Brexit, 4 anni dopo: ne è valsa la pena?

Il 31 gennaio 2020, il Regno Unito finalizzava il suo travagliato processo di uscita dall’Unione Europea. Oggi, a distanza di 4 anni, l’impatto della cd. “Brexit” è un qualcosa di complesso da analizzare, e, ovviamente, ancora in pieno corso. In questi 4 anni, come ben noto, molti eventi di portata storica si sono susseguiti e intrecciati con tale avvenimento: la pandemia da Covid-19, l’escalation del conflitto in Ucraina, la recessione e le più recenti tensioni nella zona del Medio Oriente, che, specie negli ultimi mesi, hanno visto il Regno Unito direttamente coinvolto nella zona dello stretto di Bab al-Mandab. 

Dunque, con tutti questi intrecci, diviene piuttosto difficile rispondere al quesito se ne sia valsa la pena o meno, e rimane, indubbiamente, un’opinione estremamente soggettiva. Dall’altra parte, tuttavia, è chiaro come il processo di uscita dall’integrazione europea abbia avuto un notevole impatto sui settori chiave quali commercio, l’economia, l’ambiente, il clima politico e la società.

In primis, però, è necessario mettere in evidenza l’accordo che regola l’uscita dall’UE dello stato britannico: in conformità con l’Articolo 50 del TUE, che regola l’uscita degli Stati membri dall’integrazione europea, il cd. “EU-UK Withdrawal Agreement”, concordato nell’Ottobre 2019 ed entrato in forza il primo febbraio 2020, stabilisce i termini della Brexit.

Le principali aree che esso tange sono: le disposizioni comuni, ossia clausole trasversali per la corretta comprensione e funzionamento dell’accordo stesso; i diritti dei cittadini, ossia il diritto del milione di “Britons” e i 3 milioni di cittadini europei a vivere, lavorare  e studiare già presenti rispettivamente nell’Unione e sulle isole britanniche sia salvaguardato; disposizioni relative alla separazione; il cd. “periodo di transizione”: un lasso di tempo stabilito fino alla fine del 2020, assicurando l’applicazione della legge comunitaria in Gran Bretagna per tutto quel periodo, fornendo dunque maggior tempo ad amministrazioni, imprese e cittadini per adattarsi; la liquidazione  finanziaria, che assicura che UK e Unione onorino tutti gli impegni finanziari di quando il Regno Unito era ancora uno stato membro; l’assetto di governance, che assicura la gestione e l’attuazione dell’accordo; sono stati forniti inoltre protocolli su Irlanda e Irlanda del Nord, Gibilterra e le zone di sovranità britanniche a Cipro.

Gli ostacoli affrontati dal Regno Unito nel frattempo furono tanti e tali che, dopo che il primo accordo ebbe fallito la sua ratificazione nella House of Commons, il governo May cadde, portando ad elezioni anticipate che hanno visto trionfare Boris Johnson. Gli impedimenti principali erano, indubbiamente, lo stabilimento nuovi accordi commerciali con l’Unione e, in modo particolare, un tema delicato era come gestire il confine irlandese, una questione che persino sotto “BoJo” è rimasta poco chiara e piuttosto problematica.

Inoltre, ci sono stati problemi riguardo le politiche in materia di pesca, le regole di concorrenza e i meccanismi di governance, che hanno rappresentato le aree più spinose tra le due parti.

Dalla fine del già citato periodo di transizione, le relazioni commerciali tra le 2 entità sono regolate dal cd. “EU-Uk Trade and Cooperation Agreement”, meglio noto come TCA, entrato in vigore nel 2021, e che fornisce accordi  preferenziali in aree come beni e servizi, commercio digitale, trasporti ecc. Esso è suddiviso in 3 parti: un “Free Trade Agreement”, che copre una vasta gamma di aree; una stretta partnership sulla sicurezza dei cittadini al fine di contrastare il crimine, tenendo in considerazione che il Regno Unito, una volta estromesso dall’area Schengen, non avrebbe avuto gli stessi mezzi posseduti prima; un accordo orizzontale di governance, affinché si potesse dare un livello massimo di certezza giuridica alle imprese, ai consumatori e ai cittadini.

Il TCA tra UE e UK rappresenta una nuova e particolare modalità di integrazione differenziata esterna, di cui i cd. “association agreements” sono epitome. Ciò deve essere inteso come un inizio di una nuova relazione tra 2 entità piuttosto che un punto di arrivo, la quale è destinata a mutare di forma. Nondimeno, questo accordo è la chiave per capire come il commercio e l’economia britannica si siano evolute dopo la Brexit.

