Che cos’è il tempo?

Che cos’è il tempo? O, forse, meglio sarebbe dire com’è il tempo? Qual è il suo significato ultimo? Come si misura il tempo? Che cos’è il passato? Che cos’è il presente? Che cos’è il futuro? Perché tutto scorre? Ma davvero tutto scorre? O, invece, è tutto immobile, tutto fermo, tutto eterno? Che cosa vogliamo dire quando guardandoci negli occhi affermiamo stupiti che il tempo passa? È il tempo che passa o siamo noi a passare? È la sorgente o l’abisso della nostra vita? Chi è il tempo? È veramente un tiranno? O, forse, è un fanciullo che gioca immerso nel suo magico regno?
«Il tempo (Αιων) — dice Eraclito — è un fanciullo che gioca, che sposta i pezzi sulla scacchiera: reggimento di un fanciullo» (Eraclito B52) forse anche perché quando giochiamo come se fossimo bambini non siamo mai schiavi del tempo, anzi ne siamo gli imperatori. Ma la meraviglia del gioco quando è ormai prossimo il tramonto del sole cessa perché il bambino è richiamato dai suoi genitori e allora l’incanto del gioco si trasforma in inquietudine spalancando così le porte dell’angoscia ricordando a quel fanciullo e al suo regno che «tutto scorre (πάντα ῥεῖ)» (Eraclito, 12 DK) e che, dunque, niente è per sempre. Ma è davvero così? C’è davvero bisogno di dire, col Goethe del Faust, all’attimo di fermarsi perché è bello consapevoli della vanità di tutte le cose? Non è ogni cosa già ferma, stabile, in una parola eterna proprio per il semplice fatto di essere? Ma, senza avviarsi ora a un’interpretazione dello splendido frammento di Eraclito ciò che qui si vuole considerare è la parola eraclitea indicante il tempo: αἰών. Gli antichi greci, infatti, avevano tre parole per indicare il tempo: χρόνος, καιρός, αἰών. Mentre la prima si riferisce al tempo cronologico e sequenziale, la seconda si riferisce al tempo opportuno e propizio, la terza, invece, si riferisce al tempo eterno e immobile. Dunque χρόνος ha una natura quantitativa che, per certi aspetti, si potrebbe accostare alla concezione aristotelica di tempo come «numero del movimento secondo il prima e il poi» (Aristotele, Fisica, IV, 12, 219 b). Mentre καιρός ha una natura qualitativa, che, per altri aspetti, si potrebbe assimilare alla concezione platonica del tempo come «l’immagine mobile dell’eternità» (Platone, Timeo X, 37c-d). Inoltre, a queste differenze ne seguono comunque altre, fra tutte quella delle due concezioni del tempo, una lineare e una ciclica, che si annunciano già nel linguaggio c’è infatti «chi dice: il tempo passa, scorre, trascorre, fugge, ha in mente un tempo diverso rispetto a chi usa modi di dire nei quali il tempo è rappresentato da una ruota e parla perciò di cicli e di ricorsi. Per il primo il tempo è una forza progressiva, per l’altro una forza ciclica. Sebbene nel tempo siano presenti entrambi questi aspetti, è molto diverso se percepiamo l’uno o l’altro, a quale dei due prestiamo ascolto» (Ernst Jünger, Il libro dell’orologio a polvere, Adelphi, Milano 1994, p. 62). Ma in ogni caso senza soffermarsi sulla legittima distinzione fra la concezione lineare e quella circolare ciò che si vuole fare in questa sede è «ripetere in modo temporale la domanda “che cos’è il tempo?” Il tempo è il “come”. Se si insiste a chiedere che cos’è il tempo, non bisogna aggrapparsi affrettatamente a una risposta (il tempo è questo e quest’altro) che dice sempre un “che cosa”. Non guardiamo alla risposta, ma ripetiamo la domanda. Che cosa è accaduto della domanda? Si è trasformata. “Che cos’è il tempo?” è diventato: “chi è il tempo?”