Un caffè con la morte
Si vive nonostante la morte. Però si muore, nonostante la vita. A prescindere da tutto quello che saremo riusciti a condensare tra il primo e l’ultimo respiro.
Le due considerazioni vanno a braccetto, ma non sono sullo stesso piano. A noi, su questa terra, spetta vivere; e anche se morire sicuramente ci riguarda, la morte è una dimensione che spesso ci interessa solo nella misura in cui si fa ponte, passaggio.
Mortali, il festival che si è tenuto a Trento tra il 2 e l’11 novembre, ha tentato non solo di ribaltare la nostra visione comune sulla morte – riconoscerne lo spazio che occupa all’interno della nostra vita – ma anche di illustrare e analizzare insieme ad alcuni esperti le diverse realtà che consentono di avvicinarla, capirla e affrontarla.
Per farlo ci si è affidati a dialoghi, laboratori, film, spettacoli teatrali e visite guidate. Tra le altre esperienze, ne è figurata una che in Italia è approdata da poco: il death café.
Il nome riunisce già gli aspetti fondamentali su cui si basa l’iniziativa di Jon Underwood: parlare di morte, e farlo davanti a un caffè. I death cafés sono incontri informali e senza scopo di lucro, finalizzati a creare uno spazio di confronto e di scambio di opinioni a proposito della morte.
A fornire ad Underwood l’ispirazione e una base teorica per lo sviluppo del progetto è stato il sociologo e antropologo Bernard Crettaz, artefice dei primi café mortel in Svizzera. La condivisione di un caffè – o di cibo e bevande più in generale – non è una scelta casuale: niente, secondo Crettaz, è capace di segnare la comunità dei vivi allo stesso modo.
Dal 2011 il sito deathcafe.com definisce i principi su cui si basa il progetto, e illustra le modalità per portarlo avanti nella propria città. A dodici anni di distanza dal primo incontro ufficiale, il totale degli eventi allestiti supera i 17 mila: i death cafés, a partire dal Regno Unito, sono sbarcati in più di 80 Paesi.
In Italia il primo incontro si è tenuto a Roma nel febbraio 2013. A questo ne sono seguiti altri, che hanno coinvolto più di dieci città italiane e hanno visto prendere piede anche iniziative simili, slegate dall’egida ufficiale ma ugualmente valide per idee e svolgimento.
A Trento il bar Bookique ha ospitato l’8 novembre per un death café informale la filosofa e tanatologa Laura Campanello e Annie Benoit, testimone del suo amore in prossimità della fine. Oltre a loro, una trentina di cittadini disposti a riflettere insieme sul tema della morte, davanti a un bicchiere di spritz – siamo in Italia – o a una bevanda a scelta, offerta da Mortali. L’incontro è stato realizzato in collaborazione con la Fondazione Hospice Trentino Onlus, realtà attiva nell’ambito delle cure palliative e della dignità del fine vita.
Annie Benoit ha parlato di Jacopo, malato terminale, e del tempo vissuto insieme prima della sua morte. Ha voluto far leva sull’atteggiamento con cui Jacopo affrontava da anni la sua malattia – un misto di serenità, ironia, e una certa dose di spudoratezza. Ci ha raccontato delle sue telefonate alle persone che aveva conosciuto per informarle che sarebbe morto presto e per ringraziarle dei momenti condivisi.
Ci ha parlato della voglia di vivere che scorreva prorompente dentro di lui, di come, ma soprattutto di quanto, abbiano vissuto nei mesi precedenti alla sua morte – come se, nonostante il dolore e le difficoltà che tentavano in ogni modo di ignorare, non ci fosse altro che la vita da vivere, e l’amore da lasciar sviluppare tra loro.
A metà incontro ha condiviso con noi una registrazione della voce di lui, un estratto di qualche minuto dei suoi pensieri poco prima di morire.
Jacopo parla con una consapevolezza lucida e nelle sue parole non si percepisce tristezza. Prima si rivolge al tumore con cui convive da tempo: lo stuzzica, come si fa con un vecchio amico. Racconta ironicamente di una certa suspense: erano tre i tumori che abitavano il suo corpo e si poteva solo scommettere su quale l’avrebbe ucciso prima. È stato quello ai polmoni a farlo. Tenaci anche fegato e cervello, ammette; ma non sarebbero riusciti a tagliare il traguardo.
