Oscar 2024: l’eterna questione tra meritocrazia e democrazia
E anche per quest’anno è… aspè, non sono qui a riprendere piè pari l’incipit di ogni articolo uscito in questi ultimi giorni, all’alba della consacrazione di vincitori (e vinti) agli Oscar, andati in scena (anche se con poco spettacolo) domenica notte 10 marzo.
Si potrebbe parlare di cosa? Della vittoria di Oppenheimer? O meglio: della vittoria del suo artifex onnisciente che risponde al nome di Christopher Nolan?
Forse più che il film, è lo stesso regista ad aver scritto una pagina importante della sua storia e non solo: dopo le precedenti nomination tecniche ottenute dai suoi blockbuster a là Interstellar, all’oscar postumo per Heath Ledger in The Dark Knight, ora Nolan può finalmente (e giustamente) ricevere un tributo al suo lavoro.
Che parte dalla scrittura visiva e dinamica delle sceneggiature e finisce nel mastodontico processo di post-produzione, senza dimenticare l’organizzazione grandiosa sul set tra macchinari e ingombranti telecamere IMAX.
Ma per rimanere in tema “regia”, forse sarebbe opportuno sottolineare la silenziosa vittoria di Wes Anderson, al suo primo Oscar dopo sette nomination andate a vuoto.
É vero: la categoria “Miglior Cortometraggio” non é che cambi la carriera di un autore già consacrato nella storia per stile ed estetica, ma una statuetta avrebbe dovuto ottenerla da un pezzo, oltre che un po’ di maggiore considerazione… perlomeno dopo quel gioiellino che fu Grand Budapest Hotel.
Ma rimanendo sul tema del titolo, perché parlare di meritocrazia e democrazia? Gli Oscar, o meglio gli Academy Awards, si sa, non sono un giudice irreprensibile e imparziale: il voto è mediato da innumerevoli fattori interni ed esterni al business, variabili che agiscono infidamente sulle quotazioni dei film, mesi prima che escano le effettive candidature.
Non che questo danneggi la credibilità dei membri chiamati ogni anno a dare le loro preferenze, ma le scelte cercano spesso di venire incontro agli eventi intercettando gli interessi del pubblico e le dinamiche del mercato, che permettono di misurare il successo attraverso elementi tangibili e quantificabile in numeri.
E per questo dopo anni, anzi decenni, era giunto il momento di dare a “Nolan ciò che è di Nolan”, per usare un eufemismo: il film è indubbiamente quello giusto.
Pesante ma non pedante, lungo ma non prolisso, energico ma non chiassoso, drammatico ma non smaccato; e soprattutto un compendio di immagini fortificate da una conturbante colonna sonora (indiscutibile la vittoria di Ludwig Göransson).
La musica sembra emergere dalla mente stessa del suo potente protagonista (Cillian Murphy, anche lui, scusate se mi ripeto, premiato con una statuetta), dove i numeri dei calcoli fisici su carta si tramutano in note e suoni dispersi nell’ambiente soffocante di una sala interrogatorio o nella vastità del deserto di Los Alamos.
Tanti Autori con la A maiuscola, insomma, a questi Oscar 2024: da Povere Creature di Yorgos Lanthimos, che può amaramente sorridere per la vittoria di Emma Stone come Miglior Attrice Protagonista (a cui si aggiungono rispettivamente quelle per costumi, trucco e scenografia).
A Jonathan Glazer, regista di La Zona d’Interesse, il quale invece può sfregiarsi del vanto di essere stato per qualche istante il favorito: un europeo che poteva battere in casa titani come Martin Scorsese & Co.
Alla fine il regista inglese ottiene il premio più ovvio: Miglior Film Internazionale, sul quale c’erano, non dubbi, ma solo certezze granitiche (diversa invece la meritata vittoria anche per Miglior Suono).
Viceversa, appare più appagante, anche se di minor peso, la statuetta per la Miglior Sceneggiatura Originale assegnata all’altra beniamina oltreoceano (questa volta francese) Justine Triet, che si riscatta nei confronti della sua stessa nazione, rea di avere scartato Anatomia di una Caduta, preferendo La Passion de Dodin Bouffant tagliato fuori già nella preselezione.
