Dalla parte di tutte le vittime – Intervista ad Associazione Perseo
Innanzitutto vi chiederei di presentarvi.
A: Sono Alessandra Cova, psicologa clinica e forense nonché cofondatrice di Perseo, associazione istituita per dare seguito alla volontà di capire come va il mondo e intervenire laddove riscontriamo delle mancanze.
G: Io sono Giancarlo Rabericati, sono coach e formatore. Mi occupo della coordinazione delle attività della segreteria dell’associazione.
Come raccontereste Perseo a chi non la conosce?
A: Per chi non la conoscesse potremmo dire che Perseo è un’associazione che intende occuparsi di violenza a 360° ma che ha scelto un nome maschile per distinguersi dai centri antiviolenza femminili e soprattutto per operare anche in favore delle donne. Non vogliamo assolutamente essere una controparte dei centri antiviolenza femminili, anzi: collaboreremmo volentieri con loro anche se al momento è un po’ difficile. Il punto è che a noi interessa la violenza, sia usata, sia subita (e dunque le persone che la usano o la subiscono) all’interno di una relazione, che può essere amicale, genitoriale o affettiva, oltre a comprendere quali strumenti mancano a chi subisce per riuscire a dare una risposta matura. La violenza è un dato di fatto e non può essere eradicata, fa parte della natura umana e ha una sua ragion d’essere, il problema sorge quando diventa troppo forte, cioè nel momento in cui si ha un picco di violenza e bisogna riuscire a contenerlo. Tra l’altro ci sono modi ben diversi di usare violenza, da chi esplode in atti di violenza fisica e/o verbale a chi invece agisce in maniera più sottile usando violenza psicologica, ad esempio isolando pian piano la vittima. Noi vogliamo aiutare sia chi perpetra la violenza, sia chi la subisce, facendo realizzare a ognuno la propria situazione e lavorando quindi con entrambe le parti.
Siamo presenti su tutto il territorio nazionale da quando il Covid ha sdoganato gli incontri online per tutti e siamo quindi riusciti a raggiungere zone prima scoperte, ma facciamo anche incontri in presenza. Siamo per ora un gruppo costituito da psicologi e avvocati ma vorremmo in futuro ampliarci ad altre figure professionali, come psichiatri, mediatori, pedagogisti e neuropsicologi, figure in grado di dare un contributo all’interno dell’ambito della violenza.
Le persone ci chiamano attraverso un numero verde che svolge anche una funzione di filtraggio: spesso capita infatti che qualcuno chiami solamente per sfogarsi ma non voglia dare seguito all’azione, per cui gli operatori cercano di capire se questa volontà ci sia. In tal caso si prosegue con un secondo incontro, in presenza o online in cui si cerca di inquadrare meglio la questione e di decidere verso quali figure professionali inviare l’interessato, da lì verranno seguiti e assistiti.
Quali sono i problemi più comuni di chi si presenta in un centro antiviolenza come Perseo?
A: Da noi si rivolgono molte persone che stanno vivendo una separazione e in quel momento si sentono parte debole del processo, ad esempio fanno fatica a vedere i figli, o persone che hanno subito delle false accuse o ancora chi è in regime di pena sospesa, cioè persone che hanno commesso reati riconosciuti
come lievi, la cui pena può essere commutata con un percorso di recupero. Lavoriamo anche con detenuti che hanno bisogno di supporto per riuscire a stare nel sistema carcerario. Molti di loro sono in carcere in via cautelare e possono rimanerci per molti mesi, per cui spesso serve loro aiuto anche per riuscire a
muoversi nel processo e mobilitare tutte le risorse che hanno a disposizione o anche solo per riuscire a superare la separazione: chi si rivolge a noi ha una separazione conflittuale e spesso violenta. Una cosa che ci preme molto in questi casi è tentare di far ragionare i genitori nell’ottica della salvaguardia e del
benessere dei bambini, che spesso vivono la separazione molto peggio dei genitori.
Ci sono addirittura casi di figli sottratti ai genitori e messi in case famiglia senza che venga esplicitato il motivo in cui si cerca di comprendere quest’ultimo e ristabilire il legame familiare. Come sappiamo il tempo processuale è molto più lungo del tempo dei diritti dei bambini, che possono anche perdere anni molto importanti senza vedere i genitori.
