Rapida incursione nella crisi ‘29

Avete mai visto questa foto? Quelli che vedete sono i borsisti che nell’ottobre del 1929 si sarebbero lanciati dai grattacieli dopo il grande crollo di Wall Street. Prima di tutto chiariamo che è un falso storico, che per quanto grave sia stata la crisi, non ci sono stati stormi di borsisti volanti. Tuttavia molte altre foto, per certi versi ancora più suggestive, sono vere e ben rappresentano il caos e la tragedia che ha seguito il 1929.

La crisi che è iniziata il 24 ottobre, un normale giovedì autunnale, e che è proseguita il martedì successivo è ferma nell’immaginario collettivo come una delle più grandi crisi economiche. In queste poche giornate furono vendute circa sedici milioni di azioni e il valore delle stesse calò di circa dieci miliardi di dollari. Il giovedì infatti era avvenuto il primo crollo, venerdì la borsa era stata chiusa per evitare ribassi e fortunatamente arrivò il fine settimana. Alla riapertura lunedì si galleggiava ancora. Martedì, ricordato come il “Black Tuesday” la borsa crollò definitivamente. Ciò che è interessante è che nell’immediato il crollo, per quanto fu disastroso, non fu subito percepito come tale. Nella borsa infatti è normale che ci siano oscillazioni e crolli. La subitanea risposta consistette in un “appello alla responsabilità”, un invito ai borsisti a non ritirarsi e a continuare ad investire per far ripartire l’economia, per creare del margine per dei nuovi profitti. All’inizio sembrò funzionare, ma col tempo diventarono sembra più evidenti i segni di una crisi molto più profonda che colpiva non solo la società e lo stato ma il capitalismo, il liberismo che lo guidava e la democrazia.

Così, dalle immagini dei borsisti si passa alla immagini delle Hooverville, grandi baraccopoli fuori dalle città, e a quelle delle dustbowl, le tempeste di sabbia dovute alla desertificazione del terreno. Dalla grande fiducia e crescita degli anni ’20, la democrazia stessa vacilla e grandi immigrazioni interne verso l’ovest sembrano diventare la soluzione alla grande depressione. Tra il ’29 e il ’30 la situazione anche in Europa sembra rimanere abbastanza stabile, in declino, ma ancorata ai presupposti economici degli anni ’20. Gli Stati attuarono politiche deflazionistiche e tentarono di rimanere agganciati al gold standard. A cavallo del ’30 e del ’31, poi compiutamente nel corso del ’31 e con l’apice nel ’32, la crisi investì tutto il mondo e nessuno sapeva più dove girarsi per trovare sostegno. Così ognuno tendeva a rivolgersi al proprio interno e venivano proposte una serie di soluzioni comuni che caratterizzarono, con le determinate condizioni, gli anni ’30 e, a mio avviso, anche quelli successivi.

Per capire davvero quello che è successo bisogna tenere a mente che la crisi è stata totalmente inaspettata anche se, a ben guardare, c’erano state delle avvisaglie, per lo più ignorate. In Florida per esempio c’era stato un crollo dell’edilizia, ambiguo in quanto era proprio questo il settore che trainava maggiormente l’economia. Nell’estate del ’29 si erano visti anche alcuni cali in borsa, ma niente da far preoccupare gli investitori.

È stato un fatto inaspettato che ha colto l’America di Hoover alla sprovvista e con lei il mondo intero. D’altra parte si possono ricostruire i motivi e le cause principali del crollo e vedere che è stato una conseguenza, forse inevitabile, di un sistema pieno di contraddizioni e compromesso alle radici.

Senza ombra di dubbio, le misure estremamente liberiste dei presidenti americani hanno giocato un ruolo importante. La deregolamentazione del mercato, il taglio della tassazione, la libertà della borsa culminata con un giudizio della Corte Suprema che vietava di tassare i profitti azionari. Una serie di regole che impedivano una qualsiasi protezione dei lavoratori, delle imprese o delle banche. La produzione interna veniva favorita anche da una forte politica di dazi che rendeva estremamente difficile importare merce dall’estero, il decreto Smooth-Hawley ne è forse la prova più lampante.

Tutto questo era poi aggravato da una delle più importanti incoerenze macroeconomiche, ovvero uno scarto spropositato tra economia reale ed economia finanziaria. Questa sproporzione, che vedeva un aumento del 10% della prima, ma del 60% della seconda, ha portato alla formazione di una bolla speculativa. Gli investitori infatti trovavano molto più vantaggioso spostare i propri capitali dall’economia reale a quella finanziaria, alimentando così un circolo vizioso. Se all’inizio portò grandi profitti, alla fine questo scarto si rivelò estremamente dannoso.