. Più precisamente: siamo noi stessi il tempo? O ancora più precisamente: sono io il mio tempo? Così mi faccio il più vicino possibile al tempo, e se intendo bene la domanda allora con essa tutto si è fatto serio. Dunque questo domandare è il modo più adeguato di accedere al tempo e di trattarlo in quanto ogni volta mio» (Martin Heidegger, Il concetto di tempo, Adelphi, Milano, 1973, pp. 49-50). Ma, invece, una volta che il tempo è definito come tempo misurabile, non c’è più speranza di arrivare al suo senso originario. E, infatti, «per noi è inconcepibile vivere senza orologi; ovunque andiamo, ovunque ci troviamo, siamo abituati a sentirli ticchettare e battere le ore, a portarli con noi, a lanciar loro rapide occhiate, vuoi che si tratti di minuscoli orologi da polso vuoi degli enormi orologi da torre. Sembra che nei luoghi in cui gli orologi si moltiplicano, il tempo sia sempre più scarso, più prezioso: così è nelle metropoli, negli aeroporti, davanti all’entrata delle stazioni» (Ernst Jünger, Il libro dell’orologio a polvere, Adelphi, Milano 1994, p. 21). Noi, sempre a correre dietro al tempo e mai, dico mai, che per una volta è lui a rincorrere noi. «Quando nei tempi preistorici ci si dava un appuntamento, i riferimenti temporali non potevano che essere costituiti di giorno dal sole, di notte dalle stelle. L’alba, il mezzogiorno, il tramonto erano i riferimenti fondamentali» (Ernst Jünger, Il libro dell’orologio a polvere, Adelphi, Milano 1994, p. 29). Dunque allora per sapere che ore fossero si rivolgeva lo sguardo al cielo, mentre ora per saperlo si rivolge lo sguardo alla terra credendo magari di far parte del mare di fango. Ogni istante crediamo dipenda dall’insopportabile ticchettio del nostro orologio: è lui che ci comanda mentre noi obbediamo, ma un tempo forse eravamo noi a comandarlo e lui a obbedire. La nostra convinzione ci fa credere che il tempo è quello dei quadranti e delle lancette dell’orologio senza farci pensare nemmeno per un attimo che il tempo siamo noi, il tempo è la nostra stessa vita, la voce del nostro essere. L’enigma del tempo allora non risiede nella sua misurazione, ma in ciò che propriamente significa la parola tempo. Infatti oltre al mero calcolo del tempo, qui gioca una differenza fondamentale il pensiero del tempo o, comunque, l’esperienza del tempo. Infatti come diceva anche Agostino: se non mi chiedi che cos’è il tempo, lo so, ma se me lo chiedi non lo so, cioè se non mi chiedi di rendere ragione del tempo esperisco perfettamente la sua essenza, ma il problema è quando mi chiedi di mostrarti il suo significato ultimo che non so più nulla. Dunque il tempo un po’ come la rosa di Angelo Silesio è senza un perché (ohne warum), anche perciò il magico pensatore argentino Jorge Luis Borges ripeteva più e più volte «che l’unico enigma è il tempo, quell’infinita trama di ieri, oggi e domani, del sempre e del mai» (Jorge Luis Borges, Il libro di sabbia, Adelphi, Milano 2018, p. 50). Il tempo dunque è un enigma perché è di per sé una colossale contraddizione: ogni stato del tempo dovrebbe infatti essere contemporaneamente passato, presente e futuro. Ma se si inizia col concedere che il passato si trasformi in presente e che il presente si trasformi in futuro, cioè che gli stati del tempi diventino altro da sè stessi, allora qualcosa che è in potenza qualcos’altro non può che finire col predicare di una stessa cosa cose diverse: «questo è il paradosso del tempo diverso perché identico e identico perché diverso» (Andrea Emo, Supremazia e Maledizione, Raffaello Cortina Editore, Varese 1998, p. 81). Infatti continua Emo: «Il passato e il futuro, le due ali con cui vola l’immobilità del presente. Il tempo fugge contemporaneamente, simultaneamente, in due direzioni diverse: verso il passato e verso il futuro. I due voli in direzioni opposte sono un unico volo. Sono l’immortalità, cioè l’eterno equilibrio del presente, in cui le due direzioni si incontrano continuamente allontanandosene» (Andrea Emo, Supremazia e Maledizione, Raffaello Cortina Editore, Varese 1998, pp. 139-140). Dunque fuori dell’attualità, dall’istante, dal qui e ora il tempo semplicemente non esiste o, comunque, è un continuo sacrificarsi come si crea così si distrugge a ogni attimo della sua eterna attualità, perciò «la resurrezione è l’origine, la sorgente del tempo» (Andrea Emo, Supremazia e Maledizione, Raffaello Cortina Editore, Varese 1998, p. 37). Ma allora se è evidente che l’attualità dell’istante è un perenne distruggersi è altresì evidente