Svolgiamo inoltre un lavoro di mediazione culturale all’interno di queste situazioni conflittuali, ad esempio in casi di coppie miste o di coppie di immigrati con figli che si sono inseriti nel nostro sistema scolastico, in cui potremmo trovarci a dover capire se il bambino subisce violenze che vanno rilette all’interno di una certa cultura per poi mediare coi genitori.
Un altro aspetto di cui ci occupiamo è il mobbing, che è terribile perché può generare una frustrazione nella persona che poi magari si riflette nell’ambiente familiare, generando quindi un altro tipo di violenza, perché magari quella persona da maltrattato inizia a maltrattare come forma scorretta di sfogo. Il
mobbing è difficile da far emergere, non se ne parla così tanto e le aziende tendono a metterlo sotto al tappeto. Infine da noi si rivolgono anche donne che subiscono violenza da donne e non trovano supporto altrove.
G: Un’altra componente interessante dell’informazione è l’educazione nelle scuole e negli istituti a riconoscere la violenza e andare oltre gli stereotipi per cui la violenza sarebbe la caratteristica più di un genere che di un altro. Ci possono essere declinazioni diverse dell’espressione della violenza, ma la violenza non ha genere e questo è importante trasmetterlo alle nuove generazioni.
A: Poi noi lavoriamo anche contro la violenza istituzionale, che è molto importante perché, anche se è brutto dirlo, spesso le persone si trovano coinvolte in iter giudiziari in cui vengono trattati in modo standardizzato, senza nessuno che si cali veramente all’interno della loro storia, per cui possiamo avere dei rapporti con assistenti sociali che in realtà non hanno una formazione specifica o con giudici e che magari non leggono completamente i fascicoli, prendendo la decisione che prendono di solito senza entrare nel merito. Tanto per fare un esempio, i classici tempi che vengono assegnati in una separazione ai genitori: i weekend alternati e il mercoledì pomeriggio, senza però considerare che lavoro facciano i genitori, perché se uno dei due è tutta la settimana via per lavoro perché dargli il mercoledì pomeriggio? Forse allora sarebbe meglio gestirli in un altro modo, cercando di riportare tutte queste figure a dialogare con gli avvocati. Avvocati che però spesso alimentano il conflitto, piuttosto che tentare di sanarlo e riportare il focus su quelle che sono le vere vittime nelle separazioni: i figli.
In questo discorso c’è poi anche un risvolto sugli anziani, che possono essere vittime di badanti, vittime all’interno delle RSA, in cui capita che siano trattati malissimo ma non abbiano nessuno che li tuteli o ancora vittime dei loro amministratori di sostegno. Spesso non hanno modo di esprimersi, sono fragili, si sentono persi. Noi cerchiamo in qualche modo di agganciarli ad un supporto o comunque di sensibilizzare anche su questa fetta di popolazione andando in giro a parlare di che cosa sono in realtà gli anziani, di quali fragilità possono avere, perché non sono più così forti, magari non hanno più il compagno o la compagna, magari i loro figli sono lontani, quindi devono per forza appoggiarsi alla persona che in quel momento è loro vicina ma non tutti sono dei geni con la tecnologia, quindi anche cercare un modo per avere aiuto nei momenti in cui sono da soli non è semplice. Per esempio qua a Milano, immancabilmente a giugno compare sui cartelloni: <<Chiama lo 020202 se sei solo e se soffri troppo il caldo>>, innanzitutto forse sarebbe il caso di non fare queste campagne solo per l’estate e
comunque questi messaggi rimangono sui cartelloni appesi fuori in città, niente che possa raggiungere in ogni modo l’anziano, il quale tra l’altro non è neanche scontato che abbia la possibilità di avvicinarsi al telefono e chiamare.
Bisognerebbe quindi cercare di attenzionare la questione, perché è un periodo che può essere ancora molto bello della vita ma che potrebbe essere anche portatore di grande fragilità.
Mi pare di capire che sostanzialmente il vostro tipo di supporto è basato su un’azione di mediazione caso per caso con profili professionali, giusto?