Parlando di circoli viziosi, bisogna menzionare il via vai di capitali da e verso l’Europa. Gli USA infatti si erano resi disponibili ad aiutare la ripresa del continente nel primo dopoguerra. In particolare attraverso il “Piano Dawse”, che mobilitava principalmente capitali privati, erano riusciti a far ripartire l’economia europea. Questi capitali avevano favorito un circolo virtuoso che nel 1929 si trasformò però in un circolo vizioso. Inizialmente infatti i dollari affluivano verso la Germania che riuscendo a stimolare la propria economia riusciva a ripagare i debiti di guerra verso Francia e Gran Bretagna, che così, a loro volta, potevano saldare i debiti acquisiti durante la Grande Guerra nei confronti degli Stati Uniti. Col crollo di Wall Street i capitali americani si interruppero bruscamente e questo meccanismo benefico si inceppò.

Collegata al mercato globale si trova anche un’altra incoerenza macroeconomica, che avevamo già implicitamente citato: il fatto che gli USA, che da una parte tentavano di far ripartire l’economia europea, dall’altra, però, non mettevano a loro disposizione i propri mercati. Attraverso una politica protezionistica, con imponenti dazi sull’importazione, volta a incentivare la produzione interna, avevano creato un sistema internamente malato. Gli Stati europei, in particolare la Germania, non avevano un importante acquirente, un mercato florido che permettesse di vendere i propri prodotti per riuscire ancora una volta a ripartire economicamente e saldare i debiti.

Inoltre, l’economia basata sul gold standard, un sistema economico che permetteva la conversione delle valute in rapporto alle riserve auree dello Stato e per questo favoriva commerci e scambi, dopo la prima guerra mondiale subisce un cambiamento radicale. Se prima della Grande Guerra la Banca d’Inghilterra interveniva nel caso una valuta crollasse, comprandola e fornendo prestiti alla corrispondente banca centrale per ristabilire il valore e la stabilità, dopo il conflitto, invece, la Gran Bretagna figurava come uno degli stati più in difficoltà e che dipendeva dalle riparazioni di guerra. In questa situazione in cui non poteva più fare da garante a questo sistema, nessuno (si pensi soprattutto agli Stati Uniti, unici in grado di sostenere un tale impegno) prese il suo posto lasciando il meccanismo scoperto e senza assicurazioni.

Le contraddizioni però non finiscono qua. Anche nel mercato interno permanevano delle dinamiche corrosive che portarono lentamente al collasso dell’economia. Per prima cosa bisogna parlare dell’agricoltura. Molti stati dopo la guerra investirono su questo settore per sventare il possibile pericolo di carestie o di inedia collettiva. Negli USA in particolare i meccanismi finanziari e del mercato spingevano gli agricoltori ad investire molto comprando nuovi macchinari, fertilizzanti e nuovi terreni estendendo la modernizzazione alle campagne. La produzione aumentò molto e questo rese possibile l’aumento dei profitti degli agricoltori che così potevano ripagare i debiti contratti per modernizzare. Tutto questo funzionava, perché la domanda rimaneva alta e i profitti non calavano. Improvvisamente, però, ci si rese conto di un problema profondo e non ignorabile che consisteva nella presenza consistente di eccedenze agricole. Questo scatenò una crisi di sovrapproduzione: i contadini producevano troppo rispetto alla domanda e i beni alimentari rimanevano invenduti causando un drastico abbassamento dei prezzi dei prodotti agricoli. La conseguenza diretta di questo fu l’impossibilità degli agricoltori di saldare i debiti creando una falla nel sistema.

Non da meno furono i meccanismi che governavano i rapporti tra le grandi corporations. In questo periodo era molto frequente la pratica di comprare titoli di altre società senza pagarle subito, ma con la riserva di pagarle di più quando l’azione avrà avuto un valore maggiore. Come per il caso dell’agricoltura, questa dinamica fu efficace e favorì l’economia degli anni ’20, fino a quando ad un certo punto non crollò. Molti titoli, infatti, invece di aumentare il proprio valore lo perdevano e le società che ne avevano acquistato e che dovevano ancora pagarli si trovavano a non poter rispettare l’impegno non avendo i soldi necessari. Il meccanismo si blocca anche in questo caso e alimenta la crisi dilagante.

Alle cause seguono sempre le conseguenze e la crisi del 1929 ne ebbe numerose che interessarono l’ambiente e  la vita dei cittadini e degli Stati in tutte le loro sfaccettature. Le parti colpite – come gruppi sociali, come individui o come organismi statali – cercarono di rispondere al radicale cambiamento generato dalle nuove condizioni economiche, dovendo affrontare una situazione critica e avversa.

