Sanzioni contro la Russia
Con l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, in corso dal 24 febbraio, la risposta sanzionatoria dell’Occidente e dei suoi alleati è stata, dopo qualche tentennamento, rapida e decisa. In particolare, Stati Uniti, Unione Europea, Regno Unito, Australia e Giappone hanno votato misure restrittive per condannare le azioni russe e ostacolare le operazioni intraprese dal Cremlino. Anche nelle istituzioni internazionali la condanna è stata supportata da molti attori del sistema internazionale. Nel corso dell’Assemblea generale ONU, convocata il 2 marzo in seduta straordinaria a causa della guerra, 141 Paesi hanno votato la risoluzione di condanna nei confronti della Russia (con una grande sorpresa tra gli astenuti). Analizzeremo il gruppo principale di sanzioni, quelle votate in accordo da UE e USA, dall’inizio del conflitto a oggi e particolarmente rafforzate dopo la dichiarazione congiunta del 26 febbraio. Tali sanzioni sono state definite “senza precedenti nella Storia” dal Presidente Americano Joe Biden e dal Presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen. Esaminiamole nel dettaglio.
Quali sanzioni?
USA e UE hanno emanato sin dal 23 febbraio – il giorno precedente all’invasione russa – pacchetti di sanzioni via via più duri. I due partner si sono continuamente consultati in modo da prendere misure coerenti e condivise. Le sanzioni sono state rafforzate il 25 febbraio, poi ancora il 3 marzo. Nel complesso, le misure restrittive approvate possono dividersi in due categorie: sanzioni economico-finanziarie e sanzioni personali. Le sanzioni economico-finanziarie colpiscono prevalentemente le banche russe: tre grandi istituti di credito si sono visti disconnessi dal sistema SWIFT, linea di comunicazione per i pagamenti transnazionali. Tra queste banche spicca la Sberbank, la principale banca di Stato russa e una delle prime 100 del pianeta, che ha lasciato il mercato europeo proprio in questi giorni, provocando il fallimento delle sue controllate in Europa. Vi sono poi restrizioni all’acquisto del debito sovrano russo, in modo che creditori europei e americani non finanzino indirettamente il Cremlino. La principale e più dura sanzione colpisce la Banca Centrale russa, in modo da bloccare parte delle sue riserve per un valore di 630 miliardi di dollari. Si vorrebbe impedire alla Banca centrale, in un contesto di tensione, di sostenere il rublo e di avere liquidità necessaria a supportare le banche o condurre la guerra. In tal senso le viene vietato di utilizzare dollari ed euro (si consideri che il 40% delle riserve russe è in dollari) e di utilizzare riserve depositate in Paesi che hanno votato le sanzioni. Si vuole quindi evitare che queste riserve messe da parte dalla Russia negli ultimi anni possano essere spese per finanziare l’invasione o lenire gli effetti delle sanzioni. Vi sono inoltre restrizioni alla vendita alla Russia dei cosiddetti “dual use goods“, beni che possono trovare un impiego sia civile che militare: si trovano in questa lista conduttori e semiconduttori, software e droni.
L’altra categoria è costituita dalle sanzioni sulle persone, in particolare contro Vladimir Putin, il suo ministro degli Esteri Sergeij Lavrov, e altri della loro cerchia, in particolar modo gli oligarchi, ricchissimi e influenti imprenditori particolarmente vicini al governo. Sequestri di proprietà, congelamenti di conti e divieti di viaggio sono le misure prese contro 702 individui. Solo negli ultimi giorni le autorità italiane hanno sequestrato 140 milioni di dollari a oligarchi russi sul territorio nazionale. Inoltre, alle banche europee è vietato mantenere aperti conti correnti intestati a cittadini russi per un valore maggiore di 100.000 euro.
Impatto delle sanzioni
Nell’immediato le sanzioni sono volte a creare una sorta di “arresto cardiaco” nell’economia russa. I sintomi sono già in corso e si rafforzeranno nel tempo: crollo del rublo, fuga di capitali e aziende straniere, collasso in borsa (all’indomani dell’invasione la borsa di Mosca aveva già perso il 33%) e sua chiusura, generalizzata perdita di fiducia da parte degli investitori stranieri (le agenzie di rating Moody’s e Fitch, e la banca Morgan Stanley prevedono il default di Mosca). MasterCard e VISA hanno comunicato la loro uscita dal mercato russo e numerosissime società europee e americane, dal lusso all’energia, dalla finanza alle automobili, stanno lasciando la Russia. L’abbandono in massa del mercato russo da parte di diverse aziende non costituisce solo una conseguenza delle sanzioni, ma anche un’ulteriore sanzione inflitta da privati al Cremlino: la loro partenza colpisce l’economia russa duramente. Le prime correzioni sulle stime della crescita del PIL russo prevedono già una perdita del 7% nell’anno 2022.
Quali conseguenze sul settore energetico?
Al momento petrolio e gas sono esclusi dal blocco delle sanzioni, il sistema SWIFT è ancora attivo per l’acquisto di fonti energetiche russe. Se l’America gode – grazie alla rivoluzione dello shale oil e alle tecniche di estrazione avanzate (il fracking) – dell’indipendenza energetica nel campo dei combustibili fossili, altrettanto non si può dire dell’Europa, che importa il 40% del suo gas dalla Russia. Per questa ragione, le sanzioni americane sull’energia sono molto più severe di quelle europee: l’8 marzo il Presidente americano Biden ha vietato l’importazione di gas e petrolio russi. Per quanto invece i governi dell’Unione abbiano annunciato di volersi muovere per diversificare il loro approvvigionamento di petrolio e gas, tale diversificazione non potrà essere completata in tempi brevi. La rinuncia da parte dell’UE al gas russo non sembra una via percorribile, salvo complicazioni nel conflitto. Tuttavia, entrano in gioco fattori esterni al regime sanzionatorio. L’energia è divenuta molto costosa, proprio a causa delle tensioni internazionali, con il prezzo del petrolio attestato a circa 120 dollari al barile.