Nel 2021, quando il Regno Unito uscì dal mercato unico, le compagnie commercianti con l’Unione hanno dovuto affrontare nuove regole, che hanno sollecitato timori sui più di 550 miliardi di sterline che il commercio tra la Gran Bretagna e i paesi membri genera.

Nonostante un’iniziale crisi, il volume commerciale è tornato ai livelli pre-pandemici, ma si potrebbe contestare che sarebbe potuto incrementare ulteriormente qualora lo UK fosse rimasto uno stato membro. Lo stesso discorso si può fare per le importazioni, ma con una maggiorazione dei prezzi di beni fondamentali come quelli alimentari, per lo più proveniente dalla Spagna, che era già del 6 % ancora prima che la nota ondata di inflazione iniziasse. Inoltre, è necessario sottolineare come la Scozia abbia dovuto affrontare a un certo punto problemi di approvvigionamento di tali risorse basiche e di come tutto il paese a un certo punto abbia sofferto di carenza di carburante, con dinamiche che  hanno  ricordato la crisi del petrolio del ‘73.

Nonostante i produttori locali, specie coloro coinvolti nella produzione alimentare, siano diventati più competitivi, i dati dimostrano che il Regno Unito sia ancora in ritardo per quanto riguarda l’apertura commerciale rispetto al resto dei membri del G7 dalla Brexit, e tutti gli accordi commerciali con le ormai ex “terze parti” quali Giappone e Nuova Zelanda ad oggi paiono non aver dato ancora un contributo significativo.

Perdipiù, “Albione” sembra anche vivere oggi una carenza di investimenti esteri, con un declino costante cominciato all’indomani del referendum del 2016.

Un altro lato economico negativo della Brexit può essere individuato per quanto riguarda il lavoro e la migrazione: è stimato che ad oggi, nel paese, uscendo anche dalla libera circolazione dei lavoratori europea, la nazione britannica stia affrontando una mancanza di 430 mila unità di forza-lavoro, specie in settori chiave quali i trasporti, quello alberghiero e, come a noi italiani ben noto, nella sanità.

Eppure, si potrebbe sottolineare come la Brexit, in sé per sé, non sia mai stata una questione economica, ma di sovranità e che, comunque, sia tutt’oggi troppo presto per giudicare l’outcome economico, soprattutto tenute in considerazione le simultanee crisi già menzionate con cui essa si è intrecciata. Questi, indubbiamente, sono due validissime ragioni, pertanto, è necessario dare uno sguardo più approfondito al retroterra teorico della Brexit: “making Britain global again!”.

La domanda sorge spontanea: il Regno Unito, dalla sua uscita, ha riguadagnato la sua sovranità ed è ritornato globale?

Ancora una volta, la risposta potrebbe essere incerta, nonostante ci siano ancora più spie che ci evidenziano come, in questo senso, la Brexit sia stata ad ora un grosso fallimento.

Lo status, come ben noto, ha un ruolo fondamentale nella politica estera britannica.

Come ci insegnano le principali teorie delle relazioni internazionali, la protezione dello status è condizionata da fattori esterni e circostanze che plasmano la politica estera data lo scacchiere geopolitico in cui si è inseriti. Nel caso del Regno Unito, questo contesto è stato sostanzialmente alterato dall’uscita dall’UE, in modi da un lato penalizzanti, come non avere più voce nell’arena europea, dall’altro vantaggiosi, dal momento che Londra non è più vincolata dalle competenze esclusive UE.

Il principale obbiettivo dei “Brexiters”, tra cui Farage e Johnson, era quello di far tornare la cd. “Global Britain” come una fenice, come ai tempi in cui la politica estera britannica era regolata sulla base della “3 majestic circle theory”, in cui l’Europa e l’integrazione europea rappresentavano  il terzo, e ultimo, livello di importanza dopo il Commonwealth e il resto del mondo anglofono (di base gli USA). Tuttavia, dobbiamo tenere in considerazione che da allora il quadro geopolitico è profondamente mutato: il Commonwealth già dagli anni ‘60 perdeva rilevanza e nel ‘56 ci fu la Crisi di Suez; la Gran Bretagna oggi non è più un impero globale, e deve fare i conti con questo, a scapito dell’immagine che essa dipinge di sé: l’immagine di un glorioso passato e identità su cui i Brexiters hanno fatto fortemente leva per portare i Britons a votare per la loro causa.

La realtà è, invece, che, come menzionato in precedenza, ad oggi accordi con paesi come Nuova Zelanda e India non si sono dimostrati efficaci, mentre le intese con USA e Cina sembrano una lontana speranza: la Brexit, invece che migliorare le relazioni con il partner al di là dell’Atlantico, le ha solo complicate.