In questo senso, le loro due vittorie hanno sicuramente marcato positivamente la stagione del cinema europeo appena trascorsa e dato maggior attenzione ai due “stranieri” più benvoluti dei festival: quelli sì sono vetrine lussuose per chi in cerca di un certo, concedetemi il termine, decoro.
Qualcuno doveva pur rimanere a mani vuote, o no? Martin Scorsese, non abbi male, ma la vittoria non avrebbe significato nulla se non per onorare la sua illustrissima carriera (ma per quello hanno istituto non a caso l’Oscar alla Carriera).
Dicasi la stessa cosa per Barbie: con un bottino di 8 nomination può già ritenersi soddisfatta la regista Greta Gerwig, non di meno la protagonista Margot Robbie, anche lei scartata come la prima dalla propria categoria di riferimento.
Il ruolo di Barbie rimane infatti quello di un simpatico film, semplicemente più furbo e intelligente (e forse anche meno scontato) rispetto alla mediocre trafila di cine-comics di oggigiorno.
Perlomeno, le due produttrici e autrici donne hanno creato una pellicola che, al cospetto di molti altri anonimi blockbuster dal medesimo appeal commerciale, appare più densa e impegnata nelle intenzioni (al pubblico l’ardua sentenza).
Un degno vincitore è Cord Jefferson, premiato al suo esordio per la scrittura del lungometraggio da lui anche diretto American Fiction: la sua, appunto, fiction é una narrazione nemmeno così fantasiosa, ma finemente impregnata di quell’ironia beffarda che permane la quotidianità, mista alla casuale e surreale sequenza di eventi che scombussolano i nostri piani.
Se però si scava più a fondo sul percorso fatto dal film, non è opportuno parlare di un outsider, poiché aveva attirato l’appetito dei critici a partire già da un anno fa e testate giornalistiche come il The Guardian ne parlavano con toni entusiastici: é bastato quindi quell’ultimo sprint in prossimità della release ufficiale e ottenere abbastanza visibilità per convergere il voto dei giurati.
I quali hanno premiato l’adattamento dal romanzo Erasure di Percival Everett, forse non la sceneggiatura più epica tra quelle nominate, ma sicuramente quella dotata di temi intelligenti e personaggi di immediata comprensione: a volte espressi con schietta semplicità, a volte smodati nei pensieri e azioni, ma mai fuori contesto e con un occhio sul presente sempre critico e accorto.
E guarda caso la trama, incentrata su uno scrittore appena diventato un caso letterario e posto di fronte al rischio di essere scavalcato da chi furbamente sa come anticipare i gusti del pubblico, sembra proprio parlare all’oggi: al posto di correre il rischio di vendere una storia originale lontana da facili cliché, si preferisce il facile guadagno assecondando i più deplorevoli compromessi.
Per fortuna ciò non è il caso di chi ha onorato, anche con la sola presenza, la qualità dei concorrenti in gara quest’anno: John Williams non avrà vinto per l’ennesima volta l’Oscar alla Colonna Sonora, DiCaprio deve rinunciare ad una storica doppietta, ma perlomeno nessuno tra vincitori e sconfitti è stato chiamato lì solo per scaldare la sedia.
Poi, se la vittoria di uno piuttosto che di un altro è stata decisa (anche) da sottili questioni slegate dall’arte, ci sarà tutto il tempo per discuterne.
Rimane la consolazione di salutare un autore giunto alla fine della sua carriera, sempre con i piedi per terra ma con lo sguardo fiero rivolto in alto ai limiti dell’immaginazione: Hayao Miyazaki si aggiudica la seconda statuetta (21 anni dopo la prima) per il Miglior Film d’Animazione.
Il Ragazzo e l’Airone non sarà visivamente innovativo come il rivale Spider Man, ma se dovessimo premiare solo la qualità degli effetti speciali al dì sopra del perfetto bilanciamento tra linguaggio e parole, suoni e immagini, personaggi e paesaggi, cultura orientale e occidentale, che senso avrebbe attanagliare le nostre menti a sviscerare pregi e difetti di un’opera, quando basterebbe scegliere in base al budget investito e al fatturato del box-office?