Come reagirà la Russia?
Anzitutto potrebbe utilizzare la leva economica, riducendo le sue esportazioni di petrolio e gas naturale, di cui la maggior parte dei Paesi europei è dipendente. Ma non solo: fondamentali sono altre materie prime e metalli (si ricordi che la Russia è il secondo esportatore al mondo di metallo), essenziali per la filiera produttiva internazionale. Se poi il Cremlino dovesse completare con successo l’occupazione dell’intera Ucraina potrebbe bloccare l’esportazione anche di materiali ucraini essenziali per la produzione di conduttori e semiconduttori da parte delle industrie europee. Si pensi, ad esempio, a platino, rame, nichel e neon, necessario per la produzione di chip, di cui Russia e Ucraina sono esportatori fondamentali. All’industria alimentare potrebbe venire meno anche il grano. In un tentativo di rispondere in maniera asimmetrica al blocco economico, Mosca agita la minaccia dell’allerta nucleare. Affermando che le sanzioni occidentali sono un attacco alla sicurezza russa, Vladimir Putin ha ordinato l’innalzamento del livello di allerta delle forze nucleari russe. Il messaggio del Cremlino è chiaro: la Russia vede le sanzioni come un atto ostile a cui va contrapposta anche la minaccia armata. Il governo russo starebbe inoltre valutando di disconnettersi dall’Internet globale, creando una sua rete interna.
Le sanzioni avranno successo?
Riusciranno le sanzioni “senza precedenti” a fermare l’invasione russa? Anzitutto dobbiamo precisare che, indipendentemente dalla loro efficacia, le sanzioni sono l’arma più forte in nostro possesso, l’ultimo strumento pacifico prima di un intervento armato contro Mosca, che citando il Presidente Biden “porterebbe a una Terza guerra mondiale“.
Esiste una vasta e interessante letteratura sull’efficacia delle sanzioni, riassunta nel report di ISPI (Istituto di Politica Internazionale) dedicato all’efficacia delle misure restrittive. I dati non sono particolarmente confortanti. Le sanzioni hanno successo nell’interrompere un’azione messa in atto dallo Stato bersaglio solo un terzo delle volte. La probabilità scende a un quarto se l’azione che si va a sanzionare è di tipo militare: lo Stato più difficilmente vorrà tornare sui propri passi, essendo l’ambito più sensibile della sovranità nazionale. Infine, la probabilità di successo cala ulteriormente a un decimo se il Paese sanzionato è governato da un regime non democratico: il prestigio del leader e della classe dirigente più difficilmente può essere messo in discussione e vi è una maggiore propensione all’autarchia. Vari possono essere gli esempi storici in cui le sanzioni non hanno funzionato: Cuba (dal 1962), Iran (sanzioni approvate dal 1979 e rafforzate negli anni 2000), Corea del Nord (dagli anni Novanta in poi) e contro la stessa Russia per l’annessione della Crimea (2014). I governi in carica non hanno mutato il loro atteggiamento, nonostante il forte isolamento internazionale nei primi tre casi, né sono caduti.
Per quanto molto probabilmente non saranno queste misure a fermare l’invasione russa, occorre comunque precisare che la politica internazionale è fatta anche di simboli. Le sanzioni servono a fissare un costo, imporre un prezzo da pagare per violazioni molto gravi, come l’aggressione a uno Stato sovrano.
Per avere efficacia, inoltre, le sanzioni hanno bisogno di poter funzionare nel lungo periodo a due condizioni: devono essere generalmente condivise da tutti (o quasi) gli attori del sistema internazionale e deve esserci unità di intenti tra coloro che le impongono. Su quanto le sanzioni siano condivise dagli attori internazionali è importante notare che, sebbene gli USA, l’UE, l’Australia e il Giappone si siano mossi subito e in maniera coerente, altri Paesi importanti quali Cina e India non hanno preso alcuna misura contro la Russia. Interessante è comunque il voto alle Nazioni Unite, con 141 Stati che si sono espressi contro Mosca e che ha visto perfino la Cina astenersi, nel tentativo di non esporsi troppo nei confronti degli occidentali, suoi principali partner commerciali, e di essere cauta sulle dispute territoriali, avendo in corso quella di Taiwan.
L’altro aspetto è l’unità di intenti tra gli alleati. Allo stato attuale l’Occidente ha dato prova di grande unità. Le relazioni transatlantiche hanno conosciuto un rilancio nell’unanime condanna dell’invasione. La NATO, la cui stessa utilità era stata messa in dubbio da Macron, torna ad essere la chiave della garanzia americana all’Europa. Tuttavia, sul lungo periodo la Russia potrebbe sfruttare a suo favore le prime insoddisfazioni nate a causa dei costi dell’energia, specie da parte degli Stati più dipendenti verso il gas russo (Italia, Germania, Ungheria). Sta ai governi e ai cittadini, europei e americani, assicurarsi che questa unità non venga meno ai primi segni di difficoltà.