Una notte in Italia

I nomi usati nell’articolo sono nomi di fantasia

La notte del 12 febbraio 2024, Anton è sdraiato sul pavimento in granito sotto i portici di via Vittor Pisani, di fianco alla stazione centrale di Milano. Ha i jeans strappati, un giubbotto grigio e un berretto nero. Accanto a sé, per terra, ha una bottiglia di rum e una chitarra. Quando mi vede, inizia a parlarmi in un’altra lingua, indica il posto in cui dorme, indica la stazione, alza le mani con i palmi verso l’alto, scuote la testa. Sul telefono ho una lista di domande che dovrei fargli. Continua a parlare, fa dei gesti, indica il mio telefono. “Bulgaria”, dice. Con google traduttore, proviamo a parlare. Lui legge le domande tradotte, ma non sa scrivere la risposta, risponde parlando in bulgaro e a gesti. Un po’, piano piano, ci capiamo. Ha tra i 40 e i 50 anni, è andato via dalla Bulgaria da poche settimane. Prima aveva anche uno zaino e un’altra chitarra, poi, mentre dormiva, glieli hanno rubati. Da allora, prima di sdraiarsi, con la cintura fa un giro intorno al polso e un giro intorno al manico della chitarra, poi la allaccia stretta. Indica la bottiglia di rum e il pavimento su cui dorme, e mima il gesto di tremare. In strada non riesce a dormire per questo: fa freddo e devi sempre stare attento ai ladri.

Secondo l’ultimo censimento ISTAT, Anton rientra nella categoria di persone che è più comune incontrare tra chi è senza tetto o senza fissa dimora: delle 96.197 persone classificabili come tali, più di 24.000 sono uomini tra i 35 e i 54 anni. Di quei 23.000 uomini, Anton rientra tra i 10.000 uomini stranieri o apolidi. Rientra anche tra quelle persone che non dormono in un rifugio. A volte è una scelta, perché alcuni dormitori offrono condizioni peggiori della strada, come nel caso del dormitorio di via Aldini a Milano, un tempo infestato dalle cimici da letto. Altre volte, come per i richiedenti asilo della provincia di Trento, dormire in strada è l’unica opzione, perché il sistema di accoglienza non ha abbastanza posti o ha requisiti d’accesso irraggiungibili. 

Nella demografia delle persone senza fissa dimora, però, ci sono anche le minoranze. Dall’altro lato della strada rispetto ad Anton, sempre sotto i portici di via Vittor Pisani, è seduta Sara. Sara ha 34 anni, indossa un paio di Nike Tn nere e mentre parliamo mangia un pacchetto di cracker. Qualche anno fa ha lasciato l’università ed è salita a Milano a cercare lavoro. Ha dormito prima a casa di amici, poi a casa di parenti, poi in un van. La sua, dice, è una situazione temporanea, perché sta cercando lavoro. Ha due figli, uno di pochi anni e uno di pochi mesi, ma non li vede da un po’. Secondo lei in strada non è facile dormire, ma il sonno, prima o poi, ti viene. Quando le offro del tè, Sara rifiuta. Se sei donna e dormi in strada, la notte è meglio non fare la pipì. 

Nei dormitori e in strada, come dice Sara, non si sta per forza tutta la vita. Lidia infatti sta per tornare in una casa. Ha quarant’anni e i ricci neri corti appena lavati, ancora bagnati. Nel locale lavanderia del rifugio in cui vive, a Milano nord, racconta che è in Italia dal ‘96 e a Milano dal 2000. Viveva in affitto in un appartamento da diversi anni, poi nel 2019 è partita per visitare la sua famiglia in Marocco per alcuni mesi. Quando è tornata, ha trovato una serratura diversa alla porta di casa sua. L’appartamento in cui viveva era stato sgomberato, tutte le sue cose non c’erano più. A quarant’anni, Lidia si è ritrovata con una valigia e nient’altro. Da lì, ha passato diversi dormitori, sempre lavorando nella mensa di un ospedale. Dalla sua camera da letto, è passata alle camere condivise dei dormitori, invase da cimici da letto. Il giorno in cui parliamo, è appena andata a vedere la casa in cui andrà a vivere. È una casa di 40 metri quadrati, senza mobili. È un giorno fortunato, perché è anche il giorno in cui ha finito le pratiche per ricevere la cittadinanza. Questo, dice, è il momento in cui ricomincia da zero. 

Nella sala comune pitturata di azzurro e illuminata al neon di un altro dormitorio, Ali ha un’idea diversa della vita che ha davanti. È seduto da solo a uno dei sei tavoli rettangolari, in una grande stanza con due macchinette e un televisore appeso al muro. Ogni tanto guarda verso il televisore, ogni tanto guarda fuori dalla finestra. Da dov’è lui, l’audio non si sente. Ali, quarant’anni fa era in Marocco, dove ha fatto il servizio militare e la scuola per elettricisti. È arrivato in Italia nel 1998 e ha lavorato per anni come elettricista, a volte con, a volte senza contratto. Poi, intorno al 2005, ha iniziato a bere. Con l’alcol ha perso il lavoro, ha perso la casa ed è finito in strada. Sempre per l’alcol, dice, è diventato violento ed è finito in prigione. Quando è uscito dalla prigione, non aveva soldi, né amici, né documenti, né una casa. Ha ricominciato a bere e a vivere in strada. Poi, dopo l’ultima volta che è stato in prigione, ha trovato qualcuno che lo aiutasse. Ora, dice, non beve da un po’, perché ha capito che l’unica cosa che può controllare è la scelta di bere il primo sorso. Dopo quello, non dipende più dalla sua forza di volontà, né dai suoi sette anni di sobrietà. Ali non lavora, perché ha problemi al cuore e alle ossa. Le persone di cui si fida sono pochi membri del gruppo di supporto per l’alcolismo. Ha una moglie che vive in Marocco e quando lo chiama gli ricorda lei che lo aspetta ancora. Nel Corano, mi spiega, è scritto che dopo sei mesi che sei lontano da tua moglie in realtà non siete più sposati, se no sarebbe troppo difficile. Quando non è agli incontri del gruppo di supporto, è seduto a quel tavolo vuoto, a guardare la tv, senza audio. Ora, dice, l’unica cosa che gli resta da fare è aspettare di morire. 

Da fuori, Anton, Lidia, Sara e Ali rientrano in un’unica grande categoria. Sono tutte persone senza tetto, e nella quotidianità, nel nostro sguardo, restano un’unica grande categoria a cui associamo schemi e giudizi, ma soprattutto paura. Paura di essere aggrediti o derubati, ma anche paura di essere avvicinati. Oltre alla paura che fa stringere a sé la borsetta quando si passa davanti a una stazione, c’è la paura che fa distogliere lo sguardo da una persona seduta a terra. Mentre della prima siamo consapevoli, della seconda preferiamo non parlare. Parlarne significa accettare che chi dorme in strada condivide molte cose con noi, dallo strumento che si suona al quartiere in cui si abitava. Davanti alla cintura stretta intorno al polso di un uomo sdraiato in strada, forse la nostra paura non è che lui ci aggredisca. Ciò che più fa paura è l’idea che un giorno, al posto suo, potremmo esserci noi.

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. Maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi