vero, sembra che i sensi lavorino normalmente, e se in sogno ci immergiamo nell’acqua è come se la sentissimo sulla nostra pelle, se mangiamo qualcosa di disgustoso ci sembra di storcere il naso come nella realtà e le emozioni provate sono autentiche, anche e soprattutto quelle più spaventose. Se vi è mai capitato di perdere qualcuno in sogno o di trovarvi in una situazione a forte impatto emotivo sapete di che cosa si sta parlando.
Capita che sogno e realtà in certi momenti si fondano, che le due dimensioni si accavallino una sull’altra, l’esempio più iconico è quello che si vede spesso anche in alcune scene di film, dove una persona cerca di svegliarne un’altra e il materiale sognato assume la voce e l’espressione di chi sta parlando nella realtà, oppure capita nel momento in cui la mattina suona la sveglia ma noi, immersi nel sonno più profondo, la percepiamo come elemento stesso del sogno, arrivando a inglobarla in esso, tanto che sembra una musica lontana, proveniente da un villaggio forse nascosto ai nostri occhi da una duna del deserto in cui ci troviamo, magari è il canto tradizionale di qualche popolo ancora sconosciuto al resto del mondo, che forse saremo noi i primi a trovare.
Poi suona la sveglia, ed è tutto finito. Il cambiamento di dimensione è così brusco che serve qualche secondo per realizzare che non siamo veramente degli esploratori nel deserto, che non è morto nessuno a noi vicino, che la nostra migliore amica non è veramente incinta e che quel canto lontano era solo il segnale creato da noi stessi per strapparci alla possibilità di essere qualcun altro, chiamandoci a vivere la nostra vera vita. Tristezza, amarezza, frustrazione, ma anche un po’ di sollievo pervadono le nostre menti. E poi ci alziamo.
Capita che sogniamo motivi ricorrenti, situazioni che si ripetono, personaggi che tornano ciclicamente, abitanti di quel mondo distante che appaiono come una presenza fissa, che ci conforta tornare a incontrare ogni notte. C’è chi pensa che questi casi non può essere che il sogno dipenda solo da quello che abbiamo mangiato la sera prima (come si dice spesso), perché, anche se abbiamo digiunato o mangiato pesante, le stesse figure intervengono di notte e ci traggono a loro, avvolgendoci. Sono immagini legate a grandi e importanti emozioni, qualcosa che si colloca come retrogusto di un fatto un po’ dolce o un po’ amaro, e che la nostra mente immagazzina e risputa fuori sotto quella determinata forma.
Questo accade al poeta Nâzım Hikmet, e lo racconta in una delle sue poesie all’interno della raccolta Mondadori “Poesie d’amore e di lotta”, che recita così:
9 ottobre 1945 Sei venuta a trovarmi stanotte nel sogno: mi siedi vicina. La testa levata, i tuoi grandi occhi dorati posati su me. Mi chiedi qualcosa. Tu muovi le umide labbra, ma io Non ti sento la voce. Nella notte in un posto una sveglia risuona notizia di luce. Nell’aria il sussurro del senso infinito. Nella sua gabbia rossa il mio canarino che canta Memo, in un campo arato crepitare di seme che cresce che preme e mi giunge all’orecchio il legittimo rombo di popolo in festa. E tu sempre che muovi le umide labbra, ma io Non ti sento la voce… In pena mi sveglio e mugugno. Ho dunque dormito sul libro… E penso: la ridda di voci di suoni non era magari la voce tua sola?
Nâzım Hikmet (1902 – 1963), di origine turca, è considerato uno dei più grandi poeti dell’epoca moderna. Le sue poesie sono un concentrato di emozioni contrastanti che scorrono parallelamente al corso della sua vita lunga, difficile e intrisa di vicende politiche e militari.
La sua poetica spazia per argomenti differenti ma tutti legati alle sue esperienze personali, che furono molte. Visse la guerra, il carcere per la sua attività politica legata al comunismo, quattro matrimoni, e parla di tutto questo, d’amore, di prigionia, di dolore, di vita e della sua amata Istanbul. Tutto incorniciato da una strenua, fedele fiducia nell’uomo, così come scrive nella lettera al figlio, “Prima di tutto l’uomo”.
Può sembrare una figura distante dal panorama europeo, ma non è così, anzi, si colloca in un momento di preziosa comunicazione con molti altri autori universalmente conosciuti, tra cui Tristan Tzara, Pablo Picasso, Pablo Neruda e Jean – Paule Sartre, che nel 1950 contribuiranno a favorirne la scarcerazione al dodicesimo anno di prigionia in Anatolia.
Percepiamo i suoi testi vicini alla nostra pelle e alla nostra sensibilità, e al tempo stesso lontani nelle descrizioni di luoghi distanti in Oriente e un poco sfocati. Quasi come un sogno, un sogno dove non siamo sicuri se quello che vediamo sia veramente reale o forse solo un miraggio, come un villaggio nascosto nel deserto.
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