A: Io direi di scontro più che di mediazione, riferendoci ad avvocati, assistenti e giudici. Noi tentiamo la mediazione, ma siccome ci dicono <<no è così>> andiamo in contrasto, cercando di ottenere un risultato il più possibile adatto alle esigenze specifiche. Abbiamo un’attenzione particolare sui minori perché, se non si dà loro la possibilità di elaborarli, i guai che subiscono oggi emergeranno nella tarda adolescenza e nella giovane età adulta come loro fragilità. Purtroppo questi problemi vengono visti anni dopo che il fatto è successo e non si riescono ad associare direttamente. Riuscire a far capire l’importanza di avere un’ottica di medio-lungo periodo per l’evoluzione del minore coinvolto è importantissimo,
altrimenti, quando sarà nella sua giovane età, per lui stringere relazioni e fidarsi
sarà una cosa veramente drammatica.
G: Vorrei aggiungere che secondo noi uno dei tratti che rende Perseo efficiente è il fatto di lavorare costruendo un’équipe sul bisogno del singolo assistito che abbia delle competenze specifiche per le sue esigenze, per cui non ci sono procedure standard e questo rende molto più efficace l’intervento.
Sul vostro sito si legge che fornite anche supporto alle persone maltrattanti: in concreto che tipo di supporto fornite? Cosa porta una persona maltrattante a rivolgersi a voi?
A: Innanzitutto specifico che un maltrattante è una persona che ha ricevuto una sentenza di condanna, quindi ci deve essere stato tutto l’iter giuridico in cui la giustizia ha riconosciuto che c’è stato un danno a una persona. Dopodiché c’è la strada della pena sospesa, in cui c’è l’interesse della persona che sa benissimo che, sottomettendosi a un percorso di sostegno, evita gli anni di carcere che altrimenti gli toccherebbero. Noi cerchiamo di ricostruire la storia e l’ambiente in cui è nato il maltrattante e come mai si è arrivati a un danno. Se poi si tratta di reati per cui ora l’interessato è ai domiciliari o in carcere, cerchiamo di fare almeno il primo passo nella cosiddetta giustizia riparativa, cioè intraprendere dei percorsi con la persona per farle capire come mai ha agito in quel modo, partendo anche dal presupposto che spesso non ci sono un buono e un cattivo: all’interno di queste relazioni ci sono tante dinamiche disfunzionali che pian piano alimentano del rancore, della rabbia, della frustrazione e un’incapacità di reagire allo stress tale per cui fra i due è quasi casuale chi cede. Il fatto è che quello che
cede generalmente commette un reato, che giustamente la giustizia vede come tale e deve condannare ma che va anche riletto in un’ottica più umana e psicologica per capire come mai c’è un problema.
Le persone che si rivolgono a voi per questo tipo di problemi sono di solito più
collaborative e propense al dialogo e all’auto-analisi oppure più restie e arroccate
sulle loro posizioni?
A: Dipende da caso a caso, ci sono quelli più collaborativi e quelli più restii, poi sta alla nostra bravura come terapeuti farli sciogliere.
G: Poi a volte possono aver bisogno di tempo per sviluppare gli strumenti per aprirsi e per lavorare su di sé. Questo è il bello di lavorare individualmente: puoi veramente fornire all’assistito gli strumenti per osservarsi e poi da lì si può lavorare.
Nel rapporto con l’esterno avete mai ricevuto contestazioni dai media o dal vivo? Di solito da chi arrivano e come vi rapportate con queste?
A: Sì, decisamente. Quando abbiamo aperto la pagina di Perseo ci hanno asfaltato dicendo che l’avevamo fatto apposta perché cercavamo degli uomini per appuntamenti, e comunque ogni due per tre riceviamo sempre attacchi da quelle che si definiscono femministe, ma che femministe forse non sono. Per noi non
esiste un modo di vedere unico, la storia della persona va messa al centro perché va capita all’interno del suo ambiente di vita e del suo ambiente di crescita. In effetti è molto difficile per noi riuscire a portare alla luce quello che facciamo mediaticamente. Ci contattano dei giornalisti o anche chi vuole fare dei
programmi televisivi, magari pieni di entusiasmo, ma arrivati a un certo punto tutto cessa. Forse dall’alto non risulta mediaticamente interessante in questo momento.
G: Sì, anche perché risultiamo controcorrente, contro il sentire comune che attualmente prevede una chiara polarizzazione, una classificazione per genere secondo cui certi generi sono violenti e certi generi possono essere solo vittima. Questo è strettamente politico-ideologico, le persone non sono classificabili, non sono giudicabili in base all’ideologia, la complessità è troppo ampia.