Innanzitutto, ci fu un forte aumento della disoccupazione, un aumento dei prezzi dei prodotti e grandi problemi di fame. Molte persone per tentare di sopravvivere si trasferirono verso Ovest dando vita a grandi migrazioni raccontate per esempio da J. Steinbeck in “Furore”. Una gran moltitudine si riunisce nelle periferie in grandi baraccopoli che prendono il nome di Hooverville, già citate all’inizio. Molti agricoltori, abbandonando le campagne, lasciarono grandi porzioni di terreno non coltivate che diedero vita al fenomeno delle dustbowls, grandi tempeste di sabbia derivanti dal processo di desertificazione.

La reazione degli Stati vide una serie di decisioni che pur non essendo state sempre organiche e coerenti, sono riconducibili a delle linee di fondo che hanno caratterizzato le proposte sia in America sia in Europa. Per questo motivo si può parlare di New Deal come modello di risposta alla crisi e non solo come politica introdotta da Roosevelt (il New Deal è il nome che viene dato al programma di aiuti e riforma promossi da Roosevelt a partire dal ’33). Queste caratteristiche comuni sono il nazionalismo economico, il protezionismo, l’abbandono del gold standard e la svalutazione della moneta, l’aumento della spesa pubblica, la pianificazione statale e la creazione di aree di influenza e di valuta comune.

Senza addentrarci all’interno di queste risposte e vedere ogni stato come le ha coniugate, è interessante notare in primo luogo che alcuni governi non hanno risentito particolarmente della crisi, o perché estremamente isolati e indipendenti dai mercati esteri, come l’URSS, oppure perché sin da subito hanno adottato queste misure di capitalismo gestito, per usare le parole di M. Mazower in “Le ombre della democrazia”, come la Svezia.

In secondo luogo, bisogna sottolineare la portata ideologico-politica della crisi e dei suoi effetti: in gioco non c’era solo la validità del capitalismo e la sopravvivenza dei cittadini, ma c’era l’ideale di democrazia che era incarnato dagli Stati Uniti. Il New Deal, quindi, si configura non solo come un progetto economico-sociale di rinascita, ma soprattutto come uno strumento politico-ideologico per confermare la forza della democrazia e delle libertà individuali da contrapporre alla nascita di regimi autoritari e totalitari derivanti dal crollo dei regimi democratici e dalla diffusione di idee antidemocratiche. Le risposte che sono state trovate per risolvere la crisi sono infatti lette in due modi diversi a seconda che il governo in questione voglia salvare la democrazia o scivoli verso delle tendenze autoritarie. Questo risulta evidente se si pensa che per stati come Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia: molti degli accordi tra imprese e lavoratori per salvaguardare occupazione e salari rimasero volontari; attraverso le ingerenze statali nel civile venivano aumentati i diritti individuali e si cercò di proteggere la libertà di consumare; vennero implementati dei sistemi di “Welfare State” che mettevano al centro l’individuo. D’altra parte in stati come Italia e Germania, espressamente autoritari, le misure salariali e di occupazione venivano imposte dal governo; le misure erano prese per rafforzare la nazione oppure il Volk (l’italiano fascista non è tanto un lavoratore con dei diritti ma sono braccia per costruire l’impero); venne introdotto un sistema di “Warfare State” che mirava non tanto al benessere dell’individuo quanto al metterlo nelle condizioni di combattere una guerra.

È evidente che il 1929 è stato un anno cardine dell’intero novecento, la cui crisi ha condizionato la storia successiva in maniera considerevole. Partendo da quello che è successo siamo passati attraverso le sue cause per arrivare alle sue conseguenze. Adesso perciò si può finalmente capire cosa significa quando si dice che il crollo di Wall Street ha presentato sia una sfida al capitalismo sia una sfida politico-ideologica sia una sfida sociale. L’economia mondiale viene estremamente trasformata, ma dopo alcuni assestamenti si può affermare che il capitalismo sopravvive e anzi rinasce più forte di prima ponendo le basi per il conflitto con il comunismo che lo interesserà nella Guerra Fredda. La democrazia viene messa profondamente in discussione e molte idee antisistema e antidemocratiche prendono piede e contribuiscono a dar vita a quei regimi totalitari che porteranno al secondo conflitto mondiale. Infine, la società è costretta ad adattarsi a delle condizioni di vita estremamente difficili che la trasformano sensibilmente, in un contesto nuovo in cui la povertà dilagante porta sullo stesso livello molte persone e nel quale si affermano nuove dinamiche e ne tramontano altre.

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