Jacopo parla con onestà e, anche se la sua idea è quella di registrarsi per un lascito futuro, non sta offrendo consigli a chi lo ascolta – piuttosto un assaggio della sua visione, sorprendentemente serena, riguardo alla malattia che progredisce e alla morte che la accompagna. Ringrazia per il tempo che gli è stato concesso, per gli anni in cui il suo corpo ha funzionato e per la possibilità che avuto di mettersi d’accordo con Dio: avere ancora un po’ di tempo, abbastanza per veder crescere sia la figlia che la nipote. È interessante che parli di morire con un tumore, e non per un tumore. Del resto si muore lo stesso, no?
Di spunti per riflettere la registrazione ne offre già diversi; Laura Campanello ne aggiunge ancora. Commenta la sensazione di spiazzamento dell’eventuale interlocutore telefonico di Jacopo: un possibile imbarazzo dovuto alla mancanza di alfabeti per parlare di morte, alla nostra incapacità di trovare le parole nella continua ricerca di quelle giuste, che spesso porta a un silenzio impacciato o a locuzioni ripetute e sempre troppo fredde. Ci chiede quali sarebbero le nostre parole di fronte alla morte; non è affatto detto che la serenità di Jacopo porti avanti anche noi fino all’ultimo. E quale sarebbe il nostro lascito, poi? Perdono, ringraziamento? O lasceremmo andare tutto quello che non abbiamo detto prima? Lasceremmo una testimonianza di qualcosa che abbiamo capito, di un punto fermo a cui siamo arrivati?
Il dialogo si apre nella sala – per fare altre domande, condividere nuove riflessioni, magari raccontare di un lutto. Si fanno avanti, tra gli altri, dottoresse e infermiere in pensione, che la morte l’hanno sentita vicina fin troppo spesso.
Emerge un quadro complesso di emozioni e sensazioni, tirate in ballo e poi rielaborate insieme. Fanno capolino diversi dubbi, e qualche consiglio. Ci si domanda come si possa accompagnare nel fine vita, essere d’aiuto. Si riflette insieme sul significato di vicinanza, nudità di fronte all’altro, autenticità.
Si parla di quanto sia fondamentale, nell’approccio alla morte, uscire da quel meccanismo di problem-solving che la società ci insegna ad affinare. Non dobbiamo sempre avere la pretesa di dire la cosa giusta o intelligente: non c’è sicuramente soluzione al problema e non c’è nemmeno un modo giusto di arrivare alla fine. Nessuno della morte ha capito tutto. Proprio per questo, ci farebbe bene entrare in punta di piedi e balbettare; solo così potremmo scoprire come l’altro balbetta, commenta Laura Campanello.
Se morire è l’unica cosa che riporta tutti alla pari, sullo stesso piano, perché dovremmo avere paura di svelarci?
Si parla di accettazione, senza necessariamente intenderla come un punto romantico e lontano dalla sofferenza. Viene sottolineata l’importanza di riconoscere le nostre emozioni di fronte alla morte o a un lutto, senza scappare e senza ripudiarle – imparando, piuttosto, a tenere insieme i pezzi.
Si parla anche di fortuna: di come si muore e di quando si muore, di chi si ha intorno quando succede. Qualcuno confessa, comprensibilmente, di aver paura di morire solo. Qualcun altro riconosce quanto siamo fortunati ad avere la possibilità di poter anche solo parlare di questo.
Si torna, a tratti, a ripescare alcune delle parole di Jacopo. La sua narrazione, nota qualcuno, non è quella di una guerra contro il tumore, ma piuttosto di una convivenza, anche se dolorosa. Viene paragonata a quella della scrittrice Michela Murgia, morta pochi mesi fa. Vivere nonostante è il sottotitolo di questo festival; ma come si vive nonostante la malattia, nonostante la morte incombente? E come si rimane se stessi, come ci si occupa di tutte le dimensioni che ci compongono e non solo di quella che riguarda la malattia? E quanto gli altri ci permettono di farlo?
Alla fine dell’incontro, Annie fa girare una piccola cesta tra i partecipanti. Dentro ci sono dei bigliettini colorati, su ognuno dei quali è riportato un pensiero di Jacopo, che nell’audio confessava di sentirsi un po’ un predicatore. Io ne pesco uno che parla di passato, torno a casa con un altro piccolo spunto di riflessione e con la speranza che tutti, prima o poi, abbiano la possibilità di partecipare a un incontro del genere – forse per bisogno di un confronto, o magari per pura curiosità: a un certo punto, il tempo per farlo, non lo avremo più.