Dall’altra parte, invece, durante i governi Tories di BoJo e di Rishi Sunak, abbiamo assistito a molti passi indietro sulle iniziali premesse nei confronti dell’Unione Europea: l’esecutivo di Johnson ha dovuto letteralmente aprire una frontiera interna tra l’Ulster e la Gran Bretagna definito il “Northern Ireland protocol”; Sunak ha contrattato un’intesa sulla politica della pesca e celebrato il ritorno nel programma “Horizon EU”. Tale dietrofront implica che a partire dal corrente anno, il 2024, al fine di parteciparvi, il Regno Unito dovrà sborsare 2,5 miliardi di pound all’Unione. Inoltre, la recente implementazione nel dicembre 2023 del “UK Carbon Border Adjusted Mechanism”, creato sulla falsariga di quello europeo al fine di non essere tagliati fuori, rovescia completamente le logiche della Brexit, con il Regno Unito che oggi si trova ad implementare manovre coordinate, o per meglio dire, adattate a quelle dell’UE, ma senza partecipare al processo decisionale, e subendo quindi una luce di riflesso, in maniera passiva.

Se pensiamo, dunque, che la Brexit piantava le sue basi ideologiche in una sorta di rivalsa “neo-imperiale”, dipingendo un Regno Unito forte e indipendente, globale e sovrano allo stesso tempo, che avrebbe dovuto essere proiettato nello scenario geopolitico come una vera e propria “tortuga finanziaria”, capace, all’evenienza, di compiere una nuova industrializzazione, è chiaro come queste premesse siano lontane dall’essere raggiunte, se non addirittura tradite.

Tuttavia, va notato come la Brexit, a differenza di altre pressioni esterne, è una questione prettamente britannica, e pertanto il suo impatto sull’identità, sullo status e il ruolo del Regno Unito va considerato nel lungo termine, e sarà sostanziale e durevole.

Se si guarda però al livello socio-politico, d’altra parte, non possiamo dire che le cose stiano andando molto meglio: il referendum del 2016 ha evidenziato forti fratture nella società britannica, con aree nevralgiche, come Londra, la Scozia e l’Ulster fortemente orientate verso la permanenza, che si sentono oggi abbandonate. 

Dal 2016 si sono sostituiti ben 5 esecutivi, un caso alquanto unico in uno dei sistemi di governo più stabili come quello britannico, in uno stato di forte tensione tra le élite, portando a un incremento di fenomeni quali il “character assasination” (vedasi il caso di BoJo), o gli esecutivi caratterizzati da una forte instabilità, come quello uscente di Sunak, che ancora oggi paga i tremendi risultati dei 45 giorni di governo quella che inizialmente fu venduta dai media come la nuova “Iron lady”. 

Una (tragi)commedia dal sapore tutto italiano verrebbe da dire insomma, peccato che sia messa in scena oltremanica. 

Queste “bella intestina”, però, rischiano di prevaricare la bolla dell’élite economico-politica, dilagando nell’unità del regno, al punto che molti esperti oggi più che mai parlano di “Disunited Kingdom”: il 23 giugno 2016, il popolo scozzese ha votato “remain” con un margine del 24 %: 62 % contrari alla Brexit. Negli anni seguenti, i sondaggi hanno mostrato ancor di più un crescente supporto verso la membership dell’Unione. Come riportato dalla stampa scozzese e dal governo nel “June 2023 update”, la Brexit ha avuto un impatto fortemente negativo su molti aspetti della nazione situata sulle Highlands, rendendola più povera, peggiorando la qualità della democrazia, causando  una crisi del costo di vita, aumendando i costi delle imprese e la lista potrebbe continuare…

Su queste basi, in un’intervista rilasciata a Politico lo scorso 17 novembre, Humza Yousaf, il primo ministro della Scozia e leader del Partito Nazionale Scozzese, ha ricordato la vicinanza e l’importanza dei valori europei per la nazione scozzese, sottolineando come la voce e i voti del paese siano costantemente ignorati da Westminster, non solo trascinando la Scozia fuori dall’integrazione europea, ma imponendo anche la cd. “hard Brexit”. Ha inoltre rimarcato come una Scozia indipendente e parte dell’Unione sarebbe largamente supportata dalla volontà popolare e come questa posizione sarebbe decisamente vantaggiosa per gli scozzesi rispetto a quella a cui sono costretti al momento.