A: C’è anche da dire che, a differenza di altre realtà, noi non riceviamo nessun tipo di finanziamento, né possiamo partecipare a bandi, perché i bandi sono per genere e quando partecipiamo ci rifiutano perché c’è scritto “genere” ma è sempre tradotto “donna”. Quindi noi operiamo solo ed esclusivamente con le nostre forze, con le nostre risorse economiche che provengono dalle quote associative che abbiamo o da quello che ci pagano gli assistiti, cercando di tenere al minimo possibile le tariffe, però sempre con rispetto degli ordini professionali e delle complessità dei casi che ci vengono sottoposti.
Questi bandi che vi sono preclusi, come sono disegnati a livello giuridico? Da cosa nasce esattamente questa barriera giuridica?
A: Se si va a leggere, apparentemente nel bando c’è scritto per esempio che il bando ha lo scopo di risolvere il problema della violenza nel contesto delle relazioni, poi però se partecipiamo la commissione dice di poter accettare esclusivamente dei centri antiviolenza femminili. Un’altra cosa che succede riguarda il 1522, il numero da chiamare quando si hanno problemi di violenza, che è tenuto dal Ministero delle Pari Opportunità e che sulla carta dovrebbe funzionare per chiunque. In realtà il gestore ha deciso che viene declinato esclusivamente al femminile. Quando abbiamo provato a chiedere almeno l’iscrizione al registro dei centri accreditati, abbiamo scoperto che era richiesto prima l’accreditamento presso la regione in cui c’è la sede legale dell’associazione, per noi la Lombardia. Una volta inviata la richiesta, la risposta è stata ancora che potevano solo accreditare associazioni che si occupano di violenza femminile. Allo stesso modo alcuni uomini che hanno provato a chiamare il 1522 si sono sentiti rispondere di no.
Riguardo alle sfide che l’associazione si prefigge di affrontare, trovate che dalla nascita di Perseo ci sia stato un miglioramento nella realtà italiana?
A: Si, nel senso che pian piano la gente inizia a conoscerci e a rivolgersi sempre di più a noi, perché comunque cerchiamo di essere presenti anche sui social e di partecipare a convegni quando possiamo. Man mano che le persone ci conoscono riusciamo anche a contattare tanti professionisti che magari la pensano come noi ma si sentivano isolati all’interno del sistema in cui lavoravano. Per quanto riguarda gli assistiti, sembra che poco alla volta ci sia anche da parte del genere maschile una maggiore consapevolezza nel riconoscere e nell’accettare di essere vittime di violenza. C’è però ancora in generale poca consapevolezza e poca educazione nel riconoscere le forme di violenza che non vengono normalmente considerate tali, per esempio le violenze economiche. Ancora oggi per la collettività la violenza è fisica o al massimo psicologica, tutte le altre condizioni sono ancora molto lontane dall’essere nel linguaggio o nel pensato della gente.
Secondo voi i motivi principali che possono portare un uomo vittima di violenza a essere restio a ricevere supporto sono più culturali o più derivanti da una da uno stigma sociale?
A: Direi entrambe le cose, nel senso che in alcune zone d’Italia riconoscersi come vittima di violenza è ancora difficile, perché non è considerato bello socialmente e perché per molti è proprio difficile da riconoscere. C’è anche da dire che se poi un uomo che alla fine decide di riconoscersi come vittima e di andare dalle forze dell’ordine spesso sono loro i primi che sminuiscono e delegittimano la cosa, dunque c’è molto lavoro ancora da fare dal punto di vista sociale. Questo secondo me è uguale a quanto succedeva anni fa rispetto alla donna, che faceva fatica a riconoscere e a dire a qualcuno di essere vittima di violenza e secondo me non si è ancora capito fino in fondo, perché molte persone vittime di violenza, che siano uomini o donne, fanno ancora fatica ad ammetterlo e a chiedere aiuto. Poi c’è anche un utilizzo estremo delle false accuse, che creano un intasamento sui tavoli dei magistrati di denunce di donne di vari maltrattamenti a carico di uomini che poi spesso finiscono con l’archiviazione. Magari però anche se il
processo si conclude con un’assoluzione, comunque quella persona è rimasta marchiata a livello sociale e le rimane lo stigma. Poi chi sta in un contesto abbastanza grande, come quello di una città, magari se la cava, ma in un paesino spesso si è costretti a fare le valigie e andarsene per riprendersi in mano la vita.