che noi esistiamo, quindi non si può non ammettere che la distruzione e l’esistenza coincidono, che, insomma, per dirla in altri termini, l’una è la faccia dell’altra. Il tempo è dunque sinonimo di distruzione, di annichilimento, di morte, pur essendo l’essenza della nostra stessa vita, meravigliosa e angosciante contraddizione. E, infatti, stando alla verità disvelata dalla mitologia «come è possibile che, ora, Crono-Saturno, il vincitore del padre, più crudele del padre stesso, divori i suoi propri figli?» (Ernst Jünger, Il libro dell’orologio a polvere, Adelphi, Milano 1994, p. 215). Perchè Crono-Saturno, cioè la figura mitologica del tempo, essendo il vincitore del padre, più crudele del padre stesso, come è illustrato magistralmente dalle impressionanti pitture del Saturno che divora i suoi figli di Francisco Goya o del Saturno divora uno dei figli di Paul Rubens, non può a sua volta non avere paura dei suoi stessi figli conoscendone perfettamente l’ἦθος, cioè il carattere, che è di conseguenza il destino. Dunque il carattere di Crono-Saturno attualizzatosi col destino di morte riservato al suo padre Urano è lo stesso identico carattere che i figli di Crono-Saturno riserveranno al loro padre. Tuttavia il Tempo (Crono-Saturno), oscuro profeta del destino, lo sa e dunque temendo i suoi figli come il tiranno della Repubblica di Platone teme i suoi sudditi decide di distruggere le sue stesse creature. Non è perciò un mero caso che ancora oggi sovente per le strade della città un vecchio signore affermi sconsolato che il tempo è un tiranno. Ma «noi siamo i creatori del tempo, la sua origine, la sua patria, il suo nido, e il suo propugnacolo, […]. [Tuttavia] del tempo – di cui siamo i creatori e gli esclusivi rappresentanti nel mondo, gli esclusivi proprietari – non possiamo possedere né il passato né il futuro. Non possiamo possederne nemmeno un istante; perché l’istante, nell’atto in cui compare, è già divorato dal mostro del nulla» (Andrea Emo, Supremazia e Maledizione, Raffaello Cortina Editore, Varese 1998, p. 123). Per esempio, nella Melancholia di Dürer «vediamo un angelo in atteggiamento pensoso, con in mano un compasso e circondato da uno strumentario faustiano di cristalli, bilance, serie numeriche. Un fuoco alchemico arde sullo sfondo cosmico. […] si osserva un grande orologio a polvere, una vera e propria clessidra […] raffigurata a metà del suo corso, il che significa, probabilmente, che il pittore osserva […] l’angelo nel pieno della loro attività. Ne è riprova il fatto che, nella “Melancholia”, la bilancia è in equilibrio, la campana oscilla e il fuoco arde. Siamo nel cuore del tempo» (Ernst Jünger, Il libro dell’orologio a polvere, Adelphi, Milano 1994, pp. 12-13). Dunque, siamo per l’appunto nel regno dell’assoluto effimero perché l’essere ora nel cuore del tempo è contemporaneamente la dimostrazione che prima il tempo non era ancora e l’ipotesi che dopo il tempo non sarà più. Eppure la maestria di Dürer riesce a immortalare l’istante cristallizzando così il pensiero dell’angelo, gioioso di sentirsi triste.
Ma noi, «re che si credono mendicati» (Daniela Monti, Che cosa vuol dire morire, Einaudi, Torino 2010, p. 156), non siamo migranti nel tempo, non siamo abitatori del tempo, noi siamo il tempo. Infatti così come «Prima di me non c’era tempo alcuno, dopo di me non ne verrà nessuno, / con me il tempo nasce, con me pure perisce» (Daniel von Czepko, Sexcenta monodisticha sapientum [sic!], in Sämtliche Werke, vol. I, tomo II, 1980, p. 592). Così se Epicuro della morte diceva che quando ci siamo noi lei non c’è e che quando c’è lei non ci siamo noi, ebbene noi del tempo potremmo dire che quando ci siamo noi lui c’è e quando non ci siamo noi lui non c’è. Dunque non è il tempo che passa, che invece è fermo, stabile, eterno, ma siamo noi che eternamente passiamo o, meglio, che oltrepassiamo: noi, i nostri genitori, i nostri nonni, in una parola la vita. Il tempo allora è vita e null’altro.

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