Si potrebbe sostenere qui, come analizzato dagli esperti, che, in realtà, dal punto di vista economico, l’indipendenza sarebbe deleteria, dal momento che, come evidenziato del 2017, l’economia scozzese è dipendente da quella del resto del Regno, con il 61 % delle esportazioni e il 67 % delle importazioni. In ogni caso, rimane chiaro come questa sia, un po’ come la Brexit stessa, una considerazione che va ben al di là dei fattori economici per un popolo fiero come gli scozzesi.

Un discorso simile si potrebbe fare per l’Ulster: anche nell’Irlanda del Nord il referendum ha rilevato una maggioranza di “remainers”. In aggiunta, dal 2016, molte cose son cambiate: nelle ultime elezioni, per la prima volta nella storia, gli unionisti hanno dovuto lasciare la guida del governo ai repubblicani del Sinn Fein, che peraltro si apprestano a vincere anche oltre il confine, nella repubblica, alle prossime elezioni. Tuttavia, il declino degli unionisti non è stato così drastico, e bisogna anche ricordare che, in virtù dell’Accordo del Venerdì Santo, l’esecutivo di Belfast deve sempre tenere conto della minoranza nella sua composizione. Rimane comunque evidente come esso sia un sintomo della crescente sfiducia nella Corona Britannica, ed è chiaro come la Brexit sia stato un fattore scatenante. Inoltre, altro fatto storico, i cambiamenti demografici non aiutano la causa: nel 2021, infatti, per la prima volta, la maggioranza della popolazione risultava essere cattolica, con il 45,7 % delle unità, a fronte del 43,5 % di protestanti, in una regione dove spesso e volentieri la propria fede coincide con l’appartenenza politica.

Ora più che mai è chiaro come se venissero tenuti referendum per l’indipendenza scozzese e l’unificazione dell’isola d’Irlanda, Londra ne uscirebbe malamente smembrata; bisogna, però, tenere in considerazione quanto siano realistiche queste opzioni di “opt-out”: se è vero che sarebbe sufficiente un voto popolare, è anche vero che questo voto popolare deve essere autorizzato da Londra, che pare difficile possa dare semaforo verde.

Altre frizioni e malcontento possono essere riscontrate in quello che è il cuore, specialmente economico, del paese: Londra e la City. Negli ultimi mesi, Sadiq Khan, uscito nuovamente vittorioso alle amministrative come sindaco di Londra, ha tuonato che, in base a un rapporto commissionato ai consulenti economici della Cambridge Econometrics, che ha stimato quanto velocemente l’economia sarebbe cresciuta se il paese avesse votato per la permanenza, la Brexit sia costata alla nazione 140 miliardi di sterline e un deficit che dall’attuale 6 % potrebbe raggiungere il 10 % nel 2035.

Questo mostra tutto il malcontento di una città che nel 2016 votò al 75,3 % per la permanenza e che rimane la più ricca d’Europa in termini di pil pro capite.

Se si aggiunge, inoltre, che, sulla base di dati raccolti da YouGov, solo l’8% dei Brittons considera la manovra un successo e il 66 % crede che il governo la stia gestendo in mal maniera, pare sempre più evidente come, ad oggi, anche nell’opinione pubblica, la Brexit risulta deludente e come forse, dovesse tenere oggi stesso un nuovo referendum, la risicata maggioranza dei “leavers” uscirebbe sconfitta.

Il Regno Unito è prossimo alle elezioni: dopo le recenti amministrative, che hanno visto una vera e propria disfatta dei Tories, Rishi Sunak, recentemente, e a sorpresa, ha annunciato che le urne si apriranno il 4 luglio. Una scelta strategica che arriva al fine di limitare i danni, non dando la possibilità ai Labours di spiegare le vele a pieno vento per la campagna elettorale.

I sondaggi danno in ascesa i Labours, con Starmer che si prepara a prendere la carica di Prime Minister dopo 14 anni di opposizione. Sull’altra sponda, per i Tories si preannuncia la mazzata elettorale più pesante da quella del 1997. Il fatto che Starmer, convinto europeista, domini i sondaggi, anche a scapito della corrente euroscettica del suo partito, rappresentata da Corbyn, pesantemente sconfitta nel 2019, è probabilmente uno dei sintomi del grave disappunto generato dalla Brexit.

In ogni caso, quello che è certo, come messo in evidenza da Starmer stesso, è che ora “alea iacta est”, ed è inutile piangere sul latte versato, e che quindi nessun referendum per rientrare nell’orbita dell’integrazione sarà tenuto.

Al di là che sia stato un successo o meno, c’è la sensazione che la popolazione britannica sia in questo momento straordinariamente stanca e esaurita dalla questione e che ormai sia compiacente, o rassegnata, del  percorso tracciato dal referendum del 2016.

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