Album del giorno: “My 21st Century Blues” di Raye
Veduta esterna della Royal Albert Hall nel centro di Londra, sala da concerto in cui Raye ha tenuto a battessimo il live dell’album di debutto
È in rampa di lancio, anzi, è già una cometa esplosa nel cielo: con ben 6 statuette aggiudicate (tra cui Album dell’Anno) ai recenti Brit Awards (i “Grammy” inglesi, detta in soldoni), la giovane cantante Raye, all’anagrafe Rachel Agatha Keen, dimostra che non é mai troppo tardi per ridare lustro al genere soul.
O più in generale bisognerebbe parlare di musica black: il debutto vincente My 21st Century Blues é un compendio dell’intera esperienza culturale di un popolo, quello afro, che originatasi dalla tradizione di una terra lontana come l’Africa, è poi andata via via a contaminarsi con la realtà dinamica degli Stati Uniti, passando dalle terre rurali del Mississippi al contesto urbano di New York.
E se le mie parole forse non fossero abbastanza convincenti, il titolo in sé é un’esplicita dichiarazione su come l’approccio al materiale sonoro sia infatti da intendersi come una rilettura, in chiave moderna, delle radici americane partite oramai più di un secolo fa dal profondo sud del continente.
E per rimanere in tema “nero”, date subito un ascolto alla traccia numero 4, Black Mascara: il testo è un’audace testimonianza di una vittima di violenza, che non disdegna attraverso frasi tanto concrete quanto allusive riferimenti ambigui sui disagi e ferite provocate, psicologiche ma non solo.
Ancora più intrigante é soprattutto la musica (l’importanza delle strutture canoniche quali melodia, armonia e ritmo sono un aspetto prioritario nella produzione dell’album), rimarcata dall’incessante ostinato ritmico della base in sottofondo, e che a parole è scandito dalla ripetizione ossessiva della frase Look What You’Ve Done To Me (“Guarda cosa mi hai fatto”).
Al dì sopra della voce, come detto, si regge un impianto strumentale che deve molto al beat percussivo, evocatore di sensazioni ed emozioni perennemente avvolte da un fascino quasi atemporale, dove il sentore arcaico delle danze rituali si mescola alla dance contemporanea in salsa electro-pop.
Ma la vera chicca a completamento del progetto é il live-concert dell’album stesso, ora intitolato con un nome più consono al contesto regale della Royal Albert Hall: My 21st Century Symphony.
Raye compie effettivamente un salto tra due mondi: dalla musica di strada a quella invece di stampo conservatore e cosiddetta “classica”, in un gioco compsositivo e interpretativo scandito dal rigore della forma e libertà nello stile di comunicazione.
Due anime opposte ma fuse assieme che a ben pensare, cinquant’anni prima, avevano decretato parimenti la fama delle principali muse ispiratrici, quali Aretha Franklin o Nina Simone fra le tante, nel momento in cui portarono il jazz dentro la mecca della musica classica, la Carnegie Hall.
Raye idealmente ne ripercorre le stesse tracce e di fatto la sua estetica abbraccia tanto il linguaggio musicale codificato da secoli, quanto l’estrosa fantasia senza barriere della musica “di ghetto” aperta alle influenze più disparate: dalle moves del R&B al groove dell’hip-pop, dall’eclettismo del rock all’estemporaneità del rap.
Nel nuovo travestimento, l’organico emerge con pomposità di suoni e timbriche: dai cori che richiamano le radici ancestrali del canto spiritual e gospel, alle sezioni di fiati e ottoni che rievocano lo swing delle Big Band a cavallo tra le due guerre.
Ovviamente prestando attenzione al risultato finale che punta sì alla spettacolarizzazione, ma creando di fatto una narrazione vivace e colorata che si riallaccia all’esperienza teatrale degli intramontabili musical di Broadway.
Raye dà prova che si può fare ancora musica come una volta: quando le regole non erano ancora scritte e i generi non imposti a priori, quindi agli artisti tutto era concesso pur di appagare, in primis sé stessi, ma soprattutto coinvolgendo tutta la band(a) al completo come un giubilo di festa.
Simboleggiato non a caso dalla massiccia presenza di suoni squillanti e una base ritmica energica e dinamica, piena di vita come tramandato dagli avi che si riunivano un tempo a fare musica nella comunità di appartenenza.
Uno spirito di fratellanza che cominciò dagli anni di prigionia nelle piantagioni di cotone, per poi passare nelle chiese protestanti di quartiere, infine oggi diffusasi in tutto il mondo, tanto in quello reale quanto in quello digitale grazie alle piattaforme streaming, che eliminano le distanze al netto di pregi e difetti del sistema.
Raye non é una musicista sprovveduta o poco professionale: anche se abbandonò gli studi musicali, la sua formazione è consapevolmente maturata con autentica fame di imparare, comprovata dalla gavetta al fianco di artisti ben più famosi di lei (il nome di David Guetta vi dice nulla?), guadagnandosi infine la fiducia dell’industria discografica per il suo recente esordio da solista.
Il prestigio del risultato é scevro da fraintendimenti: sono i premi conquistati uno dietro l’altro a decretarne il successo del pubblico e della critica, ora più che mai ribadito dopo il concerto tenutosi nella sala più sofisticata del Regno Unito.
Ora deve solo continuare a fare ciò che un’artista deve fare: creare e all’occorrenza reinventarsi con nuove sfide, ovviamente senza fretta.
Infatti noi possiamo semplicemente attendere e nel frattempo gustare il denso album in ben due versioni: quella incisa in studio e quella dal vivo.
Il materiale è sufficiente per tenere occupate le vostre ore con della buona musica… qualche suggerimento?
Oltre a Black Mascara, per chi in cerca di toni più distesi e meno opprimenti, date un occhio a Mary Jane, ovviamente ascoltando la diversa resa tra i due adattamenti proposti… giusto per farsi un’idea di cosa significhi veramente fare una cover di una canzone senza quei “banalotti” espedienti della musica “commerciale” di oggigiorno.
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