La voce di chi non ha più voce
Il mondo va troppo veloce e noi dobbiamo fare altrettanto. Viviamo in un Paese che incentiva una folle corsa verso la perfezione nel minor tempo possibile, schiacciando tempi diversi da quelli ritenuti giusti.
E se si entrasse nella concezione secondo cui non esistono tempi giusti o sbagliati, ma tempi diversi, vite diverse, percorsi universitari diversi? Oggi, l’università insegna a omologare e svalutare gli studenti. Conduce a far pensare che dentro il sistema universitario tu, matricola 218167, sei l’unico ingranaggio mal funzionante che porta ritardo alla grande macchina.
Creando un’aria asfissiante a causa di una pressione sociale che impone un modello sempre più performativo, passa in secondo piano il vero obiettivo: quello di formarsi e non performare sugli altri. Diventa quasi una gara tra gli studenti stessi: chi ottiene risultati migliori, chi dà più esami, chi si laurea prima. Questo ambiente conduce all’unica soluzione che sembrerebbe possibile per non ammettere un proprio fallimento e per non rallentare più la macchina: togliersi la vita, a causa di una bocciatura all’università o di una laurea ancora troppo lontana.
Ma non siamo macchine, siamo esseri umani e i suicidi in università non sono più casi isolati. “Ho fallito negli studi”: è questo ciò che i ragazzi universitari pensano. Questa credenza è diffusa non solo tra coloro che decidono di compiere il gesto estremo, ma tra la maggior parte degli studenti. L’università può farti sentire inadeguato e fuori posto quando non si riescono a dare tutti gli esami previsti in una sessione o quando non ci si laurea nei tempi prestabiliti. Il mondo corre e se non si rispettano i giusti tempi è troppo tardi e non c’è tempo per il fallimento e non si dà spazio al riposo. Non c’è tempo neppure di ammettere di aver sbagliato, per questo si mente ai propri genitori, perché si crede di poterli deludere; così, per alcuni si passa dalle bugie al suicidio.
“Capita di iscriversi a un corso di laurea e poi accorgersi di non essere portati. Alcuni se ne vergognano, senza sapere che è normale. E che si ha il diritto di sbagliare nel cercare la propria strada” (Elena Cattaneo, biologa e senatrice a vita).
Non pensare mai che un tuo fallimento all’università, a 20 anni o 30 anni, possa essere decisivo per il tuo percorso. Non si è meno validi se non ottieni la laurea triennale in 3 anni, la magistrale in 2, se non ti laurei in Giurisprudenza in 5 anni o in Medicina in 6. Non fallisci se non sei come gli studenti elogiati dai giornali, se non sei lo studente da 110 e lode.
Non fallisci tu, fallisce l’università italiana. Falliamo tutti noi, come società che conduce ventenni o trentenni a credere che aver fallito negli studi è sinonimo di aver fallito nella vita.
I suicidi dei nostri colleghi sono il frutto di un disagio psicologico grave, che nasce e si sviluppa in università stessa, quella che frequentiamo ogni giorno. A volte in quell’ambiente che ha lo scopo di far crescere ci si muore, realmente o simbolicamente, quando perdiamo la forza di andare avanti.
Questa è la voce di chi non ha più voce: che supplica di ricevere il mancato supporto psicologico dentro e fuori l’università. La tutela della salute mentale non può essere un capriccio delle nuove generazioni, come alcuni lo descrivono, ma è il vivere in una società ed è il crescere in un’università – che imprime sempre di più tempi e canoni da rispettare – che l’ha resa una priorità alla quale non possiamo più restare indifferenti.