Dal lato della politica, la mia percezione è che il tema della violenza in generale sia ignorato dalla maggioranza dei partiti nello scenario italiano, dal punto di vista femminile e ancor di più da quello maschile. Vi rivedete in questa percezione? Se sì, da cosa credete dipenda?
A: Io direi che l’Italia è retrograda in tutto questo, perché noi abbiamo incominciato a guardare cosa c’è fuori dall’Italia e il discorso è avanti di decenni. Ci sono molti posti all’estero in cui effettivamente si è riconosciuto che esiste anche una violenza maschile e in cui fondamentalmente si porta avanti un
discorso di violenza in generale.
G: Ci sono numeri verdi o uffici specifici, attivi all’estero da 12 anni, per la violenza sugli uomini esattamente come ci sono per le donne. Per cui credo ci sia proprio un problema di sviluppo culturale e di consapevolezza, prima ancora che politico. Deve maturare una cultura del riconoscimento della violenza e della necessità di contenerla, correggerla e guarirla dove necessario.
Cosa vorreste ottenere dalla politica per operare meglio come associazione?
A: Non sarebbe male se la politica incominciasse a parlare senza schemi e quindi che appunto sposasse un concetto di violenza generale, portando avanti dei programmi per combattere la violenza in generale.
G: Sicuramente è più impegnativo comunicare con la popolazione evitando di dividere sempre i contenuti, però la semplificazione è sempre molto pericolosa quando si tratta di un tema come quello della violenza, perché si rischia di polarizzare i responsabili e creare delle strutture di pensiero recostituite, che poi a cascata influenzano tutto, dall’ abilità di giudicare di chi è nella posizione di dover giudicare fino al giudizio sociale delle persone. C’è poi un lavoro educativo all’interno delle scuole che sarebbe ora di incentivare, andando oltre la semplice giornata contro il bullismo, arrivando all’educazione emotiva dei giovani, alla capacità di riconoscere le proprie emozioni e, attraverso queste, di riconoscere la violenza agita, anche inconsapevolmente quando siamo più piccoli, e la violenza subita, che spesso sfuggono alla comprensione perché a monte non c’è una consapevolezza di cosa sia la propria violenza e come si declini nell’esistenza delle persone.
Invece quale sviluppo all’interno della società pensate vi sarebbe di aiuto in quello che fate?
A: Credo bisognerebbe cominciare a parlare un po’ della formazione di tutte le varie figure coinvolte nella gestione della persona. Mi viene in mente in questo momento il personale dei pronti soccorsi, in cui c’è un problema di mancanza di riconoscimento della violenza sugli uomini nonostante abbiano dei protocolli attivi per riconoscere i segnali di violenza, solo che se entra un uomo a cui la compagna ha spaccato il naso non si segue il protocollo che attiva un codice rosso, come succede a parti invertite. Oppure un altro esempio è la mancanza di sensibilizzazione delle forze dell’ordine a riconoscere la violenza nelle forme diverse dalla violenza fisica. Bisogna creare una maggiore sensibilità nel riconoscimento dei segnali.
G: Questo anche a livello sociale, nel senso che lo sguardo di scherno che a volte c’è fra gli uomini stessi nei confronti dell’uomo vittima la dice lunga su quanto c’è ancora da fare, perché mentre esiste una solidarietà femminile strutturata socialmente, per gli uomini devono ancora crearsi una solidarietà, un sostegno e una comprensione reciproca, ma mancano proprio gli strumenti culturali.
Per concludere, cosa potrebbe fare per aiutarvi chi proviene dall’ambiente universitario ma non ha una preparazione nel settore psicologico o giuridico?
G: Di cose da fare ce n’è un mondo, dalla gestione dei social alla comunicazione, dalla realizzazione delle elaborazioni dei dati statistici alla raccolta dei dati o alla compilazione di tutto il materiale portato che ci passa sulla scrivania.
A: E comunque secondo me un’università può aiutare anche nella comunicazione, creando eventi, sia online, sia in presenza o creando sportelli di ascolto, perché anche nell’ambiente universitario ovviamente c’è violenza.